Era un compito noioso. Come tanti altri, ma pagato. E ciò significava doverlo far bene.
-Partenza tra dieci minuti!-, esclamai, -Ognuno tenga d’occhio i suoi settori!-.
Il “sissignore!” che avevo sperato non arrivò. Arrivò una serie di conferme più o meno eterogenee mentre i vari militi prendevano posizione lungo le varie postazioni sui vari mezzi.
La loro assenza di disciplina mi lasciava basito, e stranito: possibile che non capissero? Stavamo muovendoci comunque fuori dalle rotte imperiali sicure, trasportando persone e merci da un punto all’altro. Carovane per gente che non poteva permettersi mezzi di altro livello. Molti pagavano con pochi, misere monete, altri con cibo, altri ancora con altro…
Il capo-carovana, che non ero io, accettava tutti, più o meno. Io di contro ero il povero bastardo che doveva far sì che tutti loro arrivassero vivi alla tappa successiva: ero l’addetto alla coordinazione alla sicurezza, il Magister Sicuritates, ma di fatto il mio compito era reso atrocemente più difficile dalla marmaglia che erano i miei sottoposti, gente svogliata, resa eccessivamente sicura dalla consapevolezza che, dopo le Purghe, l’Impero non aveva visto grandi battaglie per 200 anni.
Per loro, la sicurezza della carovana era garantita dalla lunga pace. Non per me.
-Non ti scaldare, capo.-, fece una delle guardie, un tizio untoso chiamato Burius, un uomo tarchiato col viso da faina e un piglio da furebtto. Come gli altri, brandiva un’arma a proiettili solidi, armi affidabili, adatte al deserto e alle condizioni peggiori.
-Come hai detto?-, chiesi, la rabbia che mi artigliava lo stomaco mentre lo fissavo.
-Ho detto che non ti devi scaldare. Non c’è nessuno la fuori! Sarà semplice semplice, poche orette di viaggio e poi saremo a bere e a scopare a Monstarius Ultimo.-, disse Burius, il viso rilassato. Io lo fissai, senza proferire parola, almeno non subito.
-Ma che cosa ti dice il cervello, Burius?-, chiesi sforzandomi di non sferrargli un pugno, -Non ti rendi conto che stiamo per attraversare una zona non protetta dai Milites Viarum? Non siamo mica in gita!-, la mia voce era salita, di poco, ma l’aveva fatto. Burius mi fissò, il ghigno ancora stampato in viso. I passi di un altro mi raggiunsero, Batiatus. Un abitante delle regioni d’Africa. Era un colosso nero come l’ebano e massiccio. Impugnava la mitragliatrice leggera con la disinvoltura con cui io impugnavo il mio fucile.
-Ha ragione lui, signore.-, disse con voce bassa e baritonea, -Qui la gente non attacca più i convogli da solo gli Déi sanno quanto. Senza contare che, con tutta la potenza di fuoco che abbiamo, non basterebbe una coorte a fermarci.-. Burius non disse nulla, ma si limitò a fissarmi con l’aria da: “visto che ho ragione?”. Fissai entrambi.
-Devo forse ricordarvi la magistrale razzia della Carovana di Lucullio Placido?-, chiesi a denti stretti, -O devo rimembrarvi il Sacco di Floria Decumana?-.
-Storie atrocemente vecchie, capo.-, Burius continuò a sorridere, -È da lustri che nessuno attacca più le carovane, e lo sai anche tu. Preghiamo che il vecchio non se ne renda conto, visto mai che ci lascia senza lavoro!-. La risatina di Burius e Batiatus mi diede solo sui nervi.
-Finché io comando questa dannatissima carovana, esigo che voi vi guadagnate ogni singolo Calus su cui metterete le mani.-, ordinai, -In posizione, ora. I passeggeri sono tutti a bordo e le merci sono assicurate. Manchiamo solo noi e il vecchio Ollianus non tollera i ritardi. Potrò anche essere il più impopolare capo guardie che vi sia mai capitato, ma non intendo tollerare che voi veniate meno al vostro dovere.-, mi rivolsi a Burius, occhi negli occhi.
-In quanto a te, vuoi arrivare vivo a bere e scopare a Mostarius? Allora occhi aperti e mano ferma. Potremo anche credere che non ci siano pericoli in vista, e magari è così, ma ciò non significa venir meno ai nostri obblighi, altrimenti a quel punto sì che il vecchio vi lascerà a piedi.-, conclusi. Il viso di Burius si contrasse in un espressione di sospetto. Cercava di essere un duro ma non era la sua espressione, semplicemente non era un uomo del genere.
-È una minaccia?-, chiese. Soppressi il desiderio di estrarre l’arma da fianco e sparargli.
-No.-, dissi, -È una constatazione. Il vecchio Ollianus ci tiene alla forma e io ci tengo a tenermi la vita. Due motivi per fare come dico. A meno che tu non voglia dire a Ollianus che è sicuro e assumerti le responsabilità di un errore, o prepararti a trovarti un nuovo lavoro.-.
Silenzio. L’avevo zittito. Si voltò e si arrampicò sul cassone del mezzo a metà del convoglio, affianco a Guissiano che operava l’arma pesante del mezzo.
Burius, Guissiano e Batiatus erano tutti ex-militi. Avevano fatto il periodo di addestramento e rinnovato la ferma salvo poi aver capito che l’assenza di guerre implicava la routine noiosa ma disciplinata, mentre l’eventualità della guerra implicava il doverla combattere. Nessuno di loro pareva brillare per ardore guerriero e quel lavoro era esattamente ciò che volevano: mostrare i muscoli correndo il minimo rischio, prendersi il loro salario e sperperarlo prima di ripartire per un altro convoglio.
Per me era diverso. Prendevo quel compito molto sul serio, più di quanto lo facessero loro, e prendevo l’idea di combattere come un eventualità tangibile, non perché l’idea mi piacesse ma perché era logico aspettarsi che potesse accadere.
Avevo iniziato a fare quel mestiere dopo aver tentato, e fallito, la carriera di Precettore. Era l’unico modo, a parte fare il mercante (professione che avrebbe richiesto capitali enormi anche solo per tentare…), per starmene lontano da una società che cominciavo a trovare oppressiva. All’alba dei trentacinque anni mi potevo ancora dire in forma, anche se affetto da una miopia che mi costringeva a portare degli occhiali specifici, e a dispetto di una tardiva istruzione marziale rispetto a molti altri. Eppure, nonostate questo o forse proprio a causa dei miei difetti, notavo di tenere alla disciplina e all’ordine più dei miei compagni di ventura.
In realtà, era una questione di semplice prudenza.
Gli altri membri delle guardie della carovana erano ex membri dell’esercito, o dei Prefectii. In pochissimi casi c’erano volontari autodidatti, semplicemente perché i capicarovana erano spesso esigenti, e Ollianus più di molti: alla veneranda età di sessantasei anni, avrebbe già potuto ritirarsi ma amava percorrere l’Impero e spesso uscire dai confini, ergo per lui la parola pensione era depennata dal vocabolario.
Avevo lavorato per tre diversi capi. Ollianus era il terzo e quello con cui potevo dire di essermi trovato meglio. Era un uomo arzillo a dispetto del fisico non più eccelso, ma mostrava una cortesia nei modi e una franchezza nel parlare che mi aveva più volte portato a vederlo come un esempio. Il capo precedente, Trivulio, era un crapulone come il Calus storico. Non perdeva occasione di mangiare e dava dei banchetti principeschi per ricordare a tutti quanto fosse disgustosamente ricco. Che poi avesse affamato interi villaggi sul limes dell’Impero per garantirsi quella ricchezza, erano solo voci ma il fatto che fosse morto durante un banchetto a seguito di quello che tutti capirono essere un avvelenamento, era prova certa della verità.
Il mio primo padrone fu una donna, Sufla Erinia Rea, una tirannica e dispotica che m’insegnò fuor d’ogni dubbio quanto realmente io tenessi a me stesso. Andarmene dal suo seguito fu una liberazione. Ollianus non fu mai né eccessivo nel bere, né nel mangiare. Non redarguiva senza motivo e non si sperticava in lodi laddove non serviva farlo o non erano meritate.
Era un individuo senza grilli per la testa, ma molto meno arrogante di altri. Umile, non sfoggiava la sua ricchezza, anche se si diceva che avesse abbastanza soldi da non riuscire a spenderli in tre vite.
Anche i veicoli che aveva non erano esattamente il top del top, ma erano comodi, spaziosi il giusto e soprattutto, affidabili: l’incubo di ogni guardia e ogni guidatore era proprio che il mezzo si fermasse nel bel mezzo del nulla, esposto ad arsura, gelo e soprattutto, predoni.
Predoni… Burius e gli altri non avevano interamente torto: durante e dopo la Guerra Civile, le bande di razziatori, da veri e propri eserciti di sbandati o dissidenti a una manciata di poveri disperati avevano imperversato per anni, ma erano stati lentamente sfoltiti.
Moltissimi avevano privilegiato la resa. L’amnistia proposta da Durso Gallianico, detta Amnistia Dursiana, aveva garantito che moltissimi accettassero il perdono e una vita tutto sommato dignitosa e tranquilla. Gli irriducibili, come i Venticinque di Dormaisu, erano stati braccati e uccisi dai Justicarii, o dalle forze di guarnigione dei limites.
E con quelle unilaterali schermaglie, era finita un’era. Le Legiones Imperialiis, i fieri eserciti eredi di Licanes, erano state ridimensionate in piccoli contingenti d’intervento rapido. I Prefectii erano divenuti la principale forza di lotta al banditismo insieme ai Milites Viarum e i Justicarii…
I Justicarii erano divenuti sgradevoli spettri, ognuno di loro, un memento vivente del passato.
C’era stato un tempo in cui erano stati guardie del corpo di uomini di stato, ma era stata una breve parentesi, conclusasi in fretta. Erano rapidamente passati da tolleranza e un senso di ammirazione, celata o palese, all’indifferenza, per poi divenire a tutti gli effetti il bersaglio di ogni maldicenza. I Justicarii erano uccellacci del malaugurio, dicevano taluni.
I Justicarii rapivano i bambini, dicevano altri. I Justicarii venivano pagati per intervenire o, peggio ancora, taglieggiavano coloro che salvavano…
Dal canto mio, ci credevo poco. Mi era difficoltoso immaginare quei campioni che avevano assistito Aristarda Nera durante la sua lotta contro Amsio Calus prima della Grande Pace, divenire meri briganti alla stregua di coloro cui davano la caccia.
Ma le maldicenze avevano comunque rapidamente sostituito l’ammirazione e per una persona che rammentava le loro passate gesta, ce n’erano almeno tre che sputavano sentenze. E i sermoni dei prelati non aiutavano: le Vestali della Dea Madre, i Sacerdoti di Kanshar, i seguaci del Figlio, l’Oracolo di Delphi, tutti questi augusti culti erano compatti a definire i Justicarii l’ultima vestigia di un passato mitico, intrisa di ferocia e oscurità.
Solo i sacerdoti di Yneas, Dio dei Morti, e i Monaci Zen-Shura accoglievano ancora favorevolmente i guerrieri nerovestiti. I primi vi vedevano degli uomini toccati dal Dio, i secondi avevano fatto voto di aiutare tutti gli esseri viventi, quindi anche i Justicarii.
Ma a parte quello, nessuno aveva fatto una mossa per invertire la silenziosa corrente di maldicenze che era andata espandendosi. E se era vero che i Justicarii erano comunque temuti e nessuno era così idiota da attaccarli apertamente, era pur vero che sempre più città vietavano loro l’accesso o imponevano loro di andarsene dopo brevissime soste. Molti locandieri negavano loro l’accesso, i Prefectii spesso parevano solo aspettare di avere una scusa per espellerli, o per arrestarli. Ecco, quello sarebbe stato un problema.
Non avevo mai sentito di un Justicar arrestato. Non credevo francamente possibile che accadesse, nella mia mente l’idea che avevo di quei guerrieri era semplicemente quella di uomini e donne incapaci di subire una simile ingiustizia passivamente. Eppure, resistere all’arresto sarebbe stato alla stregua di una dichiarazione di guerra. Era pur vero che…
Scossi il capo. Quella riflessione si era prolungata troppo.
-Allora?-, chiesi, -Siamo pronti?-.
-Capo…-, la voce di Burius ora aveva perso tutta la spocchia. Lo fissai. Fissava alle mie spalle, il fucile corto col calcio piegato in pugno, la presa tesa, ma senza puntarlo. Sicura tolta.
-Burius?! La sicura!-, ringhiai.
-Capo! Dietro!-, esclamò lui. Mi voltai. E persi un battito cardiaco. O tre.
Era immobile nell’afa, la veste nera in pelle sporca e chiusa. Doveva essere lì da un po’.
O forse era uno spettro giunto da qualche inferno. Solo uno spettro avrebbe potuto essere così silenzioso, no? O ero stato così distratto.
La cappa avvolgeva un corpo slanciato ed era sormontata da una testa dall’incarnato scuro, viso piacevole ma non grasso, il viso di chi ha vissuto sul filo del rasioio per molto.
I capelli parevano serpenti avvinghiati, trecce nere come la notte che cadevano sulle spalle.
La bocca era un taglio, inespressiva. Ma furono gli occhi a colpirmi.
Neri, biglie di ossidiana, abissi. Mi sorpresi ad accorgermi di star trattenendo il fiato.
-Justicar…-, sussurrai appena. Un nome pesantissimo.
-Una Justicar!-, ringhiò Guissiano con rabbia. Prese la mira con l’arma. Io mi voltai.
-Che diavolo stai facendo?!-, ringhiai a mia volta.
-Capo… non vorrai mica…?-, osò Burius.
-Quello che voglio è evitare che voi vi inimichiate delle leggende, idioti. Giù le armi.-, dissi.
Nessuno obbedì. Strinsi i denti. -Adesso!-, ordinai. E a quel punto, lentamente, le armi scesero in posa più rilassata. Mi volsi verso la guerriera in nero. Mi osservava con la stessa espressione, quasi che l’intero scambio non l’avesse riguardata, le mani lungo i fianchi.
Calma. Quasi apaticamente. Solo un vago movimento tradiva il respiro.
-MI scuso per il comportamento dei miei uomini.-, dissi. Lei inclinò appena il capo a destra.
Io non capii se fosse stato un modo di dirsi confusa o altro. In effetti, non capivo neppure se lei mi sentisse. Magari era sorda… O forse non voleva parlare. Preferii chiedere.
-Siamo in partenza.-, dissi, -Ti prego di essere celere.-. La fissai. Non mi avrebbe fatto nulla.
Almeno, così volevo credere. Avevo sempre creduto che i Justicarii fossero dei guerrieri nobili, capaci di comprendere quando dare la morte e quando non. Ma in quel momento, davanti a quella nera guerriera, non ne ero più certo.
-Vengo con voi.-, disse lei. La voce era priva di emozione, ma piacevole, a dispetto di tutto.
-Bisogna pagare!-, insorse Burius scendendo dal cassone del mezzo con rapidità notevole. Si parò davanti alla guerriera, al mio fianco, arma ancora in pugno, -A che io sappia, non navigate nei Calus.-, disse. Il silenzio che seguì fu teso. Burius sembrava a malapena consapevole del rischio che correva e anche io, solo in quel momento, potei realmente prendere consapevolezza del fatto che la guerriera avrebbe potuto decidere che il passaggio non valeva l’offesa subita. Se avesse scelto di reagire, sarebbe morta, ma non da sola.
Improvvisamente si mosse, rapida, ma non con la rapidità che temevo di vedere. Non sfilò la sua lama, ma la cappa si aprì lasciando intravedere una giubba in cuoio o forse altro, un coltello con un anello al termine dell’impugnatura e soprattutto, una cintura alla vita piena di tasche raffazzonate. Un vestiario da nomade, da viaggiatrice. Da assassina, anche.
Le mani della guerriera corsero a una scarsella allacciata alla cinta. Estrassero qualcosa.
Burius si avvicinò, arma in pugno, diffidente e timoroso. Il ghigno che fece capolino sul viso della guerriera sarebbe potuto apparire divertito, e forse lo era, mentre gli allungava le monete.
-Bastano?-, chiese mentre Burius finalmente mollava parte della presa sull’arma per prendere e valutare il contante.
-Forse. Ma io mica ti ci voglio sui miei mezzi. Quelli come te portano sfortuna, uomini o donne che siano.-, disse con un sogghigno, -E ti farei pagare ben volentieri un extra.-.
-Cauto.-, a quella parola, proferita con brutale freddezza, la destra della donna si posò con allarmante noncuranza sull’impugnatura del coltello. Io notai Batiatus puntare la guerriera. Sparando avrebbe probabilmente colpito anche Burius, forse anche me.
-Oh, avanti! Fai la tua mossa, uccellaccio!-, esclamò Burius.
La guerriera pareva non respirare, la mano stretta sull’impugnatura del coltello.
Io deglutii. L’avrebbe davvero fatto? Quell’idiota di Burius stava corteggiando la morte.
-Basta!-, esclamai. Mi misi in mezzo, tra i due, obbligando Burius ad abbassare l’arma.
-Capo, questa porta iella! Non ce la vogliamo a bordo!-, urlò Marlana, una delle poche guardie donna della carovana dal suo mezzo. Intanto numerosi passeggeri osservavano lo scambio.
-Non è una decisione che spetta a voi, e neppure a me.-, dissi io. La Justicar parve rilassarsi e io silenziosamente ringraziai gli Déi. Forse avevo evitato un bagno di sangue.
-Ben detto.-, la voce del vecchio Ollianus fece girare tutti, non solo me.
Il vecchio, a dispetto della sua non più giovane età, avanzava senza appoggiare troppo peso sul bastone e lo sguardo non pareva annebbiato dalla senilità, né la favella pareva incespicare mentre parlava. Raggiunse Burius, me e la guerriera in nero senza curarsi della tensione.
-Signore, no! Non…-, iniziò Burius. Ollianus non gli badò. Fissò piuttosto me.
-Hai detto bene, Alexander.-, disse, -Non sta a nessuno di voi decidere.-. Spostò lo sguardo sulla Justicar, senza alcuna superbia. Poi si rivolse a noialtri, tutti.
-Sta a me. E io, da quando ho cominciato a fare questo lavoro ho obbedito a una sola e unica regola: trattare gli altri come io stesso volevo essere trattato. Semplice, ottuso, ingenuo se volete, ma un comportamento che mi ha sempre permesso di addormentarmi sereno.-.
Si girò verso la guerriera, che pareva poco e niente impressionata da quel sermone.
-Chiunque possa pagare ha diritto a salire sui miei mezzi, fintanto che causa problemi.-.
Dai miei uomini, nessun fiato a quella frase. Tutti loro, e io con essi, sapevano bene quanto fosse inutile discutere con Ollianus, e non perché era lui a pagare.
Le regole le faceva Ollianus, per tutti noi. E quella regola aveva sempre garantito che nessuno desse grattacapi o fastidi. Se a qualcuno tali regole non fossero andate bene, eravamo liberissimi di lasciare il posto. Il vegliardo lo sapeva e attese che qualcuno di noi muovesse obiezioni. Nessuno disse nulla, anche se notai la contrarietà di Burius e Batiatus, oltre che di pochi altri. Di contro, la Justicar fece appena un cenno di ringraziamento con il capo.
-E ora a bordo: siamo già in ritardo.-, concluse Ollianus. La gente prese a salire, ultima tra loro la guerriera in nero che si posizionò sul secondo mezzo della colonna.
Ollianus mi fermò mentre salivo a bordo del mezzo.
-Tienila d’occhio.-, disse. Io lo fissai, incapace di tacere.
-Credevo ti fidassi di lei.-, dissi, -Mi era parso che avendo pagato, non ci fossero problemi.-.
-Infatti non è lei il problema.-, disse il vecchio con tono secco.
Sarebbe stato un viaggio difficile, me lo sentivo. Gli sguardi di Burius e degli altri non fecero che confermarmi la cosa.
La partenza fu esattamente come tutte le altre: graduale e ponderata. Mentre i mezzi si muovevano, mi capitò di ripensare ai Justicarii.
Erano guerrieri avvolti dal mito, ma sorprendentemente furitvi. Evitavano oggi come secoli fa la notorietà, preferendo ruoli nell’ombra. Erano uomini e donne che sacrificavano ben più che la semplice vita: sacrificavano anche la possibilità di perire venendo onorati e celebrati.
Ed ora erano visti come dei portatori di sventura.
-Tramius, Varn? Situazione davanti?-, chiesi.
-Nulla da segnalare, capo. Sarà un viaggio tranquillo!-, la voce di Varn, ancora macchiata da un accento barbaro tipico delle regioni del Nord del fu Impero di Licanes, mi rispose con tono giovale e sicuro. Sospirai. Erano tutti sicuri che sarebbe andato tutto bene e, a rigor di logica, i fatti sembravano dar loro ragione. Allora perché mi ostinavo a preoccuparmi?
“Perché mi pagano per questo, stramaledizione!”, pensai.
Il mezzo di Varn e Tramius era quello più avanzato. L’apripista. Un mezzo-esca solitamente con poco o nessun carico. Dietro c’era il mio mezzo, un solido articolato composto da due serie da quattro ruote ciascuna con spazio sufficiente per diverse persone o merci. Stavolta era pieno a mezzo delle prime e delle seconde. Dietro ancora c’era il mezzo di Burius e Batiatus, carico di merci e con il resto dei passeggeri. A chiusura della colonna, il quarto mezzo, un semplice trasporto militare riadattato alla meglio per compiti di retroguardia.
La pista era di sabbia, latrite e dune. Deserto. La steppa atroce della Desolatio Sarmatica.
L’Impero di Licanes si era spinto sino a quelle distese grazie a Nimandeo Feral, prima che tradisse durante la Guerra Civile, ma quelle lande erano desolate e non celavano alcuna ricchezza che interessasse i popoli civilizzati. Sporadici villaggi di pastori avevano saputo mettere radici tra le vaste aree desertificate dall’epoca del Cataclisma, ben prima dell’avvento dell’Impero, ma la realtà era che quei luoghi erano inospitali e nessun progetto di colonizzazione era stato mai supportato. Persino i messaggeri della Confederatio, all’indomani della fine della Guerra Civile, dovettero riconoscere che l’avanzata tecnologia e le conoscenze dell’Impero non potevano colmare il divario dovuto alle condizioni di vita proibitive della steppa.
Non ero stato spesso da quelle parti, ma la convinzione che fosse un luogo inospitale e inadatto a sostenere la vita pareva sufficiente a permettere ai miei sottoposti per credere che la situazione fosse tranquilla. Luduldus, accanto a me, sorrise.
-Visto? Niente da segnalare. Ed è così da quasi un’ora.-, disse, l’arma in pugno ma con una rilassatezza che trovai insopportabile.
-Niente da segnalare, capo. Abbiamo via libera.-, disse Varn dal mezzo di testa.
-Capo, sei troppo teso. Senti, scendi sottocoperta un istante. Qui ci guardo io.-, disse Luduldus con un sorriso e il tono affabile di chi vorrrebbe solo il tuo bene.
-No. Io resto. È il mio dovere.-, dissi. D’un tratto, percepii un movimento da sotto. Eravamo sul pianale del mezzo, sopra un cassone riadattato più volte per ospitare uomini e merci. Mi volsi verso la botola e vidi la Justicar emergere dalla scaletta.
-Che diavolo ci fa qui?!-, chiese Luduldus. Lei non lo degnò di uno sguardo. Di fatto, parve fissare un punto indefinito all’orizzonte verso est.
L’aria dovuta alla velocità del mezzo e il vento facevano sì che le trecce della giovane ondeggiassero quasi fossero state dotate di vite proprie, così come la cappa nera.
La donna fissò il vuoto per minuti, come assorta in un qualche pensiero ignoto.
Luduldus imprecò e scese dalla scaletta. Io non lo fermai.
-Saremo a Monstarius Ultimo tra poche ore.-, dissi. La guerriera annuì, senza parlare.
Era una taciturna, lo vedevo. Probabilmente sarebbe stata l’unica opportuinità della mia vita di vedere un Justicar, e personalmente avevo delle curiosità che non osavo esprimere, ma non intendevo neppure vessarla con le mie insistenze.
-È un luogo spoglio.-, disse all’improvviso lei. Annuii a mia volta.
-Parla di desolazioni avvenute millenni or sono.-, disse la Justicar. La cappa nera doveva essere pesante in quell’ambiente. Doveva farle un caldo pazzesco, ma la donna non pareva ricettiva al calore, o ad altri fattori esterni.
-Queste terre…-, dissi io frugando nella memoria tra le nozioni sul Cataclisma, -Furono mutate irrimediabilmente. Si narra di armi devastanti, di pestilenze e di devastazioni. Gli déi non hanno avuto pietà. Strabone Giarmanio ha parlato di desertificazione estesa. Un tempo, erano terre più fertili.-. La nera guerriera annuì, lo sguardo fisso verso il nulla.
-Fertili.-, ripeté, quasi assaporando la parola con le labbra.
-Sì. Erano… un granaio, ho letto. Strabone parlava di coltivazioni. Supponeva.-, dissi.
-Fertili.-, ripeté di nuovo lei. Scosse il capo, -Pare incredibile.-, disse.
-Già.-, ammisi io. Lei si voltò, fissandomi. Gli occhi parevano ancora biglie di ossidiana sul fondo di abissi oscuri. Forse, qualunque cosa avessero visto quegli occhi, erano rimasti segnati. Sostenni lo sguardo. Non volevo abbassarmi a farle credere di aver paura di lei.
-Buenariva.-, disse lei all’improvviso. Buenariva… Mi era in qualche modo noto…
-Buenariva?-, chiesi, come inebetito. Lei annuì, senza smettere di fissarmi.
-Il nome è Ghanima Buenariva.-, disse lei. Io annuii, improvvisamente imbarazzato.
-Alexander… Solo Alexander.-, dissi io. Lei annuì a sua volta. Porsi la mano. La fissò.
Poi la strinse. Una bella stretta che mi fece capire che quella donna non era certamente un’attrice o una truffatrice in vesti leggendarie. La sua forza era notevole, e ne aveva impiegata poca. Anche le braccia, che ora potevo vedere nude sino alle spalle, erano modellate dall’esercizio fisico.
E infine, il mio cervello realizzò mettendo assieme gli indizi: Buenariva… la carnagione eburnea, gli occhi… Le narrazioni dell’epica della Guerra Civile mi sovvennero.
-Tu… sei una discendente di Hortensia Buenariva.-, dissi.
-È così.-, disse lei senza orgoglio. Mi fissò, apparentemente meditabonda.
-Lei a sua volta discendette da una leggenda. Christinae, mi pare?-, chiesi.
-Christine.-, corresse Ghanima con accento straniero semplicemente curioso sull’”e” finale.
-Sì… Si dice che lei fosse… una dei primi di voi.-, dissi io. Ero in presenza di una leggenda.
-Lo fu. Mia nonna e mia madre hanno parlato di lei in questo modo.-, confermò lei.
Mi sorpresi a sentire sete. Cercai la fiasca d’acqua che portavo alla cintola. La trovai.
La offrii senza pensarci troppo alla donna in nero. Ghanima accettò. Prese la fiasca sfiorandomi appena la mano mentre beveva un sorso misurato. La ripresi e bevvi.
Rimanemmo in silenzio osservando il deserto.
Verso sera, avvistammo le luci di Monstarius Ultimo.
Monstarius era più una sorta di avamposto della civiltà di frontiera prima del grande nulla, piuttosto che una vera e propria città. I magistrati locali erano gente schietta ma abbruttita dal posto in cui vivevano. Lo stesso si poteva dire degli edifici: non c’erano i palazzi svettanti verso l’alto, le insulae tipiche delle città imperiali. C’erano invece numerose strutture a tre piani, in calce e cemento, edificate con metodi antichi, sebbene provviste di numerosi comfort.
Anche la gente era diversa: accolsero il nostro arrivo senza particolare calore, ma con curiosità. Diversi dei mercanti che avevamo a bordo credettero di poter sfruttare il sentimento per intavolare trattative e guadagnare cospicue somme. Furono delusi: la povertà di Monstarius impediva ai suoi abitanti di cimentarsi in acquisti eccessivamente dispendiosi, e molti mercanti rimasero a bocca asciutta.
Di contro, Burius poté effettivamente realizzare il suo proposito. Appena arrivammo si piantò alla locanda più vicina, ordinando cibo e bevande. Presto tre bellezze locali decisamente agghindate e profumate, oltre che prive delle inibizioni tipiche delle donne dabbene, gli si fecero dappresso. Burius non si fece pregare e offrì da bere a tutte loro. L’epilogo della serata per lui era ovvio. Meno ovvio era il fatto che Batiatus e altri si fossero messi a giocare d’azzardo con i locali. Io di contro, me ne stetti sul confine della cittadina.
Non volevo onestamente mischiarmi a quel baccanale e sentivo che presto saremmo entrati in un territorio ostile dove tutto sarebbe potuto accadere. Il che significava guai.
Sperai che per allora, Burius e gli altri avessero capito che non eravamo più esattamente in zona sicura. Di contro, la Justicar, Ghanima, pareva ben più consapevole. Più simile a me.
E allo stesso tempo era enormemente diversa da me. Eravamo simili sotto quel mero aspetto.
Osservai il cielo. Stelle. Un tempo l’umanità aveva dato nomi alle stelle, e forse aveva cercato di raggiungerle. E forse il Cataclisma era stato un giudizio dell’arroganza che avevamo nutrito con tanta leggerezza…
Il cielo era bellissimo. Mi lasciava un senso di completezza che non provavo da un po’.
-Guardi le stelle, eh?-, chiese una voce. Ollianus mi sorrise sedendosi accanto a me.
-Sono stupende.-, dissi senza fiato. Il vegliardo mi sorrise nuovamente.
-Sai, mio padre ha parlato spesso di tempi passati. Non li ha vissuti, ovvio, ma all’epoca prima di Licanes, prima del Cataclisma, si pensava di poterci arrivare, su quelle stelle. Chissà se qualcuno ce l’ha fatta? Io da piccolo avrei voluto arrivarci. Ma ovviamente, non era possibile. È questo che mi ha spinto a viaggiare.-, disse con tono sognante.
-Credo sia questo a spingere la gente a viaggiare: il desiderio di nuovi luoghi, di nuove vie, ancora inesplorate.-, dissi io. Ollianus scosse il capo, fissando il vuoto.
-Non tutti.-, disse piano, -Non tutti.-.
Seguii il suo sguardo: era palesemente rivolto alla taverna da dove si udiva il baccanale.
Dovevo aspettarmi problemi? Sì, avrei dovuto aspettarmeli. Ma per quella sera, i problemi potevano aspettare, almeno qualche ora.
Raggiunsi il mio posto sul cassone e mi assopii dopo qualche minuto.
L’indomani, il cielo era crudelmente blu. I mercanti imprecavano contro la scarsa fortuna, i bambini risalivano a bordo e anche Burius si trascinò in posizione, apparentemente soddisfatto della nottata trascorsa. La Justicar, Ghanima, pareva aver trascorso la notte da sola, lontano da occhi indiscreti. Nessuno l’aveva aggredita, o era morto per mano sua, almeno in apparenza, e già quello era un piccolo miracolo: la reputazione dei Justicarii era ancora uno scudo formidabile, anche se ammantata di oscuri presagi.
Bisognava dire che lei era discreta, anzi, furtiva. Ne ebbi prova quando la vidi camminare per raggiungere le provviste della carovana. I suoi passi erano felpati, silenti.
“Quelli di una predatrice del vertice.”, pensai considerando che come assassina sarebbe stata pagata cifre in grado di concederle una decina di esistenze agiate, e altrettante come ladra o come guardia del corpo. Mi sorpresi a pensare che i Justicarii possedessero tali abilità senza mai cadere nella tentazione di utilizzarle per il proprio tornaconto, anche in modo innocente. Non lo facevano, che io sapessi. La domanda immediatamente successiva fu: “Perché?”. Era un loro codice morale? Una loro proibizione vincolante?
O forse semplicemente non gli interessava farlo. Agi e ricchezze potevano incantare uomini incatenati a esistenze misere, ma i Justicarii vivevano tutto sommato bene, anche ora che il mondo intero pareva considerarli dei portatori di sventura. Non necessitavano più di quanto avessero, almeno così pareva. Ma non desideravano altro? Non avevano mai provato il desiderio di una vita diversa? Un’esistenza più tranquilla, un lavoro che non implicasse rischiare di morire? Una famiglia con cui invecchiare e infine perire?
Questo avrei dovuto chiederlo a Ghanima, ma non mi azzardavo a farlo e non ero il solo a temere di avvicinarla: nessuno pareva volerle parlare, e lei non pareva disturbata da ciò.
Pareva indifferente all’atteggiamento degli altri, forse semplicemente perché nella sua vita aveva affrontato prove e superato ben altri ostacoli, al cui confronto, il disprezzo di sconosciuti, altro non era che un trascurabile fastidio.
Non parlava se non era necessario. La nostra conversazione del giorno prima era stata una parentesi brevissima, forse lo strappo a una regole comportamentale cui si atteneva fermamente, chiudendosi nel silenzio e nell’attesa. Nell’attesa dell’azione?
Era così? Presagiva la tempesta? O la bramava? Era vero? Erano davvero così sanguinari?
La vita per loro valeva tanto poco? Improvvisamente mi accorsi che Ollianus stava segnalando la partenza imminente. Guardai una giovane coppia scaricare i propri averi. Per loro, Monstarius Ultimo era la fermata d’arrivo. Non mi importava sapere perché: non ero pagato per quello. Leatus, uno dei più affidabili e professionali della scorta armata, mi si avvicinò.
-Fin qui tutto bene.-, disse, -Anche la Justicar non ha dato problemi.-.
-Ti aspettavi lo facesse?-, chiesi. Lui parve pensarci, poi scosse il capo.
-Non realmente. Mio nonno mi raccontava di questi tizi. Guerrieri che sembrano posseduti da qualche demone quando combattono, ma persone civili e cortesi in ogni altra circostanza. Questa non sembra diversa, anche nonostante l’inizio della sua… trattativa.-, rispose.
-Alla fine non sta facendo nulla di male.-, dissi io.
-Lei no. Burius e gli altri… non la vogliono a bordo. Non mi sorprenderebbe se cercassero di farla fuori. Ho sentito Burius parlarne con qualcuno…-. La frase di Leatus mi fece attorcigliare le budella. Uccidere un Justicar non era impossibile, ma di certo provarci era un enorme rischio, e anche in caso di successo si diceva che l’uccisore avrebbe dovuto guardarsi le spalle per il resto della vita.
-Sono diventati pazzi?!-, chiesi sgomento. Non osavo neppure immaginare cosa sarebbe accaduto, né in caso di un loro successo e neppure se avessero fallito.
-Parlano di opzioni. Non la vogliono a bordo. Parlano…-, Leatus parve combattere contro sé stesso per continuare, -Parlano di venderla alle popolazioni barbare.-.
-Venderla?! Ma hanno una vaga idea di che cosa sappiano fare quelli come lei?! Burius deve aver preso del vino drogato, ma drogato pesantemente!-, esclamai.
-Ascolta, Alexander. Io te ne ho parlato perché sei mio amico e un capo che ammiro e rispetto, ma loro… non so quanti del nostro gruppo abbiano scelto di avallare questa pazzia! Non sono neppure sicuro che si fermeranno se glielo ordinassi.-.
-Dovrei lasciarli fare, mi stai dicendo. Lasciare che l’aggrediscano…-, mi si serrarono i pugni.
-Comunque vada, scorrerà sangue. Non possiamo evitarlo.-, rispose Leatus.
-E a te va bene?-, chiesi. Improvvisamente capii che lui non si considerava parte del problema, quanto un osservatore esterno e neutrale.
-No. Ma che possiamo fare? Avvertire la Justicar vuol dire che Burius e chiunque lo seguirà in questa follia moriranno. Non farlo vuol dire che forse sarà lei a morire. Sempre di morte si tratta. Non voglio queste vite sulla mia coscienza, Alexander.-.
“Vita…”, pensai io, “Sostentata dalla morte…”. Rabbrividii nonostante il caldo.
-Dammi il cambio.-, dissi.
-Alexander… Non lo fare. Ti farai dei nemici. Io…-, sentii la sua mano sulla spalla, me la scrollai di dosso. Ero disgustato: Leatus avrebbe accettato questo, avrebbe chiuso gli occhi e voltato il capo dall’altra parte, dando le spalle, come tantissimi altri.
-Dammi il cambio.-, ordinai, -E stai zitto.-. L’espressione di Leatus si pietrificò nella vergogna.
-Alexander…. Io…-, non lo guardai neppure. Non mi fermai.
-Hai fatto una scelta. La tua. Bene. Io ho fatto la mia. Vivrò con essa, ma a testa alta.-, dissi.
Ghanima Buenariva pareva una statua. Era seduta sui talloni alla maniera dei monaci Zen-Shura nella contemplazione. Pareva appena muoversi durante l’inspiro e l’espiro.
Ero timoroso di disturbarla, ma mi feci forza. Avevo fatto una scelta, ed era giusto che vi restassi fedele.
-Ghanima…-, osai. Lei aprì gli occhi. Mi fissò. Occhi negli occhi, per un istante.
La nera guerriera era avvolta nella tipica cappa dei Justicarii ma la postura tradiva un rilassamento consapevole. Vulnerabile? Ne dubitavo. Se metà delle leggende su di loro erano vere, prendere di sorpresa un Justicar era arduo.
-Perdonami. Ma devo avvisarti. Burius e altri… Io non so quanti… Loro vogliono ucciderti… o rapirti. Li ho sentiti.-, dissi mentre mi avvicinavo sino a fermarmi a tre passi da lei. Non c’erano altri in quello scomparto: nessuno voleva la compagnia della Justicar.
Silenzio. Ghanima continuò a fissarmi, immobile salvo per l’impercettibile moto del respiro.
Passarono minuti, lunghi come eoni.
-Ghanima…-, ripetei. Lei annuì appena. Un moto lento, consapevole.
-Ti ho sentito.-, disse. Io annuii a mia volta. C’era solo un’ultima cosa che volevo dirle.
-Burius… e chiunque altri voglia fare questa follia… Loro sono dei miserabili, ma ucciderli non migliorerà la situazione per te o per il tuo Ordine.-, dissi.
-Questo non importa.-, rispose Ghanima. La sua voce pareva fredda, distante.
“Come se avesse già deciso di uccidere.”, pensai.
-Ghanima…-, esitai, -Justicar… Ti prego. Non venir meno a ciò che foste nel passato, fulgidi esempi di rettitudine.-. Mi accorsi di star implorando, -Gli altri passeggeri…-.
-Ho già detto che non importa.-, rispose la guerriera in nero. Si alzò. Lentamente. Quanto era stata seduta? Minuti? Ore? La sua contemplazione l’aveva forse rafforzata contro il dolore alle caviglie o era forse abituata tanto da non sentirlo?
-Hanno fatto la loro scelta.-, disse Ghanima. La voce di lei ora pareva acciaio vibrante.
-Io ho fatto la mia. Non intendo permettere…-, iniziai.
-Loro non baderanno a ciò che tu permetti. Hanno già deciso di agire, non importa cosa tu possa pensare di ciò.-, rispose lei, secca. Io esitai. Lei mi fissò.
-Ti fa rabbia.-, disse. Nessuna domanda: lo vedeva. Io annuii.
-È come se a nessuno importi… Morale, etica… legge! Proprio vero che gli déi hanno abbandonato queste terre con le azioni di Septimo Nero e il suo sacrilegio…-, dissi.
-Septimo oltraggiò gli déi, ma è da ben prima che essi hanno voltato le spalle all’umanità.-, rispose la Justicar. Bevve dell’acqua da una borraccia che aveva estratto dalla cinta. La riposizionò, di poco.
-E vedo che a nessuno importa.-, dissi. Ora provavo sdegno, dolore.
-A nessuno è mai importato.-, sussurrò Ghanima, -Salvo a un uomo, molto prima del Cataclisma. Lui riunì i primi di noi. Poi, dopo il Cataclisma, gettò le basi del nostro Ordine.-.
Io non osai parlare. Annuii e basta mentre Ghanima apriva la cappa di pelle nera. Sotto di essa, una giubba senza maniche dello stesso colore e pantaloni aderenti neri.
Mani e braccia si mossero, sciogliendo nodi, togliendo dalla cintola tasche o bisacce, riposizionando tutto con agili gesti. Non era un caso, notai, era una preparazione. Aveva predisposto le tasche lungo i fianchi, spostato una teoria di ferri lungo il fianco. Li indicai.
-Cosa… cosa sono?-, chiesi.
-Shaken.-, rispose lei. Parola che, nella lingua di Licanes, suonava aliena. La fissai, aspettandomi altre spiegazioni.
-Parte del sete di Shuriken. Ferri da lancio. Lame bilanciate.-, spiegò Ghanima. Ne estrasse una. Erano dischi, no, stelle a sei e otto punte. Armi acuminate.
-Armi da assassini.-, dissi io, -Le usarono gli agenti di Calus…-. Lei annuì senza parlare.
-Niente armi da fuoco?-, chiesi io. Scosse il capo.
-Fanno troppo rumore, sono inaffidabili e dipendono dalle munizioni e dalla bravura di chi tira.-, disse mentre sfilava la borraccia e la riponeva a terra. Annuii. Era un parere che capivo.
-Penso sia giusto che io vada.-, dissi. Ormai ero rassegnato: si sarebbe difesa.
E probabilmente questo avrebbe significato vedere del sangue versato. Suo o altrui.
-Alexander.-, disse lei. Mi fermai mentre uscivo. Mi girai. Lei mi fissò.
-Grazie.-, disse soltanto.
-Ghanima… Ti chiedo solo… non ucciderli.-, dissi infine, osando un’ultima volta.
-Non posso farti promesse.-, rispose lei. Annuii. Uscii.
Il giorno proseguì il suo scorrere senza incidenti. Leatus non osò chiedere o rivolgermi la parola e io mi chiusi in un ostinato mutismo che rompevo solo per dare pochi ordini o riprendere i distratti. Non mi curai neppure dell’ilare battua ai miei danni fatta da Madea, l’altra donna della spedizione. Mangiai poco e rinunciai al sonno.
Attendevo. Attendevo di sentire grida e imprecazioni, urla di furore e di dolore.
E pregavo con tutta l’anima che non finisse… come?
Con la morte di Ghanima? Con quella di qualcuno dei miei compagni che ero, seppur con qualche eccezione, giunto a rispettare? Come poteva finire bene? Era intollerabile!
Mi sorse il desiderio di essere lì. D’impedire se possibile il disastro.
Scesi rapidamente dalla vedetta agli scompartimenti e oltrepassai diverse cabine dell’articolato sino a raggiungere l’alloggio della Justicar.
La porta era aperta. Il mio cuore balzò un battito: ero arrivato tardi?
Quell’attimo di esitazione mi costò assai caro: sentii una lama sulla gola e una voce nota all’orecchio. -No, comandante. Tu te ne stai zitto e buono mentre noi facciamo quel che va fatto.-, la voce di Madea era brutalmente determinata.
-Madea… Vi prego…-, dissi.
-Silenzio! So benissimo che ci ringrazierai. La Justicar ci farà ammazzare, poco ma sicuro. Quelli come lei sono rimanenze di un epoca passata. Non ci serve. La sola cosa che dovrebbero fare lei e quelli come lei sarebbe capirlo.-, sibilò Madea.
Improvvisamente dall’interno della cella giunsero urla e rumori di lotta.
-Siamo in quattro, lei è da sola. Finirà in fretta.-, disse la mia rapitrice.
-Sì. Ma non come credi.-, risposi io.
-Un’altra parola e ti ammazzo.-, minacciò lei. Io emisi un riso breve e strozzato.
-Davvero? Oh, Madea, posso solo immaginare cosa farà Ollianus! Uccidere un passeggero e il Magister Sicuritatae? Dovete davvero aver perso il senno!-, esclamai.
D’improvviso un rumore come di un ramo secco che si spezza fu seguito da un urlo.
La voce pareva quella di Batiatus. Un corpo cadde a terra.
-Fossi in te andrei a dar loro una mano.-, dissi.
Madea non rispose ma fece appena un abbozzo di movimento verso la porta scorrevole aperta. E improvvisamente, vidi. Vedemmo lo scontro.
Ghanima stava in piedi, postura marziale a guardia alta, in una stanza in cui pareva fosse esplosa una bomba. Aveva tolto la cappa e aveva tutto l’aspetto di una pantera pronta a scattare. Alla sua destra, Burius gemeva sul pavimento, tamponandosi una ferita alla spalla sinistra dovuta a un ferro da lancio, Batiatus a sinistra si teneva un braccio innaturalmente piegato con la mano sana e Alcinus fronteggiava la Justicar con un coltello in mano. Notai che Ghanima non aveva estratto il suo, di coltello.
-Madea! Fermala!-, urlò Burius.
-Fermatevi voi!-, esclamai io, -Vi è già andata meglio di quanto avessi temuto.-.
-L’hai avvisata! Hai osato avvisare questa p…-, Alcinus si era distratto e Ghanima ne aproffittò: il calcio della Justicar colse l’uomo allo stomaco mandandolo a sbattere contro la parete. Alcinus perse i sensi senza finire la frase.
-Lo ripeto: fermatevi.-, ordinai nonostante la lama di Madea sulla gola.
-Sta zitto! E tu, Justicar, mettiti a terra. Ora!-, esclamò Madea mentre premeva la lama su mio collo, -Ora, o gli taglio la gola.-.
-Non farlo.-, due parole, tutto qua ciò che disse la Justicar. Due parole brevissime.
Un ammonimento serissimo. Chiunque l’avrebbe preso sul serio. E anche Madea esitò.
-Madea, rifletti: se mi uccidi, chi ti proteggerà dall’ira di Ollianus? E anche ammesso che tu riesca a evitare lui, avrai contro i Justicar, non solo lei.-, dissi io, -Credi davvero che riuscirai a farla franca?-, chiesi. Madea non rispose e forse questo, più del resto, fu indice del fatto che sapeva che avevo ragione. Ghanima di contro abbassò le mani dalla posizione di guardia, controllando la sala attorno a sé. Un gesto misurato.
-Ultima possibilità, Madea.-, disse la Justicar, -Andare in pace, o restare.-.
-Impiccati!-, ringhiò l’altra. Sentii la lama intaccarmi la pelle del collo. E vidi le mani di Ghanima muoversi. Rapide, più di quanto avessi mai visto. Sfilarono e scagliarono uno dei ferri da lancio in un battito di cuore, un riflesso acuito sino a divenire automatismo.
Madea ne ebbe solo una percezione confusa. Poi il lampo argenteo oltrepassò me e la sentì gemere. La presa di lei si allentò quanto bastava da permettermi di liberarmi. Le sfilai il coltello di mano, mettendole il braccio in leva, controllando l’articolazione del gomito.
-È finita.-, dissi. Madea gemette appena. Sul suo viso si era disegnato un taglio geometrico, uno sfregio. Ghanima non l’aveva uccisa.
-Non è ancora finita.-, corresse la Justicar. Avanzò sino a me. Mi fissò, porgendomi il suo coltello. La fissai. Lei annuì.
-Giustizia va fatta. Ha osato minacciarti, ha contribuito ad aggredire me, e ha fatto la sua scelta.-, spiegò. Io annuii. Capivo. Quello era dunque il metro di giudizio dei Justicarii.
Un metro comprensibile. Presi il Tantō sfilandolo dal fodero. Impugnai la lama. Era leggera, acuminata e la impugnavo nel modo classico. Fissai Madea che ricambiò lo sguardo con odio.
-Che cosa aspetti, comandante? Fallo! Fai come dice la reietta! Avanti! Dimostrami che sei esattamente questo: un assassino!-, mi sfidò. Non aveva paura: la rabbia era più forte.
Ucciderla… ne avrebbe fatto un esempio, ma anche una martire. Avrebbe definitamente dimostrato la mia scelta, e avrebbe definitivamente reso i Justicarii dei nemici.
Scossi il capo.
-No.-, dissi. Puntai l’arma sotto il suo mento, facendola alzare mentre Ghanima appoggiava una mano al fianco, sugli shaken.
-Tu verrai giudicata da Ollianus. Verrai trovata colpevole, e verrai espulsa dalla carovana al prossimo villaggio che incontriamo. Sino ad allora trascorrerai il viaggio in ceppi e ti saranno comminate quindici frustate, secondo la legge stabilita.-, dissi, -Quanto agli altri, filate via. Ora, prima che decida di stare ad ascoltare i miei sentimenti piuttosto che la ragione.-, ingiunsi. Burius e Batiatus si alzarono, a fatica. Alcinus venne sollevato dai due e portato fuori.
Lo sguardo di Madea era odio puro, purissimo. Saettava da me a Ghanima.
La Justicar la fissò, con uno sguardo privo di emozioni umane mentre le rendevo la lama.
-Dal canto mio accetto la sentenza del Magister.-, disse, -Ma ti avverto: qualora tu ricompaia nel territorio imperiale, io ti verrò a cercare. Se oserai fare del male a uomo o donna immotivatamente, io ti verrò a cercare e se oserai anche solo ritentare qualcosa contro di me…-, la ferita annuì.
-Mi verrai a cercare… Come un segugio da caccia. Un cane idrofobo. È questo che siete, voi Justicarii. Animali selvaggi, senza un padrone o altra legge che non sia la vostra.-, sibilò.
Ghanima non parve ascoltarla. Io spinsi Madea verso la porta, oltre la coltre di passeggeri che si stavano affacciando a guardare.
La notizia fece il giro del convoglio. Ollianus fu rapido a concordare con me. Madea fu fustigata pubblicamente durante una sosta, in pieno giorno. Dopo di che, trascorse il resto del viaggio sino al villaggio di Thabar, due giorni di tragitto, in ceppi.
Mi spiaceva per Madea: era stata una buona sottoposta, e l’unica con cui avessi davvero legato. Avevamo avuto anche un breve flirt, finito dopo qualche tempo per buona pace dei rapporti lavorativi e per decisione di entrambi, ma la sua decisione aveva sancito il suo destino. Aveva fatto una scelta, e avrebbe dovuto vivere con le conseguenze della scelta.
Osservai la sua figura mentre veniva presa in consegna da alcuni irsuti abitanti del luogo, gente vestita di pelli animali che pagava in monete che Ollianus non si prese la briga di contare. Gli altri mercanti della carovana tornarono con manifesto disappunto.
-Che le accadrà?-, chiesi quando tornò a bordo. La sosta era stata brevissima, e ringraziando gli dei: Thabar era un luogo decadente, avvolto dal fetore delle bestie accaldate e dall’odore del latte cagliato. Un posto sgradevole, aspro e arido.
-Gli uomini di queste steppe sono gente di poche pretese e di ancor meno pietà.-, rispose il vecchio, -Vedono Madea come un oggetto. La useranno, e forse lei sopravvivrà. In quest’ottica, la tua pietà è stata quasi peggio della morte, per lei.-.
Rimasi in silenzio. Per me non meritava tutto ciò, ma d’altro canto…
D’altro canto, una pena inferiore sarebbe stata interpretata come un segno di debolezza. Ollianus aveva scelto senza interrogare nessuno, limitandosi a emettere la propria sentenza.
Una scelta inappellabile. Non servirebbe a nulla dire che non era questo che volevo per lei.
Va anche detto che ho fatto la mia scelta in buona fede e con la consapevolezza che ci sarebbero state conseguenze. Tutto considerato, è andata meglio del previsto.
Madea sarebbe sopravvissuta. Ghanima non aveva ucciso nessuno. Era finita bene.
-Ripartiamo tra quaranta minuti.-, annunciai. Nessuno obiettò.
Thabar non era un villaggio particolarmente ricco: era più un punto dove pochi miserabili avevano deciso di appendere le armi e far riposare le greggi a fine giornata. Di fatto, eravamo fortunati: considerando la transumanza e il periodo, presto gli allevatori sarebbero ripartiti, lasciando il villaggio ai pochi stanziali, se ve n’erano.
La vita là era dura, e breve. Gente di quarant’anni pareva averne settanta. Le malattie dovevano piagare il corpo e la mente in modi spietati e inappellabili, irreversibili.
Erano esistenze sicuramente molto dure, eppure la gente mi pareva fiera, orgogliosa di quelle vite così duramente condotte. Notai di sfuggita che alcuni di loro ci osservavano.
Non lessi paura sui loro visi, né meraviglia. Probabilmente per loro eravamo un fenomeno curioso, ma temporaneo. Una distrazione tollerata.
I mercanti nonostante tutto mantenevano un cauto ottimismo in merito alle possibili contrattazioni future, ma i più pessimisti di loro già imprecavano mentre riportavano a bordo la mercanzia. Alcuni avevano concluso qualche affare, ma nulla di così cospicuo da poter giustificare i costi sin lì sostenuti. Da quel che ne sapevo, il futuro non avrebbe garantito loro migliori proventi. Mi soffermai a fissare un paio di giovani che salivano sulla carovana, accompagnati da due ungolati (evidentemente il loro pagamento).
-Guarda guarda… ora ci becchiamo anche i pastori…-, mormorò Burius, a debita distanza da me. Non risposi. Lo fissai e basta. Fu il primo a distogliere lo sguardo. Lo scontro con Ghanima gli aveva lasciato l’amaro in bocca e una ferita alla spalla che s’indovinava da sotto il bendaggio stretto che aveva addosso. Non avrebbe tentato altro, ne ero sicuro.
Non da solo, quantomeno. Notai Ghanima oltrepassarmi, fu una presenza quasi eterea, impalpabile, come un miraggio causato dal sole.
-Tutti ai propri posti!-, ordinai.
Thabar svanì alle nostre spalle mentre il sole picchiava spietato sui mezzi e sugli uomini.
Tenni allerta gli uomini per tutto il giorno, inutilmente: i pochi movimenti in lontananza erano armenti e greggi. I pastori di Thabar ripartivano, o tornavano.
-Finalmente ci siamo lasciati alle spalle quel buco!-, imprecò Burius. Era sul mio stesso mezzo, -Peccato che ci abbiamo lasciato giù una dei nostri…-.
Lo fissai, duramente, senza parlare. Volevo che capisse da solo quanto fosse vicino a venire scaricato al prossimo villaggio ma non mi diede quella soddisfazione, preferendo parlare.
–Dunque, la cagna in nero è ancora con noi… Almeno non ha ancora ucciso nessuno.-, disse.
-La Justicar si è rivelata civile ed educata. Non posso certo dire lo stesso di te e Madea.-, dissi io, mantnendo un tono calmo, -Ma una cosa te la posso dire, Burius: stai molto attento alle tue prossime parole e alle tue prossime azioni. Io sono stato indulgente con voi, e lo sapete, ma Ollianus non è un fesso e io non sono un santo dei tempi antichi: prima o poi, se insisti, vedrai che riceverai la giusta punizione per la tua condotta.-.
Silenzio. Burius mi sorrise, uno di quei sorrisi viscidi.
-Suvvia, Alex! Ho capito. La Justicar non si tocca!-, esclamò, -Non le farò più nulla, e neanche gli altri! Tutto quel che voglio è arrivare a destinazione e spendere il mio salario come già sai. Poi lei può andare a crepare dovunque le aggradi…-.
Lo guardai scendere la scala che conduceva all’interno del mezzo pensando che quella resa mi suonasse falsa come poche altre, ma la verità era che potevo credergli: Ghanima aveva ben dimostrato quanto fosse folle per loro tentare di farle danno. Eppure…
Eppure Burius non mi convinceva. Dietro a quel suo odio per la Justicar pareva esserci del rancore personale, già da prima che provasse a neutralizzarla.
Scrutando l’orizzonte non trovai risposte, e neppure un senso di serena pace.
Ci accampammo in serata, i mezzi disposti a cerchio, sentinelle ogni dieci metri, a vista degli altri. In quel momento, quasi per miracolo, tutti parvero ricordare la disciplina alla perfezione.
Burius per esempio si mostrò più che attento a eventuali ostili e anche io non mi risparmiai.
Intravidi Ghanima sorvegliare la desolata pianura attorno a noi. Si offrì di sostituire Leatus, cosa che questi apprezzò. Rimasi stupito a trovarla ancora in piedi al suo posto dopo il mio turno di (breve) sonno, che tra l’altro non mi ristorò più di tanto.
Mi alzai, avvicinandomi. Non si mosse, ma notai una sottile tensione. Nelle sue spalle, nella sua postura, c’era come un’energia in procinto di deflagrare. Feci un po’ di rumore, più per evitare di suscitare reazioni istintive e forse letali, che per altro.
-Non dormi.-, dissi. Diretto, senza fronzoli. Avevo capito che era una così, che preferiva evitare i convenevoli, e lì faceva più che bene.
-Non ho sonno.-, rispose. Non pareva stanca, ma forse era solo brava a nasconderlo.
-Apprezzo il tuo aiuto.-, dissi. Lei annuì appena, un cenno di ringraziamento.
-Ti do fastidio?-, chiesi. Non capivo come interpretare il suo atteggiamento.
-No. Penso tu sia uno dei pochissimi a non farlo.-, ammise Ghanima.
Ero bloccato, lo ammisi a me stesso tranquillamente. Quella donna mi piaceva ma…
Ma non era come nessun’altra che avevo conosciuto prima. Nessuna.
-Il sole sorgerà tra poco. Non c’è bisogno che stai di guardia…-, dissi.
-Non ho sonno.-, ripeté lei. Io annuii, ben sapendo che nessuno l’avrebbe ringraziata.
Il vento soffiò su di noi, all’improvviso. Ci costrinse ad alzare le braccia, a schermare gli occhi.
Fu solo un istante, ma mi mandò in paranoia, quando potemmo vedere però vidi solo la tranquillità del deserto, una pallida aurora, e, troppo lontane, sagome in movimento.
-Nomadi.-, disse Ghanima. Li fissava con attenizione, forse cercando di valutarli.
-Dubito possano essere una minaccia.-, dissi. Lei scosse il capo.
-Non vuol dire. Sono lontani, ora. Non è detto che non possano raggiungerci… o prenderci in trappola più avanti.-, notò. Io annuii, anche se ero scettico: il paesaggio non si prestava a imboscate ed eravamo armati a sufficienza da respingere un assalto, specie considerando la scarsità di coperture offerte dalla natura in quell’ambiente. Concretamente, nessuno sano di mente avrebbe osato qualcosa, a meno di non avere un piano. Mi soffermai a riflettere sulla possibilità che chiunque volesse colpire la carovana avesse un complice all’interno.
Era improbabile, ma tutto sommato possibile: quale miglior garanzia che non un collaboratore? E questo avrebbe spiegato anche altro, tipo l’azione contro Ghanima.
Una Justicar a bordo era un serio deterrente per un simile piano…
Intuii di star però immaginando scenari improbabili. Un piano simile non poteva certo essere organizzato da dei briganti del deserto…
-A che pensi?-, la voce della nera mi scosse dai miei ragionamenti.
-Sto diventando paranoico…-, dissi con un sospiro.
-No. Stai diventando prudente. La paranoia è semplicemente un nome che le persone troppo sicure danno all’eccessiva prudenza.-, corresse lei.
-Immagino che per voi Justicarii la prudenza non sia mai troppa.-, dissi.
-Immagini bene. Camminiamo sui fili di coltelli troppo affilati per permetterci il lusso della leggerezza.-, rispose lei con tono calmo e quasi solenne.
-È sempre stato così?-, chiesi io.
-Sempre. Lo sarà sempre. È giusto così. L’hai visto: il mondo è in pace, ma i malvagi ci sono ancora. Ci sono perché nessuno o quasi veglia realmente.-, rispose lei.
-Lo immagino.-, ammisi io, -I Praefectii e i loro magisterii non aiutano. I criminali ci sono, e spesso la fanno franca. È anche il motivo per cui mi piace… andare lontano dalla civiltà.-.
-Credo di capire: qui pensi che almeno il marcio sia più… visibile. La gente non finge.-, disse lei. Ci fissammo, un lungo istante, occhi negli occhi.
-Sì.-, sussurrai con una voce che non riconobbi.
-E forse è così.-, disse lei, la voce più lieve, abbassata, -Un tempo forse, tornerà ad esserlo anche nel mondo… civile.-. Pronunciò l’ultima parola con tono stranamente duro, come se le fosse andata di traverso.
-Non ti va a genio, il mondo civile, vero?-, tirai a indovinare.
-Non mi va a genio una società dove il solo indossare questi abiti ti rende una paria.-, rispose lei alzando un braccio e lasciando che la cappa si aprisse da sé.
-Non è così per tutti…-, dissi io, -Molti ancora pensano ai Justicarii come valorosi eroi.-.
-Già. Ma non i più importanti. I sacerdoti degli Dei ci denigrano a ogni occasione. Non osano aizzare le folle contro di noi perché temono una nostra risposta, ma lo farebbero…-.
Mi avvicinai di un passo alla guerriera in nero. Lei rimase immobile, mi fissò. Notai appena una lieve tensione nei muscoli delle sue braccia.
“Se mi vedesse come una minaccia, le basterebbe pochissimo a uccidermi.”, pensai.
-Ghanima…-, iniziai, -Io credo che la gente abbia semplicemente dimenticato. Ma basterà poco affinché ricordino. Di certo, coloro che devono alle vostre lame la vita, non dimenticano questo debito.-, dissi. Non era tutto ciò che avevo voluto dirle, ma non potevo dirglielo, non ancora. Anche perché non avevo idea di come dirlo. La Justicar annuì.
-È vero.-, disse mentre osservavamo il lento sorgere del nuovo giorno. Notai che i suoi occhi dardeggiavano per avere una visuale completa del circondario. Notai gli altri uscire dai mezzi, alzarsi dalle stromatae (le tende che solevano usare per dormire) o semplicemente arrampicarsi stancamente sui mezzi dopo l’ultimo turno. Soffocai uno sbadiglio.
-Dobbiamo andare.-, disse Ghanima.
-Restiamo ancora un secondo. È un’alba unica.-, insistetti io. Lei sorrise appena.
Era il più bel sorriso che avessi mai visto. Mi sorpresi quando, accanto a me, si mise a osservare l’alba, serena.
Durò pochi istanti, poi il rumore delle attività in lenta ripresa al risveglio di passeggeri, guide e guaride assopite ci costrinse a tornare sul pezzo. Fortunatamente, nessuno sembrava aver fatto caso a quel mio breve momento con la Justicar e la carovana riprese il proprio cammino senza indugio. Eravamo allo scoperto e feci appello a tutta la mia volontà per spingere i miei uomini alla massima allerta. Finanche Ollianus esortò tutti a non abbassare la guardia.
Fu una fortuna: verso la una di pomeriggio, il motore di uno dei mezzi di testa diede problemi, obbligando l’intera colonna a fermarsi. Mentre Varn riparava il guasto, noi ci dispiegammo a 360°, in formazione difensiva per evitare attacchi.
Fu allora che si sollevò la sabbia. Vento e dune avevano congiurato sino a quel momento.
La tempesta di sabbia annichilì l’orizzonte. In brevissimo tempo ci avrebbe avvolti.
E ci avrebbe resi ciechi e sordi.
-Rientrare nei mezzi!-, ordinai a squarciagola anche attraverso il vox.
Fui eseguito. E pochi secondi dopo, udimmo qualcosa che non avrebbe dovuto esserci.
Colpi, sulle blindature esterne. Impatti troppo violenti e troppo frequenti per essere altro…
-Ci sparano addosso!-, gridò Leatus. Imprecai: chiunque avesse potuto sparare in quella tempesta avrebbe anche potuto decidere di usare armi più pesanti. In una simile situazione, ci avrebbero cancellati, se ci avessero colpiti.
-Rispondere al fuoco!-, ordinai. Mi sollevai sulla botola e la spalancai. La tempesta di sabbia mi accolse ululando e la sabbia s’infilò in ogni pertugio degli abiti, fendendo la pelle. Sparai nella sabbia vorticante sino a finire il caricatore, ricaricai. Impossibile dire se colpii qualcosa.
Batiatus urlava sparando con l’MG del suo mezzo, caricata con nastri di proiettili.
-Prendete, brutti figli di…-, una raffica tagliò la frase di Batiatus in due. Probabilmente tagliò anche Batiatus in due, perché sentii delle urla nel vox. Scivolai all’interno per puro istinto mentre qualcuno urlava istericamente di paura. I passeggeri stavano andando in panico, altro problema. Presto avrebbero fatto la sola cosa che potevano ritenere utile alla sopravvivenza: uscire e fuggire. Esattamente ciò che li avrebbe condannati.
-Calmi! Restate tutti calmi!-, esclamai io. Poi sentii l’arma di Batiatus tuonare, di nuovo.
Raffiche corte, misurate. Qualcosa, qualcuno, urlò qualcosa là fuori. L’assalto diminuì sino a scemare.
-Rapporto!-, ordinai nel vox mentre mi toglievo la sciarpa improvvisata che aveva impedito alla sabbia di ricoprirmi il viso intasandomi le vie respiratorie e accecandomi.
-Burius e Arleus presenti.-, la voce di Burius aveva perso ogni sfumatura spaccona.
-Laetus presente.-, disse il mio compagno battendomi sulla spalla.
-Varn presente.-, rispose il nostro meccanico. Al suo parlare, tirai un sospiro di sollievo.
-Guissano presente…-. Altri dei nostri risposero. L’unico morto era Batiatus.
-Danni strutturali ai mezzi?-, chiese Ollianus.
-Solo superficiali. Non avevano armi in grado di passare le corazzature, signore.-, riferì Varn.
Anche quella era una buona notizia, ma ora restavano due domande: chi ci aveva attaccato?
E soprattutto, ci avrebbero riprovato? E se sì, quando?
Troppe domande. Davvero troppe. Misi in sicura il fucile, riponendolo sulla rastrelliera dopo aver tolto caricatore e colpo in canna.
-Merda, chi diavolo erano questi?-, chiese Leatus.
-Predoni.-, rispose Ollianus, -Gente che non aveva nulla da perdere a parte la vita. Muoviamoci: qui siamo un bersaglio facile.-. Non me la sentivo di dargli torto.
Varn si rimise al lavoro sul mezzo, riferendo che presto saremmo potuti tornare a muoverci.
-Chiunque di voi abbia preso l’MG ha fatto un ottimo lavoro.-, dissi al vox.
Silenzio. Poi una voce.
-Ti ringrazio.-, Ghanima. La Justicar di fatto non si era imbarcata sul mio mezzo, realizzai. Si era trovata nel posto giusto al momento giusto. Provvidenziale. Silenzio, ancora. Nessuno era in grado di dire nulla. Forse Burius e i suoi avrebbero voluto farlo, ma si rendevano conto che osteggiare quella donna ora, dopo che aveva rischiato la sua vita per tutti noi, significava mostrarsi solo meschini.
-Resto all’arma pesante.-, disse la Justicar. Non era una domanda. A me andava bene.
-Un momento…-, timidamente Burius fece per opporsi.
-Abbiamo un uomo in meno. Lei è lì e ha già dimostrato di saperla usare. La Justicar resta dov’è, e questo è un ordine.-, tagliai corto. Silenzio. Finalmente.
Il commiato a Batiatus fu breve, essenziale: lo seppellimmo nel deserto, piantando un bastone con un pezzo di stoffa rosso annodato, insieme alla sua collana, un dente di squalo che portava sempre al collo.
-Qualcuno vuole dire qualcosa?-, chiesi. Nessuno osò dire nulla.
Batiatus era stato un buon commilitone, ma in quel gruppo i legami duravano il tempo di uno-due tragitti. Raramente si protraevano, e se anche lo facevano non significava molto: erano vite che sapevamo essere fugaci. Nessuno parlò. Mi feci avanti io.
-Riposa, Batiatus.-, dissi gettando la prima manciata di sabbia sul corpo del morto, -Trova la tua pace laddove sarai.-. Silenziosamente, gli altri presero a gettare la sabbia sul corpo finché Batiatus non scomparve sotto il deserto.
Varn ci comunicò che si poteva riprendere la marcia dopo una ventina di minuti.
Mentre ci muovevamo, non potei fare a meno di pensare che quell’agguato avrebbe potuto ripetersi. La paranoia (prudenza, l’aveva definita Ghanima) s’imponeva con forza.
Quanti predoni avevamo abbatttuto? Quando la tempesta si era dissolta, avevamo trovato poche macchie di sangue sul terreno. Cercare i cadaveri dei nemici sarebbe stato pericoloso oltre che uno spreco di tempo. Ollianus aveva decretato di riprendere il tragitto.
Mangiammo a mezzogiorno un pasto leggero, adatto al clima caldo, mentre procedevamo.
infine raggiungemmo il villaggio di Bula.
Bula era un villaggio adagiato in un canyon roccioso, tra due pareti di roccia che un tempo forse erano state un monte, o magari si erano formate in anni di smottamenti e terremoti.
Era un luogo arido, con pochissimi edifici in pietra e molte tende da nomadi, ma la gente non pareva ombrosa come a Thabar, anzi, ci accolsero con un entusiasmo che osavo definire piacevole. Ci offrirono acqua e cibo, principalmente frutta colta da un’oasi poco distante.
I mercanti ne furono entusiasti e si affrettarono a proporre merci e a stringere affari.
Per noialtri, Bula era una più che gradita sosta. Burius e Guissano si eclissarono a far baldoria, esattamente come al solito. Leatus mi si fece d’appresso durante una siesta.
-Dobbiamo parlare.-, disse. Sospirai. Eccettuate poche ore di sonno prima di raggiungere Bula non avevo potuto veramente riposare. Speravo potesse accadere ora. Evidentemente no.
-Della Justicar?-, chiesi. Leatus scosse il capo.
-No. Alex, questo agguato… Come possiamo avere la certezza che questa gente non sia la stessa che ci ha aggredito?-, chiese. Io riflettei. Era vero, ma d’altro canto, nulla faceva supporre che fossero loro.
-Non possiamo.-, risposi soltanto.
-E allora come possiamo starcene qui tranquilli mentre qualcuno potrebbe sabotare i nostri mezzi, in modo da renderci nuovamente dei facili bersagli?-, chiese Leatus.
-C’è Ghanima sui mezzi. Lei e anche Ollianus.-, risposi.
-La Justicar… riponi molta fiducia in lei.-, fu l’osservazione
-Mi sembra se la sia meritata.-, replicai, -D’altronde, Burius è in giro a far baldoria, io non dormo da quasi due giorni… E tu sei qui. Le opzioni che restano sono poche.-.
-Già. Ma fin qui la Justicar si è rivelata all’altezza della sua fama.-, ammise Leatus.
-E tu sospetti che nasconda qualcosa?-, chiesi, squadrandolo. Lui si strinse nelle spalle.
-È una Justicar. Nascondono qualcosa. Ma non dev’essere per forza qualcosa di negativo. In fin dei conti, si è esposta personalmente per noi.-, disse.
-E quindi? Se ci fosse un traditore su chi scommetteresti?-, chiesi.
-Beh…-, Leatus prese tempo, evidentemente pensoso. L’eventualità di un tradimento aveva evidentemente sfiorato anche lui, -Non saprei.-, ammise, -In realtà tutti a parte Ollianus potrebbero tradire. Persino tu.-.
-Il fatto che ne stiamo parlando non conta, vero?-, chiesi, già prefigurandomi la risposta.
-No, Alexander. E lo sai bene.-, rispose lui. Sorrisi appena, senza reale gioia.
-Quindi cosa suggerisci?-, chiesi, -Facciamo bloccare la carovana o torniamo indietro?-.
-Sai che Ollianus non accetterebbe mai. Ci paga anche per evitare eventualità come questa.-, ribatté Leatus, -Ma potremmo invece cavarcela così: possiamo cercare di sorvegliare gli altri, magari coinvolgendo gente che non fa parte delle guardie.-, disse.
-Stai pensando a qualcuno in particolare?-, domandai io.
-Beh, sì, in realtà. Sai che abbiamo con noi un paio di… intrattenitrici. Potremmo far sì che loro si approccino ai presunti traditori… La gente parla, dopo il sesso, spesso senza accorgersene.-, propose Leatus con un ghigno.
-E io dovrei avallare tutto ciò?-, chiesi senza riuscire a sopprimere una smorfia.
-Se preferisci lasciare che i traditori colpiscano nuovamente…-, disse lui.
-Posto che ci siano.-, risposi io.
-L’agguato nella tempesta è stato troppo preciso. Un guasto, siamo fermi, c’è la tempesta e ci sparano. Non sappiamo nemmeno quanti nemici abbiamo abbattuto. E quel che è peggio, perdiamo il nostro mitragliere.-, ragionò Leatus, -Non credo sia un caso.-.
-D’accordo. Allora procediamo a modo tuo.-, dissi. Lui annuì.
-Vado a parlare con loro.-, rispose, accomiatandosi. Ero stanco. Sentii gli occhi farsi pesanti. Scivolai in un sonno privo di sogni.
Il riposo mi aveva giovato e, quando mi svegliai, notai che Burius e Guissano erano ancora assenti. In compenso, Ollianus mi accolse ai mezzi con un sorriso.
-Ho come il presentimento che i nostri mercanti abbiano finalmente trovato pane per i loro denti.-, disse indicando il mercato locale, una serie di tende da cui provenivano esclamazioni di offerta e controfferta in lingua comune ed imprecazioni ben più dialettiche e ristrette.
-Si direbbe così.-, dissi io.
-Ma a te frulla in testa qualcosa, vero?-, chiese il vecchio. Indossava una veste leggera, adatta al clima del deserto.
-Sì. Io… temo che abbiamo un inflitrato a bordo.-, dissi.
Il silenzio calò su di noi come una cappa di piombo. Ollianus annuì, lento.
-Sì, l’ho pensato anche io.-, ammise, -E che vuoi fare?-.
-Beh, magari lo si potrebbe spingere a tradirsi… Sulla carovana abbiamo diverse persone in grado di…-, iniziai.
-Già. Immagino.-, fece il vecchio con un sogghigno, -E se non funziona?-.
-Beh, allora dovremo aspettare che agisca nuovamente.-, dissi io.
-Strategia rischiosa. Ma tu hai qualche sospetto, vero?-, chiese Ollianus.
-Burius.-, dissi io senza mezzi termini, -È quello più ribelle, che agisce senza considerare le gerarchie.-.
-Uhm.-, fece Ollianus, il viso pensieroso, -E questo lo renderebbe l’infiltrato ideale?-.
-No.-, ammisi, -Ma chi altri potrebbe?-, chiesi.
-Beh, quella sì è una bella domanda. Magari Guissano. Sono abbastanza vicini.-, disse il vecchio capo-carovana. CI pensai. Burius era un esagitato, uno che guardava solo al proprio tornaconto, ma Guissano… Lui mi sembrava apposto.
-Non lo so: Guissano mi sembra un brav’uomo.-, dissi.
-Esattamente l’impressione che io vorrei dare se fossi un inflitrato!-, esclamò Ollianus.
Aveva senso. Ne aveva parecchio, purtroppo.
-Ci dev’essere un modo per ottenere conferme: avranno pur qualcosa di scritto, o modi di comunicare coi predoni, se hanno organizzato loro l’attacco.-.
-E pensi che lo lascerebbero in giro in bella vista?-, chiese il capo-carovana.
-No. Ma cercarlo potrebbe darci qualche risposta.-, risposi alzandomi.
-Guarda che ripartiamo domattina.-, mi notificò il capo.
-Ovviamente.-, risposi io.
La notte passò tranquilla e senza problemi o animosità di sorta. I mercanti rientrarono belli contenti dalle loro contrattazioni e molti vantarono affari notevoli. Non imbarcammo nessuno di nuovo, ma in compenso, un giovane scrittore sbarcò sostenendo di essere rimasto affascinato dal posto e di volervi scrivere un testo riguardo le usanze del luogo.
Ripartimmo dopo aver fatto scorta e passammo il primo giorno dei sei che ci separavano da Mava, il prossimo villaggio, a sorvegliare il deserto. La sabbia lasciò il posto alla savana, il sole continuò a picchiare implacabile. Ci fermammo poco prima del tramonto.
-D’accordo, gente. Sorveglianza al massimo.-, ordinai. Passai di mezzo in mezzo e scambiai uno sguardo con Leatus. Lui scosse il capo: ancora niente.
Ci disponemmo di guardia dopo la cena e dopo che tutti si furono assopiti.
Silenzio. Il silenzio del deserto, la quiete.
Passarono minuti lunghissimi senza che nulla accadesse e poi lo sentii: un ringhio, non animale ma umano. Il suono emesso da chi stava combattendo.
-Leatus, coprimi!-, esclamai al vox mentre correvo verso la posizione, l’arma in pugno.
Grugniti maschili facevano eco a versi inarticolati femminili. Uno stupro?
Alzai il fucile. Arma a munizoni solide. Superai una duna proprio mentre udivo un urlo strozzato. C’erano due persone sul terreno: una era Ghanima e si stava rialzando, l’altro era un uomo avvolto in vesti del deserto lacere e usurate. Un coltello giaceva poco distante da lui, mentre la lama della Justicar era piantata nel suo petto.
-Ci seguiva.-, disse Ghanima, -Paziente come pochi. Ho dovuto espormi per attirarlo.-.
Scosse la cappa lasciando che la sabbia scivolsse via.
-Addio interrogatorio.-, dissi io, -Tu stai bene?-.
-Sì.-, rispose lei, -Ma questo dimostra che i nemici sono vicini.-.
-E non sappiamo ancora né quanti né dove sono.-, dissi io mentre la nera recuperava la sua arma, la puliva e rinfoderava.
-Ma ora anche loro sanno che non siamo così inconsapevoli.-, notò Ghanima, -Conviene comunque mantenere alta la guardia.-.
-Potremmo avere un traditore a bordo della carovana.-, le feci notare io.
-Già. Ci avevo pensato. Di chi ti fidi?-, chiese lei.
-Beh, Leatus è… affidabile. Tutto sommato è molto che lavoriamo assieme.-, disse.
-E pensi che questo basti a confermare la sua innocenza.-, concluse la guerriera.
-Di tutti, è il più disciplinato, quello più onesto…-, aggiunsi.
-È esattamente ciò che farebbe un infiltrato.-, disse lei.
-La tua paranoia è allucinante.-, borbottai.
-La mia paranoia ci ha appena evitato un pedinamento.-, ribatté Ghanima.
Ci fissammo. Non volevo credere a ciò che stava suggerendo: Leatus non era un traditore.
Ne ero cerrto. Ci avrei potuto giurare. Burius magari…
-E se i traditori fossero due?-, chiesi, -Magari Burius è uno di loro. Non ti voleva a bordo sin da principio e ha pure provato a rapirti.-.
-Burius è un idiota.-, rispose la Justicar, -Lo vedi. Magari recita una parte, ma non è lui la mente di questa cosa. Se ci sono due traditori, uno dovrebbe essere palese, affinché l’altro possa agire indisturbato.-.
La cosa aveva senso, pur sembrandomi tremendamente contorta.
-Voi Justicarii ne sapete di doppigiochi.-, dissi.
-Siamo prudenti.-, rispose lei, neutra. Era bella. Restava bella anche in quel momento.
-Molto.-, ammisi io. Feci un passo verso di lei. La vidi irrigidirsi appena.
-Hai una cosa qui…-, dissi. Tolsi con precisione chirurgica un filo dai suoi capelli neri.
Ghanima mi fissò, senza odio, senza soggezione. Mi sentii trascinato in quello sguardo.
-Stai distraendoti.-, disse senza smettere di fissarmi.
-Anche tu. È pericoloso.-, dissi io, sentendomi un idiota.
-Il pericolo non mi dispiace. A star troppo senza, ci si crede al sicuro.-, sussurrò lei.
-E forse è proprio questo che ci spinge ai limiti. A chiederci di rischiare.-, mormorai.
Merda: che stava succedendo? Stavo provandoci con lei nel bel mezzo del deserto.
-Mi sa che dovremmo tornare…-, dissi. Lei annuì. Nessuno di noi due si mosse.
-Ghanima…-, dissi. E ora? Che dicevo? Che le avrei potuto dire?
Che era bella? Che mi piaceva? Che non riuscivo a staccare i miei occhi dai suoi?
Che mi faceva paura quanto mi affascinava? Che… Cosa? Come ci si approcciava a una donna così? Non ero mai stato granché con le donne, forse perché troppo preso a cercare di ottenere quello che mi pareva fosse comune cercare, ma nonostnte ciò, con lei era diverso.
Improvvisamente pensai che esitare implicava perderla. Osare era imperativo.
“Anche a rischio della vita?”, mi chiesi. Avvicinai il mio viso al suo. Lei non si ritrasse.
Improvvisamente, proprio quando eravamo a pochi centimetri dal baciarci, una voce mi chiamò. Leatus. CI separammo, senza parlare.
Non sarebbe stato conveniente ci avessero visti insieme: Ghanima si mise in marcia. Sarebbe tornata alla carovana per una via più lunga.
-Leatus… vieni qui. C’è un corpo da analizzare.-, ordinai al vox.
Il cadavere del morto fu spogliato e analizzato. Avevano accuratamente evitato di mettere al corrente della cosa i passeggeri. Ollianus, Leatus e Ghanima procedettero a consultarsi, quest’ultima spiegando come avesse attirato il pedinatore in trappola e come fosse stato impossibile evitare di ucciderlo.
-Chiunque fosse, ha combattuto con la disperazione di chi non aveva nulla da perdere.-, commentò la Justicar, appoggiata alla parete con la schiena.
-Le vesti sono trasandate. Usuali. Impossibile capire da dove venisse.-, dissi io.
-Salvo per questo.-, mi corresse Ollianus indicando una serie di tatuaggi.
Erano come delle scritte, e delle immagini. Stelle.
-Che cos’è?-, chiesi. Il vecchio sospirò.
-Molti anni prima del Cataclisma, in questa zona viveva un’etnia. Dopo il Cataclisma, un’altra etnia li ha soppiantati, assorbendone usi, costumi ed evidentemente andando ad arricchire il patrimonio culturale preesistente con elementi del proprio. Questi tatuaggi, Alexander, sono i marchi dei Vor. Banditi sin dai tempi prima del Cataclisma.-, spiegò.
-Non ne avevo mai sentito parlare.-, ammise Leatus.
-Naturale. Non è che si siano mai spinti sino all’Impero di Licanes. Tendono a essere molto riservati. È nella loro natura.-, disse Ollianus.
-E ora hanno deciso che siamo un bersaglio?-, chiesi io. Il vecchio mi piantò gli occhi addosso, lo sguardo duro come non ricordavo.
-Se l’hanno fatto, è chiaro che non ci molleranno tanto presto.-, disse.
-Ma non temono ripercussioni?!-, chiese Leatus, sbalordito, -Insomma, siamo cittadini di Licanes!-.
-A loro non importa.-, disse Ghanima con una flemma che tradiva la velocità delle sue reazioni, -Non hanno più nulla da perdere.-.
-È vero.-, riconobbe Ollianus, -Salvo la vita, di cui non sembrano farsi molto.-.
-Per questo, da ora siamo in condizione rossa. Massima allerta.-, concluse l’anziano.
La riunione era terminata lì: con la consapevolezza di avere addosso predoni disperati, forse un’orda. Un senso di apprensione aveva avvolto tutti quanti, persino Burius, notai quando ci fermammo, aveva rinunciato alla solita spocchia e alle facezie.
Per una buona volta, tutti erano all’erta. Tutti erano sul pezzo. E c’era voluto solo quello: un pericolo. Una minaccia invisibile ma percettibile, che la fantasia ingigantiva a dismisura.
Dieci briganti? Cento? Mille? Diecimila? Un’orda… Un numero incalcolabile!
A quel punto, l’assenza o la presenza di armi da fuoco o antiveicolo non avrebbe contato molto: l’orda avrebbe dovuto solo insistere. E alla fine, avrebbe trionfato.
Questo ora era il pensiero di tutti gli uomini di scorta. Io lo sapevo, perché era anche il mio.
Era un timore che ci spingeva all’erta, tutti quanti. L’unica persona che ne sembrava immune era Ghanima. La Justicar tuttavia era un caso particolare. Per lei la prudenza (o paranoia?) era una costante imprescindibile, un riflesso sviluppato in anni di addestramento probabilmente.
Insomma, qualcosa di ormai insito nel suo subconscio, come un riflesso innestato.
Era quella la sua forza: l’aver smesso di dare per scontata la sicurezza, un errore commesso da moltissimi altri, persino ai margini delle terre selvagge.
Il tempo passava lento, ma senza vedere comparire l’orda che temevamo.
Qualcuno avrebbe potuto pensare che non sarebbe mai apparsa.
Qualcuno avrebbe potuto credere che fosse solo paranoia.
Paranoia… o eccessiva prudenza?
Così come paranoica era la mia ricerca di una talpa. Ma Leatus mi chiarì che le intrattenitrici non erano riuscite a carpire nulla da nessuno. Apparentemente, o Burius e altri elementi non erano i traditori, o non erano i festaioli rimbambiti che avevo ritenuto fosssero.
Mi rassegnai all’attesa di nuove, restando vigile.
Ma nulla accadde la notte successiva, che si consumò in un silenzioso vegliare.
All’alba, Ghanima mi raggiunse, Si sedette accanto a me, senza parlare.
Non sapevo esattamente cosa dire, non sapevo neppure se dire qualcosa. Era una donna come nessun’altra e sapevo bene che innamorarmi di lei era pura follia, di certo ne era consapevole anche lei. Eppure stava accadendomi. Mi sentivo… sospinto verso di lei da un impulso che non ricordavo di aver provato in anni.
-Ghanima…-, iniziai. Parlare. Osare. Riuscire a rendere possibile l’impossibile.
-Lo so.-, rispose lei. Calma, pacata. Feci per parlare. Ci ripensai. L’alba ci salutò.
-È follia, vero?-, chiesi infine, il cuore stretto in una morsa.
-Lo è.-, ammise la nera guerriera. Mi guardò. I suoi occhi parevano abissi, sul cui fondo, rifulgeva una luce, -Ma non è detto che ciò significhi che sia un errore.-.
A quelle parole il mio cuore accelerò i battiti. Sorrisi.
-Io… non sono sicuro di sapere come muovermi. Insomma, voi Justicarii…-, iniziai.
-Siamo uomini e donne.-, fece lei con una scrollata di spalle, -Carne e sangue.-.
-Quindi non siete…?-, chiesi sentendomi stupido.
-Vincolati alla castità? No.-, rispose lei, -I Justicarii non hanno simili limitazioni. Se uno di noi vuole può imporsele, ma l’Ordine non vieta i legami.-.
Un soffio di vento ci avvolse. Sabbia e pulviscolo vorticavano in lontananza. Djinn, spiriti del deserto così definiti dagli autoctoni di quelle zone. Superstizioni.
Bellissime e pericolose. Come tutto il resto.
-I tuoi uomini si stanno svegliando.-, disse la Justicar. Annuii. Non me ne importava. Non lì.
Non con lei accanto. Per una volta ero felice. Non dovevo cercare altrove la gioia.
-Potrebbero dare problemi.-, ammisi, -Ma potremmo anche fregarcene.-.
-Potremmo.-, riconobbe Ghanima. La mia mano accarezzò appena la sua. Lei non reagì, non subito. Poi, un tenue sorriso le apparve sul viso, -Potremmo.-, ripeté.
-Ma c’è ben altro a cui pensare. Un traditore da stanare. Se è solo uno.-, disse. La sua mano strinse la mia, per un istante. Una promessa. Forse.
-Già. È vero.-, riconobbi. Avevo un dovere. Un compito solenne da assolvere, un incarico terribile e necessario. E lo stavo dimenticando. A ricordarmelo, era stata la nera guerriera.
La stessa che avrei voluto baciare, stringere a me…
-Ci sarà un tempo.-, dissi. Lei annuì. Si sollevò in piedi, movimento fluido.
-Non è adesso.-, disse la Justicar. Io annuii. Accettai. Mi alzai a mia volta. Fine della pausa.
-In marcia!-, esclamò la voce di Ollianus. Si tornava in trincea.
La quiete del deserto era una tentazione ad abbassare la guardia. Per tutti.
Sarebbe stato facile farlo. Semplicissimo. Ma non lo feci. Non ancora.
Avrei concesso a me stesso il lusso del rilassamento solo una volta giunti in un luogo sicuro.
Il mattino passò senza particolari problemi, e ci avvicinammo al valico di Khartus.
Il valico era una strettoia tra due promontori, due monti ben pronunciati. Un luogo ideale per un’imboscata.
-In campana!-, esclamò Burius. Era teso, come tutti noi, mentre ci avvicinavamo al valico. Un senso di condanna incombente.
Mentalmente, calcolai che il grosso dei passeggeri aveva lasciato la carovana.
Erano rimasti solo i mercanti e pochi altri.
-Movimento, a ore due.-, la voce di Ghanima spezzò la quiete. Guardai verso la direzione indicata. Uomini, due. E greggi. Una ventina di ovini schimanti che passeggiavano lungo il pendio. Gli uomini arrancavano piano lungo le pendici della collina, a tratti, senza fretta.
-Sono solo pastori.-, disse Leatus. Pareva rassicurato. Pareva…
-Occhi aperti.-, ribattei io, -Tenete d’occhio i vostri settori.-.
Ricevetti segnali di assenso. E poi lo vidi. Improvviso, folgorante.!
Un lampo squarciò la collina, esplosione ascendente verso il più alto dei cieli.
La frana incominciò un secondo dopo, con la lentezza degli incubi, accelerando poi verso il suolo. Un’intera sezione della montagna stava venendo giù.
Le greggi si dispersero, in preda al più cieco e atavico dei terrori, fuggirono senza una direzione precisa, alcune bestie riuscirono a portarsi al riparo, altre furono travolte dai massi.
-Fermare! Fermare!-, urlai nel Vox. Il convoglio si arrestò mentre le rocce terminavano la loro calata, sbarrando il valico.
-Merda!-, ringhiò Burius. Qualcuno gli fece eco.
-Strada bloccata. A stima ci vorranno almeno nove ore per spostare tutti i massi.-, disse Leatus. Io imprecai. La voce di Ollianus s’impose.
-Procediamo verso il sentiero a sinistra.-, ordinò.
-Ricevuto. In movimento.-, la voce di Varn coincise con la ripresa della marcia verso il sentiero di sinistra, a malapena distinguibile dal deserto. Non era un sentiero: era una pista spaventosa. Qualcuno dei passeggeri rumoreggiò, chiese informazioni. Ollianus procedette a tranquillizzarli dicendo loro che eravamo in grado di respingere qualsiasi minaccia, come già avevamo fatto. In realtà, quell’esplosione poteva voler dire solo una cosa.
Qualcuno ci voleva male. E il fatto che avessero reso inagibile il valico significava che disponevano di equipaggiamento notevole. L’esplosivo da demolizione come quello che sembrava essere stato usato non era quel che si poteva dire economico, né tutti lo potevano acquistare. Bloccare il valico poi, poteva pregiudicare la sopravvivenza di alcune comunità.
Era decisamente qualcosa di grosso, e mi feci l’appunto mentale di parlarne con Ghanima e Ollianus. Osservai attorno a me ma il deserto parve beffarmi con la sua quiete.
-Che motivo avevano di far saltare il valico?-, chiese Varn a nessuno in particolare.
-Volevano costringerci a fare il giro lungo.-, intuì Burius, -Forse con la precisa idea di tenderci qualche bella trappola…-. Dal suo tono era scomparsa ogni facezia, ogni accenno di pigra indolenza. Era tornato sul pezzo. Annuii a me stesso. Aveva senso.
Ma, con un equipaggiamento del genere, i mandanti di quell’operazione dovevano essere altrove, molto lontani dal deserto. La mia mente correva tra le ipotesi e le possibilità.
Fu allora che lo vidi, fu solo un istante. Uno dei pastori. Fissava il nostro convoglio.
Alzò un braccio verso il cielo. Un presagio… o un segnale.
Il vento sollevò nubi di polvere. Quando si posarono era svanito.
Poi li vidi, alla base della collina. E quelli erano armati, almeno in sei!
-Merda! Contatto!-, urlai nel vox, -A ore nove!-.
La granugola di proiettili investì il trasporto. Burius imprecò. Sparammo in risposta. Vidi almeno due dei nemici andar giù. Feriti o morti.
-Continuano a sparare!-, esclamò Leatus.
-E noi continuiamo a muoverci e a rispondere.-, ribattei io. Finché non avevano armi in grado di danneggiare seriamente i veicoli, avremmo potuto restarcene tranquilli.
Per tranquilli che si potesse stare sotto una pioggia di piombo, s’intende…
-Altri due sono a terra.-, riferì Guissano.
-Ne arrivano a ore tre!-, la voce di Ghanima spezzò la stasi, un secondo dopo la mitragliatrice maneggiata dalla Justicar prese a sparare.
Mi volsi verso quella direzione. Erano almeno una decina, alcuni a cavallo. E soprattutto…
-Arma pesante!-, urlai nel vox. Arma pesante. Definizione buona per le mitragliatrici o anche per i lanciatori di proiettili ad alto esplosivo. Arma pesante. L’unico vero pericolo mortale per la nostra carovana. Erano in tre. Sparai anche io, ma il grosso del gruppo si mise in mezzo.
Era follia: fanti con armi scadenti o poco più perivano sotto il fuoco per concedere all’uomo con l’arma pesante un tiro, uno solo…
Che partì con uno stridio infernale, andando a impattare contro la fiancata del mezzo su cui c’era Ghanima. Proprio in mezzo alla colonna! La blindatura parve reggere ma l’esplosione scosse il veicolo come fosse stato nella mano di un gigante adirato.
Un secondo colpo avrebbe potuto sventrare il mezzo.
-Ghanima?-, chiamai al vox. Silenzio.
-Ghanima!-, esclamai.
-È andata.-, disse Leatus, senza emozioni, -E quei bastardi stanno tornando. Ore otto!-.
Un autentico squadrone. Cavalleria su cavalli bassi, armi a proiettili, ma specialmente altre armi pesanti. Due spararono. Due scie orribili centrarono il veicolo di coda. Esplosioni multiple. Il mezzo deflagrò in un anemone di fuoco.
-Merda! Colpiteli, dannazione!-, urlai nel vox. Sparai sino a esaurire il caricatore. Proiettili mi fischiarono attorno. Ricaricai, sparai ancora. Ma era come fermare un fiume in piena con le mani: continuavano ad arrivare. A cavallo o a piedi, un’autentica orda.
L’orda che temevamo.
-Asserragliarsi!-, urlò la voce di Ollianus, -Difendere su tutti i lati!-.
Era una situazione paradossale: noi in pochi a bersagliarli, loro a caricare, sparare e tornare.
I passeggeri urlavano, piangevano. Altri due colpi d’arma pesante centrarono uno dei mezzi di scorta. Esplose in una palla di fuoco.
-Ci massacrano!-, gridò qualcuno. Burius forse. E da lì, fu il panico.
Qualcuno cercò di abbandonare le posizioni, altri urlarono, aumentando il casino generale. I passeggeri, ormai per la maggior parte mercanti, cercarono di scendere dai mezzi. Burius ne ricacciò indietro due a pedate. Lo sentii attraverso il vox.
-Dannazione!-, imprecai scendendo nel mezzo.
-Ci fanno fuori tutti! Dobbiamo arrenderci!-, urlò un uomo. Dall’abbigliamento pareva benestante, ma in quel momento, sconvolto dalla brutalità e dalla paura, pareva solo un primate terrorizzato. Mi afferrò l’arma. Lo spinsi via.
-Ci uccidono tutti…-, piagnucolò lui.
-Ollianus? Mi ricevi?-, chiesi. Niente. Silenzio. Vidi Burius scendere dal suo mezzo. Era ferito alla spalla destra.
-Ollianus! Burius?-, chiesi correndogli incontro mentre mi copriva, -Dov’è il capo?-.
-Nella ridotta. È antiproiettile.-, disse lui, -Starà chiamando i soccorsi.-.
-Allora dì a tutti di radunarci lì! Stiamo finendo le munizioni e questi avanzano!-, ordinai.
Burius annuì. Eseguì. Io corsi verso l’ultimo mezzo ancora sommariamente integro.
Seguito da un codazzo di civili e dai pochi combattenti ancora in piedi.
Eravamo in pochi, poco meno di una decina. Notai che all’appello mancava Guissano, e anche Ghanima era assente. Morta? Mi si strinse il cuore.
Corsi verso il suo mezzo. E fui scagliato a terra quando il veicolo esplose.
-NO!-, urlai a pieni polmoni, -Déi, no!-.
-Alex! Dobbiamo ripiegare! Il mezzo di Ollianus è ancora integro!-, la voce di Burius mi riportò alla consapevolezza. Corsi verso il veicolo.
Quanto era durato l’agguato? Un’ora? Meno. Molto meno. Eppure ci aveva falciati. Attraversai il carrozzone, superando gente prostrata, feriti e inermi. Colsi Leatus organizzare due sentinelle. Era l’estrema difesa.
-Ollianus ha inviato il messaggio?-, chiesi. Non c’era bisogno che specificassi: la nostra carovana era dotata di un sistema che poteva inviare una richiesta di soccorso al più vicino avamposto militare della Confoederatio. Se Ollianus l’aveva fatto, si trattava ora solo di attendere che i nostri salvatori giungessero a soccorrerci. Cosa non del tutto certa, visto ciò che ci era arrivato addosso.
-A me non ha detto nulla.-, disse Leatus. Imprecai superandolo. Arrivai alla porta. Chiusa ermeticamente con un codice d’ingresso a quattro cifre. Lo digitati.
E imprecai molto di più. Ollianus era riverso sulla console sventrata, i circuiti fatti a pezzi.
Mi avvicinai. Cercai la giugulare di Ollianus. Niente battito. Morto. E notai anche come. Sul petto c’era una ferita, piccola, seminascosta.
“I traditori hanno colpito.”, pensai soltanto. E ora, senza la possibilità di chiedere aiuto, eravamo praticamente morti.
Chiusi pietosamente gli occhi al morto, il viso congelato in un’espressione di orribile sorpresa.
Nessun dubbio che avesse visto l’assassino. Nessun dubbio.
Cercai indizi, ma solo brevemente. Non era il momento di indagare, eppure lo dovevo al vecchio, e a Ghanima, e soprattutto, non volevo che potessero agire ancora impunemente.
-Merda!-, la voce di Burius mi colse, non proprio alla sprovvista.
-Sei stato tu, Burius?-, chiesi.
-Merda, uomo! Come puoi pensarlo?-, chiese lui, sgomento.
-Come posso non pensarlo? Eri quello più insofferente agli ordini, odiavi la Justicar, hai tentato di rapirla e hai visto che era impossibile. Chi ti ha pagato? Un concorrente? Qualche bandito dell’esterno?-, chiesi a raffica girandomi e afferrandolo per giubbotto.
-Giù le mani!-, esclamò lui divincolandosi e allontanandosi, -Non sono stato io. Non ero neppure assegnato al suo veicolo. Ci sono arrivato dopo. Qui c’erano Varn, Leatus e Luvio.-.
-Beh, Luvio non ha risposto al contrappello. Varn è morto e Leatus sta organizzando i nostri.-, ribattei, -Un po’ poco come sospetti.-.
-Dici?-, chiese Burius, stavolta con rabbia palese, -Perché? Pensi che sia stato io a tutti i costi? Solo perché ce l’avevo con la tua pollastrella in nero?-, chiese. Fu lì che persi la calma.
Gli tirai un pugno. Secco, diretto. Centro allo zigomo. Lui ringhiò. Estrasse il coltello.
-Tu finisci qui e adesso, figlio di…-, schiumò mentre estraevo a mia volta la lama.
Quel momento doveva arrivare, e ora era arrivato. Infine. Ci fissammo per un lungo istante, valutando come colpire, come muoverci…
E i rumori di spari e colpi d’arma da fuoco ci costrinsero a fermarci.
Seppellimmo temporaneamente la rabbia, mentre correvamo alle postazioni sopraelevate.
-Che gli déi c’aiutino…-, mormorò Burius.
Erano a decine. Parevano solo aspettare un nostro sparo per caricare. Poche armi da fuoco, molte da mischia. Briganti disorganizzati ma in numero sufficiente da poter comodamente distruggerci, a dispetto delle perdite che avremmo inflitto loro.
-Dobbiamo arrenderci.-, disse un mercante rannicchiato insieme con diversi altri, tutti tremebondi, -Dobbiamo…-.
-Non credo che per loro faccia differenza.-, mormorò Otius, uno dei membri della scorta. Era ferito al fianco e la benda si stava intridendo di sangue.
-Ci circonderanno, presto o tardi.-, disse Burius. Era una mera constatazione, fatta con sguardo vacuo. Sospirai. Volsi le spalle all’orda.
Doveva esserci un modo per uscirne vivi. Doveva. Mi volsi dalla parte opposta. La parete di una delle mastodontiche formazioni collinari mi osservava, o pareva farlo. Sabbia e roccia.
Ecco tutto. Sospirai. Era tempo? Era lì che saremmo morti?
Espirai piano. Inspirai. La vita parve rallentare. E poi la vidi. Una strettoia. Piccola. Ci sarebbe passato un uomo, forse. Era la nostra migliore opzione.
Calcolai la distanza, il tempo. Annuii.
-Otius?-, chiamai.
-Sì, magister?-, chiese lui.
-Quanti caricatori hai ancora?-, chiesi.
-Due.-, rispose l’uomo. Picchiettò sulle tasche dov’erano alloggiati.
-Burius? Munizioni?-, chiesi.
-Un caricatore… E qualche colpo-, rispose.
Chiesi anche ad altri. Poi, l’esplosione mi assordò. Un boato. Il mezzo parve tremare.
-Ma che diavolo?!-, esclamai. Poi li vidi. L’orda. Stava caricando. Era un’autentica ondata di uomini a cavallo che avanzava verso di noi, senza curarsi della propria incolumità, lanciando grida di guerra. Era così, mi chiesi, che si erano sentiti i legionari dell’Impero davanti ai barbari? Strinsi il fucile.
-Miseria! Tutti a difesa!-, urlai. Sparai tre colpi abbattendo due nemici.
-Maledizione!!!-, ringhiò Burius. Sparò a sua volta.
-Otius! Scorta i civili alla fenditura tra le rocce!-, sbraitai alla volta del ferito, che però si era accasciato sul pavimento. Non era il solo: un altro dei nostri che era parso in perfetta salute era accasciato contro la paratia. Morto.
-Merda!-, esclamai.
-IVP!-, urlò Burius. Mi afferrò, gettandosi su di me.
IVP. Iactabile Veicula Plumbata. Proiettile lanciabile per veicoli. Ossia antiveicoli.
Burius mi scagliò a terra col suo peso. L’esplosione travolse la paratia. Travolse i mercanti, travolse noi. Fu un’uragano di fuoco, metalli torturati, urla e calore.
-Burius… Burius!-, esclamai. Lui si sollevò. A fatica. Perdeva bava rossastra.
Aveva la schiena trapassata da pezzi di metallo vari. Mi aveva salvato… A costo della vita.
-Pare proprio che io abbia finito.-, disse. Si accasciò a lato accanto a me.
-Maledetto idiota!-, ringhiai con le lacrime agli occhi, -Perché?-, chiesi.
-Privilegio d’anzianità…-, sibilò lui cercando di sorridere, e tossendo. Sputò qualcosa di rosso, -Vedi di non rendere inutile la mia morte, Magister…-.
-Te lo prometto.-, dissi io. Strinsi una mano già rilassata, inerte, nella quiete della morte.
Mi alzai. Attorno a me era tutto in rovina. Il mezzo stava esplodendo. O poco ci mancava.
Colpi sporadici tempestavano la blindatura. L’orda. Presto sarebbe arrivata. A finire.
Raccolsi a tentoni cose. Una fiasca d’acqua, un paio di bastoni luminosi, dotazione delle guardie della carovana, un paio di barrette proteiche. Abbandonai il fucile e i caricatori. Via anche lo scudo ad energia. Minimo peso.
Poi corsi. Corsi verso la fenditura.
Abbandonare la carovana, abbandonare tutto quanto, sopravvivere.
Corsi divorando i metri. Incespicai, mi rialzai. Superai alcuni banditi morti.
Non sarei morto in quel buco merdoso! Non così!
Arrivai alla fenditura. La varcai con la forza della disperazione.
Ci passava giusto un uomo. Mi spinsi dentro le viscere della collina. All’interno… fresco.
L’interno era un budello roccioso. Mi acquattai, camminando lentamente, coltello in pugno e bastoncino luminoso acceso.
Arrivai uno spiazzo più ampio. Una pozza prosciugata.
E lì mi fermai. Scivolai a terra.
-Merda!-, esclamai. Poi un respiro mi uscì distorto. E un altro. E un altro.
E mi accorsi di star piangendo. Non fermai le lacrime. Era uno spreco d’acqua, ma era una cosa che non potevo fermare, neppure volendo.
“Ghanima… Burius…”, pensai. Tutti quei morti, per cosa?
-Vi vendicherò.-, promisi a me stesso. Il senso di stanchezza mi avvolgeva come un manto.
Nel nome di tutti gli déi, quanto avrei voluto riposare…
“Solo per poco…”, pensai. Chiusi gli occhi. Scivolai in un sonno privo di sogni
Mi risvegliai un incerto tempo dopo. Mangiai un pezzo di barretta, bevvi un sorso d’acqua.
Razionare le scorte, raggiungere la superficie della collina, tornare alla civiltà.
Semplice. Essenziale. Mi forzai a muovermi. Percorsi un tunnel, arrivando a dover strisciare per poi giungere a un’apertura che mi portò a procedere carponi e ad arrampicarmi. Infine, emersi da una fenditura che dava sull’esterno. Ero più in alto rispetto al punto dell’attacco
E, infine, vidi.
L’orda aveva finito il suo saccheggio. Si sparpagliava in gruppetti, ognuno si trascinava dietro del bottino. E tra loro, un uomo. Uno solo.
Che non era uno di loro. Era uno di noi. Chiusi gli occhi e li riaprii, lo vidi dare ordini.
Non era possibile. Non era semplicemente possibile. Eppure…
-Leatus… Figlio di una vacca impestata…-, sibilai. Quel bastardo era il traditore. Ghanima aveva visto giusto fin da principio, e io ero rimasto accecato dalla fiducia. L’illusione di fratellanza,di un legame forgiato tra pari. Era stato solo un miraggio…
Strinsi i pugni. Ucciderlo era difficile, non impossibile. Notai però le altre pattuglie.
Non si stavano disperdendo senza uno schema. Stavano cercando.
Cercando me, capii. Sta vano dandomi la caccia. Ovvio: Leatus doveva aver capito che ero ancora vivo. Rappresentavo un pericolo. Avrei potuto concretamente testimoniare contro di lui. O scoprire da chi aveva preso ordini.
Perché era chiaro: Leatus era, per quanto importante, solo un esecutore. Qualcun altro tirava le fila. Qualcuno lontano dalle terre selvagge.
Uccidere il traditore era secondario. Primario era sopravvivere. Poi li vidi.
Una pattuglia. Due uomini. Vesti lunghe da deserto, armi bianche. Sbucarono dalla mia destra, come dei fantasmi.
Mi avevano visto!
Non persero tempo ad avvisare: si lanciarono su di me. Il primo fece l’errore di avventarsi con troppa foga e ricevette una pugnalata in petto. Il secondo era più attento. Schivò il mio fendente. Evitai il suo attacco, portato con un pugnale ricurvo lungo.
-Fatti avanti, barbaro!-, ringhiai. L’ira per il tradimento e il dolore sofferto ora trovavano uno sfogo. L’altro ringhiò qualcosa in qualche dialetto primitivo. Non serviva tradurre.
Attaccò. Più volte. Evitai, schivai e infine, riuscii a colpirlo. Il suo braccio destro divenne un’appendice inanimata quando tranciai i tendini.
Lui però non cedette: ringhiò di furia e mi tirò un calcio. Dolore al ginocchio sinistro. Incespicai. Peggio ancora, incespicai verso il baratro.
L’altro ne approfittò. Si lanciò verso di me. Incurante del pericolo. Con la ferita che gli avevo aperto nel braccio, comunque non era messo bene. MI sferrò il calcio conclusivo.
Volai all’indietro, verso il baratro. Nel baratro.
La vita mi passò davanti, in pochi istanti. Rimpianti, errori, trionfi, disfatte, amici, nemici, tutto. E niente. Polvere nel vento, cenere fredda. Tutto passato.
Agitai le braccia verso un appiglio. Nessuno. Battei una spalla, poi la testa. La botta mi rincretinì. Sperai di perdere conoscenza, almeno non avrei sentito l’urto finale.
Metri volarono. Quanti? Dieci? Venti? Cinquanta? Che improtanza poteva avere?
Poi, improvvisamente, il mio braccio sinistro fu tirato verso l’alto. Afferrato.
-Ti ho preso!-, la voce di Ghanima. Agitai debolmente l’altro braccio. Trovai la mano, le mani, le braccia della Justicar. La nera guerrriera era in piedi su una sporgenza rocciosa, il peso bilanciato all’indietro. Mi teneva il braccio sinistro come fosse stato un relitto e lei la naufraga.
In realtà, la cosa era ben diversa. Arrivai alla sporgenza rocciosa con la mano destra. Lei mi aiutò a guadagnare la slavezza. La guardai. Era identica a come quando se n’era andata. Salvo per la cappa, più concia e bucherellata da alcuni fori di proiettili.
-Sei viva…-, mormorai sfiorandole le mani, colmo di stupore. -Anche tu.-, rispose lei.
La abbracciai. Strinsi sino a farle, e a farmi male. Lei ricambiò. Un lungo istante senza parlare. Poi ci staccammo. Ci guardammo, più con clinica attenzione che con sentimento.
-Sei ferita?-, chiesi. La nera guerriera scosse il capo.
-No. Ma tu hai l’aria di uno uscito da un mattatoio.-, rispose. Ero coperto di lordura e sangue non mio. Annuii.
-Leatus…-, iniziai. Ghanima annuì.
-Lo so. L’ho scoperto durnate l’imboscata. Ha cercato di abbattere me per prima con quel razzo. Ho cercato di tenervi libero un passaggio verso la fenditura.-, disse.
-Non sono riuscito a…-, mormorai. Il viso di Burius fece capolino dai miei ricordi.
-Non ho potuto…-, cercai di continuare. Fallii. Gli occhi bruciavano. Polvere? Dolore?
-Non fare questo a te stesso.-, la voce di Ghanima era pregna di una compassione che non le avevo mai sentito.
-Devo. Non posso perdonare. Non posso dimenticare.-, sussurrai, -Non posso lasciare che… svaniscano.-. Le parole parevano rovi in gola.
-Non ti chiedo di perdonare. Ti chiedo di non distruggerti.-, disse la Justicar.
-Li vendicheremo.-, dissi io. Lo dissi con rabbia, con indignazione.
-Lo faremo.-, disse Ghanima, -Ma prima, dobbiamo sopravvivere.-.
Ridiscendemmo la parete. Facemmo ritorno all’ampia pozza secca vicina alla fenditura.
Calcolammo l’acqua e il cibo. La prima era poca, ma il secondo era quasi nullo.
Guardammo fuori dalla fenditura. Era quasi notte. Era stato un giorno lunghissimo.
Ghanima uscì per prima. Si mosse con furtività e rapidità, come una pantera.
Il luogo dove il convoglio aveva opposto la sua ultima resistenza era una crisalide svuotata.
Non era rimasto nulla, nessun nemico, né nulla da prendere. La Justicar perlustrò rapidamente i mezzi. Trovò quaclosa. Vesti.
-Mettitele.-, disse passandomele.
-E le mie?-, chiesi.
-Non sono esattamente leggere. Il deserto non perdona, lo sai.-, rispose lei senza guardarmi mentre svitava tappi ai serbatoi. Introdusse un pezzo di metallo lungo abbastanza da toccare il fondo del serbatoio. Lo estrasse. -Carburante.-, disse.
Prese qualcosa dalla bisaccia. Un tubo. Portò un estermità alla bocca.
Lentamente, con cautela, travasò il magro residuo in una bottiglia ritrovata poco prima.
-Ci servirà.-, disse rispondendo alla mia tacita domanda mentre io gettavo i miei vecchi abiti a terra.
-il villaggio più vicino è a quattro giorni di cammino.-, dissi.
-Sì.-, rispose Ghanima, -Muoviamoci.-.
Incominciammo a marciare. La notte era fresca, quasi fredda. Bevemmo due sorsi d’acqua ogni tre-quattro ore. Non parlammo. Quando arrivò l’aurora, ci vide giungere in vista di un avvallamento. Ghanima si fermò, valutò la situazione. C’era uno strano arbusto. La Justicar si mise a scavare, sino a disseppellirne le radici. Sotto, c’era qualcosa. Acqua. Fangosa, ma c’era. Ghanima e io usammo il tessuto in esubero che avevamo per filtrarla alla meglio.
Bevemmo. Allestimmo qualcosa di simile a una tenda con la sua cappa e altri tessuti.
-Devi riposare.-, dissi.
-Anche tu.-, rispose lei, -Dormi.-.
-Non è giusto che continui a sacrificarti.-, m’intestardii io. Lei sorrise appena.
-È la mia vita.-, disse. Le afferrai il braccio. Lei s’irrigidì. Difesa istintiva. Non mollai
-Non più solo la tua.-, dissi. La fissai ancora. E lei sospirò.
-Dicono che amare una Justicar sia una pessima idea.-, disse.
-Dicono anche che seguirne una sia una pessima idea.-, dissi io con un sorrisetto ebete.
-Te ne pentirai.-, ribatté la nera fissandomi senza ilarità.
-Forse. Cominciamo a sopravvivere sino a domani, ti va?-, chiesi. Poi mi protesi. Lei non si ritrasse. Le nostre labbra si sfiorarono. E lo sfiorarsi divenne un bacio.
Mi afferrò la nuca, piano, ma con fermezza, inclinai il capo. Ci staccammo dopo un minuto buono. Eravamo entrambi a corto di fiato.
-Non qui. Non ora.-, disse Ghanima. Annuii. Capivo. Accettavo.
-Il primo turno lo faccio io.-, disse ancora. Sospirai. Non si sarebbe piegata.
E neppure io. Ma continuare a litigare era inutile, anzi, dannoso.
Mi sdraiai alla meglio e chiusi gli occhi.
Il riposo mi lasciò intontito, ma almeno attenuò la massa di dolori che sentivo.
Lentamente, mi alzai. Bevvi un sorso dalla nostra scorta di acqua. Solo uno.
Poi uscì dalla… tenda. Era stata eretta con pochi pioli di metallo, era instabile come poche e tratteneva il calore. Fuori, faceva caldo. Il deserto era al suo apice.
Ghanima, in piedi, incontrò il mio sguardo. Annuì senza parlare. Entrò nella tenda.
La vidi stendersi sul fianco destro, le mano lungo il fianco, in prossimità degli shaken, e chiudere gli occhi. Pareva guardinga pure nel sonno.
Mi concentrai sul resto. Il turno di guardia era lungo. Almeno quattro ore.
Mi avvolsi del tessuto attorno al capo. Espendiente per evitare le insolazioni.
Attesi. Feci brevissimi giri di ronda. Cercai di sfruttare l’ombra concessa dalle dune.
Niente. Almeno per un po’. Verso la seconda, terza ora di guardia, vidi delle sagome su una duna. Viandanti? Pastori? Predoni? Impossibile dire.
E inutile rischiare. Ponderai le alternative. Svegliare Ghanima era imperativo, per quanto mi paresse sbagliato. Entrai nella tenda. Lei aprì gli occhi. Subito, di scatto.
-Ci hanno trovati?-, chiese alzandosi a sedere. Scossi il capo.
-Potrebbero essere solo viandanti…-, dissi.
-Non possiamo indugiare.-, ribatté lei. Prese a smontare la tenda, rimettendosi la cappa e infilando il resto del tessuto in una borsa che teneva a tracolla. Fui folgorato da un intuizione.
-Ghanima…-, iniziai. Lei mi fissò.
-Tu sapevi? Sapevi che questo sarebbe potuto accadere.-, dissi. Non era una domanda.
-Sì.-, disse lei soltanto. Io annuii. -Come?-, chiesi soltanto.
-Non ho questa riposta.-, disse la guerriera in nero.
-Hai un ipotesi di risposta?-, chiesi. Lei chiuse gli occhi, li riaprì.
-Esistette un uomo. Fondò il nostro ordine. Prima del Cataclisma. E dopo… prima che il suo tempo giungesse, ci insegnò. Insegnò ai nostri fondatori…-, disse.
-Come uccidere? E come preservare la vita?-, chiesi. Lei annuì.
-Anche. Nessun Justicar è uguale agli altri. Non siamo che accomunati da uno scopo, da un giuramento, e da un addestramento che però… sfuma nel tempo.-, con le mani, la nera fece un gesto come di affluire, le dita che si chiudevano graziosamente a pugno dopo un gesto aggraziato e lento. Un movimento che sfumò nel mistico.
-Nel tempo, le forme per combattere, le nozioni, divengono secondarie. E poi… c’è qualcosa che non lo è mai. Che comprende tutto il resto. E vi dà origine.-, la voce di Ghanima Buenariva era intrisa di un senso di solennità umile.
Un controsenso che mi spinse a chiedere.
-Cosa? Cos’è?-, chiese.
-La via verso il Vuoto.-, sussurrò lei. Quelle parole mi colpirono come un maglio.
-Il Vuoto?-, chiese.
-L’ultimo elemento primo. L’antico Alpha e Omega. L’inizio e la fine.-, spiegò.
-E tu… senti il Vuoto?-, chiesi io, stupito.
-È lui che mi parla.-, rispose la nera, -Ma non con parole.-.
-È questo ciò che intendi? Il segreto dei Justicarii?-, chiesi.
-È questo. E non lo é. Non è “nostro”. È di ogni uomo. E di ogni donna. Di tutti noi, dall’alba alla fine dei tempi.-, concluse lei. Si voltò. Incominciò a camminare. Io fissai la sua schiena, avvolta nuovamente dalla cappa.
-Ha un nome, questa via?-, chiesi.
-Haragei.-, rispose Ghanima senza voltarsi. Una parola aliena. Da terre perdute, da civiltà dimenticate, o forse no. Annuii appena. La seguii.
Il caldo era soffocante e il vento alzava mulinelli di sabbia. La mia visione ondeggiava nel calore del pomeriggio. A ogni passo che facevo, davo un colpo a terra con il tessuto della tenda. Magro tentativo di cancellare le tracce.
-Ci troveranno…-, mormorai.
-È probabile.-, rispose Ghanima.
-Allora a che serve?-, chiesi mentre mi fermavo a cancellare l’impronta fatta.
-A rallentarli.-, disse lei.
-Hai un piano? Perché credo che contro una ventina di nemici ci servirà ben più di una buona lama.-, Lei annuì. Parve ascoltare, fissare il nulla. Poi svoltò verso destra.
-Dove stiamo andando?-, chiesi. La Justicar non mi rispose. Non subito.
Poi, superata una duna lo vedemmo.
Un vecchio avamposto, forse risalente a guerre dimenticate. Nient’altro che rovine nel deserto. Una crisalide svuotata, tre mura a malapena coperte da un soffitto brecciato in un punto. Per noi però… era la salvezza.
Ci rintanammo in quell’edificio dopo aver verificato che nessuno lo occupasse e aver coperto le tracce. Sospirai, crollando a terra. Ero sfiancato dal caldo. La Justicar non pareva così mal messa, ma anche lei pareva provata, nonostante tutto.
-Come lo sapevi?-, chiesi.
-Ci sono dei segni. Non siamo i primi a giungere qui.-, disse. Sfiorò le pareti, toccò i muri, come alla ricerca di qualcosa che avrebbe dovuto esserci. Infine, picchiettò sulle pareti con l’impugnatura del suo coltello. Improvvisamente, un pezzo del muro parve suonare a vuoto.
-Trovato!-, esclamò la guerriera. Colpì il muro. Ancora e ancora. Raccolse una pietra, una mattonella e lo colpì sino ad aprire una breccia.
-Un nascondiglio.-, intuii io, -Del tuo Ordine?-.
-Sì. Un Justicar ha lasciato quaggiù qualcosa.-, disse Ghanima. Estrasse una pistola, arma a proiettili solidi, e due caricatori, cautamente avvolti in materiale isolante. Poi estrasse una bottiglia di acqua desalinizzata. Svitò il tappo e annusò. Scosse il capo.
-Berla ci porterebbe la dissenteria.-, disse.
-Potremmo bollirla.-, proposi.
-No. Ci metteremmo troppo. Non possiamo comunque attardarci qui.-, ribatté lei mentre estraeva dal nascondiglio una razione di cibo. Controllò la data, facendo qualche conto. Annuì. La aprì. Era composta da quattro barrette di pasta vegetale. Roba chimica, fatta per durare. Ne mangiammo una a testa, con due sorsi d’acqua ciascuno. Un banchetto.
Eravamo disidratati, e l’acqua era e restava il problema primario.
Valutammo come procedere: Ghanima aveva estratto dal nascondiglio una mappa.
Indicava la nostra posizione ed era sufficientemente precisa da garantirci di capire che per arrivare al villaggio più vicino, avremmo dovuto camminare almeno altri due giorni.
-Leatus non lascerà che arriviamo al villaggio.-, dissi.
-Non vuole che si venga a sapere di ciò che ha fatto. E chiunque lo aiuti non vuole venire scoperto, quindi gli farà pressioni perché si assicuri che siamo morti.-, dedusse Ghanima.
La Justicar aveva già ricollegato i fili del mio ragionamento.
-Qualcuno potente abbastanza da mettere le mani su armi non registrate, esplosivi ad alto potenziale… Qualcuno con fondi notevoli.-, ragionai io. La Justicar, seduta sulle ginocchia, annuì appena.
-Questa cosa arriva in alto. Molto.-, disse.
-Ma allora perché avere un solo inflitrato?-, chiesi io.
-Forse perché di più sarebbero stati di troppo.-, ribatté lei. Io sospirai.
-Resta che Leatus ha un esercito. Noi siamo in due.-, osservai con fatalismo.
-Lui non sa che io sono viva.-, precisò Ghanima. Annuii.
-E non vogliamo che lo scopra.-, ragionai ad alta voce, -Quindi… se io dovessi ragionare come lui, cercherei in posti come questo.-.
-E piazzerei qualche uomo al villaggio più vicino.-, aggiunse la nera.
-Sì. Una tattica su due fronti. Da una delle due parti, prima o poi, qualcuno ci troverà.-, dissi.
-Allora, facciamoci trovare.-, propose lei.
-In due contro venti?-, chiesi io, scettico.
-In uno contro venti.-, chiarì Ghanima.
-Sei uscita di senno?-, chiesi, non riuscendo a capire.
-No. Rifletti: Leatus ormai avrà capito che, non trovando il tuo corpo, sarai ancora vivo. Non si darà pace finché non ti troverà. I viandanti dell’altro giorno magari erano ricognitori. In ogni, caso, non possiamo escludere che almeno una pattuglia stia arrivando qui. Io dico di accontentarli. Li affrontiamo, ma alle nostre condizioni.-.
-Un imboscata.-, capii io. Era comunque folle. Ma era l’unica.
-Abbiamo qualcosa.-, disse la Justicar. Estrasse due granate. Roba antica. Probabilmente ancora funzionati, a giudicare dalla cautela.
-E tu intanto cosa farai?-, chiesi sollevando lo sguardo su di lei.
Ghanima sorrise, ferocemente.
-Io darò loro spettri da inseguire.-.
Ero sepolto. Nella sabbia. Osservavo il gruppo. Quattro nemici. Nessun’arma da tiro.
Attendevo. La sabbia mi pesava addosso. Due briganti battibeccavano tra loro. Uno agitò un vox. Comunicatore piccolo, modello militare. Ancora una volta, palesemente, risultato di fondi illeciti. Annuii. Due su quattro mi davano la schiena.
Mi alzai. Emersi dalle sabbie. Uno dei quattro mi vide. Alzò un dito, la bocca aperta.
Sparai a braccio teso. La pistola rinculò. L’uomo col braccio teso crollò all’indietro. Gli altri si avventarono. Riposizionai e sparai. Il numero due, quello col vox, crollò a terra. Terzo colpo, con due nemici a meno di venti metri. Un altro crollò a terra. Ferito mortalmente.
L’ultimo calò un fendente. E io sparai. Due colpi. Al petto. L’ultimo bandito, ancora vivo, si girò sulla schiena. Mi guardò. Ricambiai lo sguardo. Estrassi il coltello e misi fine alle sue sofferenze. Il vox crepitò.
-Shuzec! Shuzec! Mi ricevi?-, voce diversa, nota. Una voce traditrice. La voce di Leatus.
-Shuzec… dove sei?-, chiese, improvvisamente esitante. Presi la trasmittente.
-Non riposa in pace.-, dissi una volta premuto il tasto. La mia voce non mi parve mia.
-Alexander…-, mormorò Leatus, -Sapevo che eri vivo.-.
-Nulla di nuovo dunque. Io invece non immaginavo tu fossi un simile verme.-, dissi.
-La puttana in nero invece non se l’è cavata, eh?-, chiese Leatus, -E io vengo a prenderti!-.
-Accomodati.-, dissi io. Calma, ira talmente grande da aver raggiunto l’opposto stato, ecco ciò che sentivo. Strinsi la pistola.
-Ho tracciato questa frequenza! Siamo in venti! Prega il tuo dio.-, ringhiò Leatus.
-Ogni dio ha voltato le spalle.-, dissi io. Chiusi la trasmissione.
Lanciai la trasmittente a perdersi nel nulla.
Vidi una nube di polvere sollevarsi all’orizzonte. Cavalieri. Tre. Mi morsi le labbra screpolate.
Alzai la pistola. Erano lì per me. Ma io ero lì per loro, per ognuno di loro.
Collimai le tacche di mira. Sparai. Il primo cavaliere incassò al collo. Fu scagliato a terra.
Finì calpestato dagli altri al galoppo, alla carica. Cambiai bersaglio. Uno del terzetto sparò con una pistola. Colpi imprecisi, troppo. Mi mancò completamente. Sparai in risposta. Colpo doppio al petto. L’ultimo spronò il cavallo, intenzionato a raggiungermi.
Lo guardai mentre alzava una sciabola curva e acuminata in punta. Arma antica, sicuramente. Nulla a che vedere o da invidiare alle lame dell’antica Licanes.
Sparai l’ultimo colpo, da dieci metri. L’uomo crollò da cavallo, fulminato. Centrato al capo.
I cavalli si dispersero, fuggirono in varie direzioni. Andava bene così.
Mi avvicinai ai caduti. Tolsi la pistola a quello che ce l’aveva. La controllai. Vecchio catenaccio appartenente a qualche armata dimenticata. Ancora funzionante, però.
Un capogiro mi forzò a rallentare la camminata verso la struttura. Ero stanco, disidratato. Il corpo richiedeva liquidi a gran voce.
Raggiunsi la bisaccia e bevvi due sorsi. Meglio. Fu quasi come ubriacarsi. Sorrisi.
I due tizi che avevo ucciso non avevano acqua con loro, ma anche l’avessero avuto avrei avuto riserve a servirmene: in quelle zone non era scontato che fosse priva di batteri.
Espirai piano. Sapevo che Leatus stava arrivando.
Uno scalpaccio di zoccoli mi obbligò ad alzarmi. A puntare la porta della stamberga.
-Sono io.-, la voce di Ghanima. Entrò. Era stanca, lo vedevo. Anche per una Justicar ci sono limiti fisici non indifferenti da considerare e lei si stava spingendo ben oltre essi. Si terse la fronte con una mano. Aveva del sangue sulla cappa. Non era suo.
-Hai rubato un loro cavallo?-, chiesi.
-Tra le altre cose.-, ammise la nera. Afferrò la borraccia e bevve due sorsate.
-Leatus sa dove siamo. Ci sta per arrivare addosso.-. dissi alzandomi. Lei annuì.
-Allora gli lasceremo un regalo.-, disse.
Le esplosioni ci avvisarno un buon quindici minuti dopo che qualcuno dei ricognitori, forse Leatus stesso, erano caduti nella trappola. L’idea di minare l’ingresso era stata di Ghanima. Era stata una trappola semplice. Un filo teso lungo l’apertura all’ingresso, un’estremità collegata a una granata. Una semplice tirata, un inciampo inconsapevole e la spoletta usciva dalla sua sede. Semplice ed efficace. Eppure, bastava stare attenti per evitare la trappola.
Leatus lo era stato? Me lo chiesi fugacemente mentre marciavano. La Justicar proseguiva spronando il cavallo che mal sopportava il peso di entrambi.
-È inutile.-, dissi mentre il sole tramontava di nuovo, -Siamo troppo pesanti. Questa povera bestia renderà l’anima a Yneas tra breve.-.
-È vero.-, annuì Ghanima. La guerriera smontò da cavallo e diede una pacca all’animale, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. La bestia capì, o almeno parve, perché partì al galoppo.
-Pensi che distrarrà Leatus e i suoi?-, chiesi. Sinceramente, non mi aspettavo un sì.
-Genererà confusione. Ma distrarli no. Siamo oltre questo, e lo sai. Leatus vuole lo scontro finale. Vuole sincerarsi che il deserto c’inghiotta, a costo di seppellirci con le sue mani.-, rispose lei. Mi offrì un sorso dalla fiasca. Accettai. Bevvi e bevve anche lei.
Eravamo esausti, poco da dire. Leatus e i suoi erano riposati, riforniti. Noi quasi allo stremo.
Non sarebbe stato uno scontro equo.
-E tutti avranno quello che vogliono.-, mormorai. Crollai a terra. A che serviva?
“La vendetta non conta più niente?”, mi chiesi. Guardai davanti a me. Burius mi apparve, ma il suo corpo era quello di un Licaone, un felinide selvatico tipico dell’antica Licanes, il manto nero lucente, guizzante di muscoli tesi. Mi ghignò in faccia.
-Ho fatto davvero un pessimo affare, eh?-, chiese, -In fin dei conti, perdevo un sacco ai dadi.-.
-Maledetto bastardo…-, gemetti. Mossi una mano verso di lui. Non lo raggiunsi.
Lui sorrise appena. Scavò nel deserto. Estrasse qualcosa. Acqua? No. Era troppo fangosa.
Era fango. Gli colò tra le dita della zampa destra anteriore. Un movimento lento, ipnotico.
-Veniamo dalla terra, e alla terra torniamo, ragazzo.-., disse.
-Sta zitto… Vecchio.-, riuscii a proferire. Burius mi rise in faccia. Il suo fiato mi parve sbagliato, privo d’alcool.
-È per la terra che si fanno follie…-, disse. Poi, improvvisamente mi colpì. Un ceffone.
Scossi il capo. Riaprii gli occhi. Ghanima mi fissava, preoccupata e allo stesso tempo adirata. Mi riscossi. Era stata un’allucinazione. Il caldo, la poca acqua, il poco sonno.
-Merda…-, mormorai.
-Forza.-, mi esortò la Justicar, -Dobbiamo muoverci!-.
-Verso dove?-, chiesi io.
-Verso un punto migliore.-, ribatté la nera. Mi forzai a seguirla. A non esprimere il pensiero che sentivo dentro, l’inconfessabile sensazione che qualunque difesa sarebbe stata vana, ovunque. Ma lei evidentemente la pensava in modo diverso e si faceva strada tra le dune, incurante del vento che sollevava la sabbia.
Fu quando la luna si fece alta nel cielo, che ci fermammo.
Crollai a terra, riuscendo solo per miracolo di volontà a non sdraiarmi, limitandomi a restare seduto sui talloni, stanco. Sentii qualcosa sulle spalle. Il manto della Justicar. Ghanima mi fissò, il viso neutro, un accenno di compassione forse, baluginava nei suoi occhi.
-Riposa.-, disse.
-No… non è giusto… tu…-, cercai di dire. Lei alzò appena un dito. Me lo pose sulle labbra.
-Riposa.-, ordinò. Io scossi il capo. La Justicar mi accarezzò appena la guancia. Un gesto d’affetto.
-Riposa. Ho bisogno che tu sia forte. E ho bisogno che tu viva.-, disse.
-Tu… ne hai più bisogno…. di me…-, ribattei, smozzicando la frase a causa della stanchezza, della sete e della prostrazione. Ghanima mi fissò, per un lungo istante.
-No.-, disse soltanto. Io alzai lo sguardo.
-Ti amo.-, dissi. Mi ero immaginato di dirglielo in mille altri modi, in mille altri tempi.
Ma la verità era che quel tempo e quel luogo, probabilmente, erano e sarebbero stati tutto ciò che avremmo mai potuto avere. Lei sorrise. Parve restare in ascolto. Per un lungo istante.
Poi, lentamente, si sedette accanto a me. Mi spinse a sdraiarmi su un fianco. Mi si avvicinò sino ad aderire a me, avvolgendoci nella sua cappa, sotto le stelle.
-Ghanima…-, iniziai. Era un’intimità diversa da qualunque altra avessi vissuto.
-Taci.-, sibilò lei. Stava sorridendo? Forse. Sicuramente, le sue labbra erano vicine.
E furono sulle mie, un istante dopo. Un bacio lungo, pieno. Sentii la sua mano afferrarmi la nuca. Lottai contro la stanchezza per stringerla a me. La sentii accogliere la mia stretta. Impossibile che non notasse il mio stato. Non ero indifferente alle sensazioni che stavo provando. Ma la Justicar non pareva curarsene, anzi.
Rimanemmo lì, stretti l’uno all’altra. Naufraghi nelle terre perdute, guerrieri di un’armata disgregata, amanti sperduti nel deserto, inermi e superbi allo stesso tempo. Ci staccammo.
-Domani potremmo essere morti.-, dissi accarezzando la schiena della nera attraverso le vesti che portava. Arrivai sin sopra le natiche. Scesi appena. Lei annuì. Mi baciò ancora.
Il desiderio era palese. Il suo, ma anche il mio. A dispetto di tutto.
-Non moriremo.-, disse lei. La fissai, sorpreso.
-Come lo sai?-, chiesi, -Haragei?-.
-Lo so.-, rispose Ghanima. La fissai. Mi guardava con un’espressione calma, pacata, ma negli occhi coglievo un luccicore, quello di una donna che desidera un uomo.
Evidentemente però, non volveva cedere a tale desiderio in quel momento.
-Prendi questo.-, disse passandomi uno degli shaken sfilandoselo dalla custodia al fianco.
-Non so usarli…-, dissi io.
-Non devi. Sono marchiati. Un simbolo che ogni Justicar può capire.-, spiegò lei, -Lo userai quando sarà il momento.-.
-Il momento… di cosa?-, chiesi io. Non capivo. Non riuscivo a capire.
-Di accettare la verità.-, sussurrò la nera.
-La verità… su di noi?-, chiesi. Scosse il capo.
-Lo capirai.-, disse, criptica. Io sospirai.
-Voi Justicarii e i vostri enigmi…-, sorrisi accarezzandole il viso. Mi prese la mano.
-Si è spesso detto che le donne della mia famiglia sono incapaci di provare affetto. Lo si è detto da prima del Cataclisma.-, disse. Mi fissò negli occhi, lo sguardo così intenso da bruciare, -Ora so che non è vero.-.
Mi baciò nuovamente. E lentamente, sentii di scivolare verso il sonno. Tentai di resistere ma non ci riuscii.
Mi svegliai quando la prima luce rischiarava il cielo. Ghanima non c’era.
Era scomparsa. Cercai sue tracce. Non le trovai. La chiamai. Rispose il vuoto.
Ero solo. Come se lei fosse stata il miraggio. Forse era così. Ma fui smentito.
Lo shaken, Il ferro da lancio… Lo presi in mano, rigirandolo tra le dita.
“Un segno…”, pensai.
Il rombo di un mezzo con un antiquatissimo motore a scoppio mi impedì di proseguire. Lo vidi apparire da oltre una duna, sbandando. Un solo mezzo. Niente cavalieri di scorta. Un automezzo quadrigommato da deserto, con un pianale su cui erano assiepati altri uomini. Almeno un ette-otto persone solo sul retro. E due davanti.
-Te l’avevo detto che ti venivo a prendere, Alexander!-, urlò la voce di Leatus.
Si ergeva in mezzo al pianale. Leader dell’orda. Demiurgo della congrega dell’annientamento.
-Me lo avevi detto.-, dissi. Cercai la pistola. La trovai. La impugnai.
-Coraggio! Ti concedo un colpo!-, esclamò Leatus mentre i suoi uomini urlavano e si sbracciavano. Era così tremendamente fiducioso. Mirai. La mia mano tremava. Mancanza di sonno e d’acqua. Nervi tesi quasi oltre il punto di rottura.
Non vidi armi da fuoco. Lui estrasse la sua, una pistola las di fattura assimile a quella dell’antica Licanes. Puntò.
-Il primo colpo, Alex! Poi sparerò io.-, disse.
La mia mano tremò. Non persi tempo ad analizzare la cosa. Sparai. E mancai. Come in un incubo, vidi il proiettile oltrepassare Leatus, ferire uno dei suoi bruti e perdersi nel nulla. Il mio nemico sorrise. Mirò. L’arma mi cadde di mano. Affondò nella sabbia. Scossi il capo.
Inutile implorare. O schivare. Era finita. Ero morto.
-Addio, Alex.-, disse, -Mi spiace che tu sia stato un tale idiota.-.
-Addio.-, la voce di Ghanima spezzò la stasi. Qualcosa emerse dal deserto, nero contro la sabbia. Una figura partorita dagli incubi, che rimase accucciata per pochi istanti. Poi qualcosa fu lanciato da quella creatura che pareva partorita dall’inferno. Leatus e i suoi, puro caos. Qualcuno tentò di scendere. Ci riuscì. Non ci riuscì abbastanza in fretta.
Una bottiglia. Con uno straccio incendiato all’estremità.
Un esplosivo rudimentale, antico già quando Licanes non era sorta dal ventre del Caos.
Impattò contro la portiera. Urla, panico. Fuoco. Si disperse a schizzi, impattò su metallo e uomini. Divorò con vampe alimentate dal vento, come il respiro di un demone.
-Una sola verità, Leatus.-, la voce di Ghanima Buenariva sovrastò il fuoco e le urla.
-Non riposano in pace.-, disse mentre voltava le spalle al mezzo in fiamme.
Ci lasciammo tutto alle spalle. Non rimanemmo fermi a recuperare nulla.
Corremmo mettendo quanta più distanza tra noi e il veicolo. Arrancammo, consapevoli che tutto stava finendo. Cibo? Avevamo diviso l’ultima razione. Acqua? Eravamo a secco, quasi. Energie? Eravamo morti che camminavano.
Arrivammo al ciglio di un altura mentre il pomeriggio si faceva inoltrato.
La vista più bella si rivelò ai nostri occhi. Luci. Un villaggio. La salvezza!
Sorrisi. Riuscii a sorridere. E anche Ghanima sorrise.
“Siamo salvi.”, pensai. Certo, eravamo nelle terre desolate, lontani dalla civiltà, ma la possibilità di contattare qualche avamposto della Confederatio c’era. Significava la salvezza.
Mossi i primi passi verso la discesa della duna. Ghanima mi superò, un passo misurato, sorrideva nonostante la stanchezza.
Poi il boato squarciò la pace e il silenzio. La vidi irrigidirsi, cadere a terra. Colpita alle spalle.
Mi girai. La mia mano destra corse al coltello. L’ultima arma rimastami.
Leatus, il viso sfregiato dalle ustioni, contratto dall’odio, rinfoderò la pistola
-Non sono sopravvissuto a tutta questa merda per crepare in questo buco polveroso!-, ringhiò. Aveva uno sguardo da folle. Sguainò il pugnale. Voleva il mio sangue.
E l’avrebbe ottenuto: ustionato e pazzo, non sembrava interessato a nient’altro, salvo portare a termine la sua vendetta. Gettai uno sguardo angosciato verso Ghanima. La Justicar giaceva a terra. Morta? No. Ma era debolissima. Aveva perso sangue. E ora…
Ora sarebbe morta, se non avessi chiuso quella storia lì, in quel momento.
-Neanche la Justicar mi ha fermato! La morte non mi ha voluto! Yneas non mi ha preso con sé, e allora ben venga la vendetta! Coraggio, Alex!-, esclamò con rabbia e gioia al contempo Leatus. Estrassi la lama. Ero esausto, tremebondo e la sete mi rendeva fiacco e incerto finanche sui movimenti. Uno scontro con il coltello in condizioni simili era un suicidio.
E anche l’ultima opzione.
-Fai del tuo peggio, Leatus!-, esclamai mettendomi in guardia.
Lui rise maniacalmente, mentre avanzava.
-Non ti reggi in piedi, soldatino.-, sibilò divertito mentre sferrava un fendente e fintava a sinistra. Dipinse un arabesco cremisi sul mio braccio destro. Indietreggiai. Incespicai.
-Non hai più nulla da dare, nulla che ti salvi. È finita!-, esclamò mentre attaccava. Schivai, sferrai un fendente. Mi torse il braccio disaramandomi. Mi spinse via, senza colpirmi. Stava giocando con me. Con noi, perché a ogni secondo che perdevo, Ghanima peggiorava, avvicinandosi alle soglie di Yneas.
-Bastardo!-, ringhiai, -Figlio di puttana!-. Attaccai, a mani nude. Scoordinato ed esausto, fui ributtato a terra. Leatus rise. Ancora.
Ero a carponi, respiravo affannosamente. Esausto, a terra, lo vidi avvicinarsi, incombere.
-Sai, credo che mi divertirò con la troia in nero.-, disse afferrandomi per i capelli, tirandomi in ginocchio ed espondendo il mio collo, impugnando il coltello. -Mi divertirò un sacco.-.
“Ora o mai più!”, pensai. Afferrai con le mani il polso armato di Leatus prima che compisse la passata conclusiva. Uscì dalla presa all’indietro, dirigendo la lama verso di lui, all’altezza del petto. Come sospettavo: non portava la corazza, solo vesti bruciacchiate sotto le quali c’era solo la pelle. Sentii la lama trapassarlo. L’urlo impotente di Leatus fu un girdo di agonia e rabbia mentre crollava, che divenne un gemito.
Mi alzai in piedi, lottando per restare eretto. Raggiunsi Ghanima. Trovai la giugulare della Justicar. Battiti! Era viva! La girai, piano. La pallottola l’aveva colpita. Spalla, o appena sotto. Era uscita dalla parte opposta. Le mani della nera si mossero debolmente, mi vedeva ma respirava a tratti. Teneva la vita coi denti. Strappai dalla sua cintura qualcosa. Bende.
Bendai, medicai.
-Torno subito.-, dissi. Le presi il Tantō. Forse non era giusto, ma lei non si oppose. Annuì appena, un cenno intriso di sofferenza.
Raggiunsi Leatus. Mi fissò con odio, la lama ancora infissa nel petto.
-Maledetto…-, sibilò.
-Come te e il tuo capo. Chi è che dà gli ordini, Leatus?-, chiesi.
-Vaffanculo!-, sputò una boccata rossastra.
Annuii. Lo fissai. E notai una cosa. Una sorta di collana. No. Un auricolare. Un minuscolo impianto audio. Salvato dalla devastazione del fuoco?
Forse. E forse aveva anche un ricevente. Glielo tolsi. Lui mi fissò, con odio.
Io ricambiai. Non c’era altro da dire. Pugnalai il traditore con il colpo di grazia più immediato e asettico che riuscii a dare.
Dal villaggio, vidi un gruppo di uomini. Mi sbracciai. Ci vennero in contro. Arrivarono altri. Aiuti. Salvezza. Ghanima fu caricata su una lettiga. Non si muoveva più. Mi si strinse il cuore.
Ci portarono al villaggio, a una sorta di dispensario medico. Il medico era un Frisio, un volontario. Era venuto lÌ per il desiderio di alleviare le sofferenze dei più miserabili. Gettò appena uno sguardo a Ghanima.
-Justicar?-, chiese.
-È un problema?-, chiesi io stringendo inconsciamente il coltello. Avevano cercato di togliermelo. Avevo rifiutato. Non me ne sarei separato. Mai.
-No. Innanzi tutto è una donna bisognosa di cure. Lei ha la priorità. Immagino che veniate da… ciò che un tempo era l’Impero.-, disse lui. Era un cinquantenne e, seppur abbigliato nelle vesti degli abitanti del villaggio, conservava la parlata e il modo di fare della Confederatio.
Annuii. Lui somministrò liquidi per via endovenosa a Ghanima.
-Il proiettile è uscito?-, chiese.
-Sì.-, risposi io, -Dottore… se la caverà?-, osai chiedere.
-Il polmone non è leso. Ma ha perso molto sangue.-, rispose il medico. Preparò un’altra flebo con una sacca di plasma. Aveva già eseguito uno screening del sangue della nera tramite uno scanner quasi istantaneo.
-Alex…-, appena un sibilo.
-Incredibile!-, esclamò il medico. Ghanima era allo stremo. Ma i suoi occhi erano aperti.
-Sono qui!-, esclamai superando il medico e inginocchiandomi, -Sono qui. Siamo salvi.-.
-Lea… Leatus?-, chiese lei. Il medico aveva aperto la giubba della guerriera, aveva continuato a ripulire, vagliare, cercando di tenerla viva. Non poteva fare molto altro più di quel che aveva fatto.
-Morto.-, dissi io. Le mostrai il Tantō.
-Non… finisce…-, articolò la Justicar, -Non ancora….-.
-C’è qualcuno da cui prendeva ordini.-, confermai. La mano della Justicar, avvolta dalla mia, mi strinse. Fu solo un istante, ma bastò.
-Trovali.-, sussurrò, -Fai sì che paghino.-.
-Lo farò. Te lo giuro.-, dissi. Sentivo le lacrime bagnarmi il viso. Non volevo perderla. Non volevo morisse. Ma la verità era che il suo destino non era più nelle mie mani, né in quelle del medico.
-La sedo.-, decise il medico.
-No…-, mormorò lei. Si divincolò, muovendosi appena.
-Ghanima… ho bisogno che tu stia calma, che recuperi le forze. Lo troviamo, il bastardo che ha orchestrato tutto. Lo troviamo… e lo inchiodiamo.-, promisi.
-Vai, Alex. Vai… E torna…-, sussurrò la nera. Poi chiuse gli occhi, scivolando sulla schiena.
-È svenuta.-, disse il medico. Si affardellò attorno al tavolo operatorio. L’ambulatorio era la sola struttura in muratura ed era un dispensario primitivo rispetto al peggiore degli ospedali della Confederatio di Licanes.
-La tenga in vita, dottore.-, dissi, -E mi dica, qualcuno possiede rudimenti di tecnologia licanea?-, chesi. Lui si limitò ad annuire, indicandosi.
-Allora lei può aiutarmi. Devo sapere dove trasmetteva questo.-, dissi mostrandogli l’apparecchio.
-Aspetti.-, ordinò lui, -Intanto beva qualcosa, si riposi, faccia una doccia… Insomma, esca un attimo. Nabir le mostrerà i suoi alloggi.-, disse mentre si rimetteva a suturare, incidere e operare sul corpo di Ghanima e un giovane del posto mi esortò a seguirlo.
Mi lavai, indugiando per diverso tempo in quello che per giorni mi era parso un lusso inarrivabile. Bevvi almeno un litro d’acqua. Dormii per ore. Quando mi risvegliai, non era ancora l’alba. L’alloggio era spartano, una yurta con una tinozza d’acqua che sarebbe poi stata rifiltrata e riciclata, una sorta di letto e poco altro.
Sul momento non m’interessava. Pensavo a Ghanima. E al mandante di quella strage.
Uno specchio mi restituì un’immagine di me stesso. Non mi riconobbi. Il viso scavato, gli occhi resi vacui da troppo dolore, l’espressione che avevo, il fisico pieno di ferite, vecchie e nuove. Impossibile dimenticare, impossibile annullare.
Non sarei tornato a fare da scorta alle carovane, mai più. Questo lo avevo capito nel momento in cui avevo visto bruciare la mia.
Ma ora comprendevo anche un’altra cosa.
Sentivo qualcosa. Un suono oltre la barriera dei decibel. Come l’aveva chiamato Ghanima?
Il Vuoto. Sorrisi appena.
-Non riposano in pace.-, dissi a nessuno in particolare.
Il medico, Ludoldus, mi fissò con irritazione.
-Lei è un’autentico tizzone d’inferno. Ma si è dato un’occhiata allo specchio?-, chiese quando entrai nel dispensario.
-Sì, l’ho fatto. Ghanima come sta?-, chiesi.
-Dorme. E fossi in lei la lascerei dormire. Anche a dispetto della sua tempra, era sfinita. I Justicarii sono pur sempre esseri umani.-, disse lui, -E immagino che lei sia qui per quella trasmittente.-. Annuii porgendogliela.
-Uhm. Modello militare. Notevole. Compatta e fatta per restare operativa in condizioni proibitive.-, disse rigirandosela in mano.
-Ne sa parecchio per essere un medico.-, osservai.
-Due anni di servizio nelle forze di sicurezza della Confederatio.-, rispose lui, -Addetto alle comunicazioni.-. Mi invitò a seguirlo verso una stanza attigua. Accese un generatore e attivò un computer. Collegò cavi, smontò pezzi dell’aurcolare sino ad alzarsi con un sorriso.
-Ecco svelato l’arcano.-, disse, -La comunicazione proviene dal 698 via Decumana di Branusia, in Renania.-.
Annuii. Era l’abitazione di uno dei finanziatori di Ollianus. Quella di Orosio Malparo Dumio.
Un uomo noto per le simpatie agli ambienti militaristi.
Tutto assunse un senso.
-Mi serve un trasporto. Un velivolo.-, dissi.
-E che altro?-, chiese Ludoldus con sarcasmo. Vide che non scherzavo. Contattò chi di dovere. Mi rassicurai che lui avrebbe tenuto al sicuro Ghanima sino al mio ritorno.
Raggiungere la Renania fu facile. Notai subito gli sguardi della gente. Non capivano. Non potevano. Tanto meglio. Per loro, il caos e l’entropia erano concetti astratti, lontanissimi dalle loro esistenze, spesso già incasinate di loro. Non così per me.
L’ufficio di controllo della Renania mi intercettò appena dopo un ora dalla mia entrata nel territorio della prefettura. Giuridicamente, la Renania dipendeva dalla Prefettura di Branusia.
L’ufficiale che mi interrogò fu pedante, e presto fui messo in cella. Carcerazione dovuta alla mancanza di documenti di transito. L’ufficiale sostituivo era una donna, bionda, occhi marroni, carnagione bianca. Quarant’anni, fisico asciutto. Abiti formali.
-Leana Nisia Brisgau.-, disse presentandosi. Replicai col mio nome.
-Birsgau è un nome barbaro.-, notai io. Lei annuÌ, con fierezza.
-Sei generazioni di Brisgau hanno servito l’Impero e la Confederazione.-, disse.
-Onorevole.-, dissi. Notai un dettaglio. Un ciondolo. Con un simbolo. Lo stesso sullo Shaken che mi aveva dato Ghanima. Lei notò il mio sguardo.
-Intende continuare a guardarmi il seno o vuole spiegarmi cosa ci fa qui?-, chiese, irritata
-Ciò che faccio è correlato al simbolo che porta al collo.-, dissi io. Feci un cenno appena, in direzione del registratore audio. Lei annuì. Lo spense.
-Ghanima Buenariva.-, dissi, -Lei la conosce.-. Non era una domanda.
-Mi aiutò in un momento critico.-, ammise Leana.
-Allora spero lei possa aiutare me, e Ghanima.-, dissi.
-Mi dica tutto.-, sibilò la donna, attentissima.
Spiegai tutto, cenno per cenno. Lei annuì. Fece poche domande. Non le nascosi nulla.
Al termine del nostro colloquio, Leana Brisgau annuì appena.
-Le accuse sono molto gravi. Orosio Malparo Dumio è un cittadino estremamente ricco, estremamente ben inserito.-, ponderò.
-Quindi non può fare nulla?-, chiesi.
-Non servirebbe a nulla.-, ammise lei. Bloccò le mie proteste con un cenno.
-Incarcerarlo porterebbe solo a un ritardo nei suoi affari, e a una ritorsione su di me e sui miei colleghi. Ma d’altro canto…-, Brisgau sorrise, un ghigno feroce, mentre estraeva una mano.
C’era la chiave delle mie manette, in quella mano, -È anche vero che gli incidenti capitano.-.
-Mi servirà un documento.-, dissi, -Uno non riconducibile a me. Non posso rischiare che Orosio fugga. Non ora che posso chiudere il cerchio.-.
Tre ore dopo, ero libero, con un documento a nome di Marcellus Psinio Lautario.
Procurarsi un’arma non è difficile: basta sapere a chi chiedere. Il fratello maggiore di Guissano, Airanio lavorava come auxilia di sicurezza e fu più che lieto di procurarmela, dopo che ebbi avuto modo di spiegargli chi fosse stato il mandante dell’uccisione di suo fratello e di molti altri.
Orosio Malparo Dumio abitava in una domus non indifferente. Introdurmici avrebbe richiesto lasciapassare e permessi. Ma anche qui, Airanio e Leana Brisgau mi aiutarono.
Fu facile per loro tramortire uno dei membri della sorveglianza e spogliarlo. La guardia portava le mie misure. Leana disattivò gli allarmi e Guissano sabotò eventuali vie di fuga.
Io entrai. La villa era il non plus ultra del lusso, gli interni realizzati in marmi policroni, impianti audiovisivi di ultima generazione e ovviamente, ambienti spaziosi.
Ci misi qualche minuto a trovare la camera di Orosio Malparo Dumio.
Dormiva da solo. Sua moglie non era in casa. Tanto meglio.
Entrai, lentamente, pistola in pugno. Arma affidabile, con un soppressore di suoni, proiettili solidi con punte al tungsteno.
Orosio dormiva profondamente. Battei appena il piede destro sul pavimento. Si agitò.
Battei di nuovo. Stavolta sbatté gli occhi. Il visore notturno che indossavo mi permetteva di vedere la sua espressione stupita, spaventata, oltraggiata.
-Lei chi è? Sicurezza!-, urlò.
-Non ti sentiranno.-, dissi io, -E riguardo a chi sono…-, accesi le luce, tolsi il visore che mi faceva sembrare più simile a un insetto antropomorfo che non a un uomo.
-Nessun’idea?-, chiesi. Orosio, gli occhi che incominciavano ad abituarsi alla levataccia, scosse il capo. Era confuso. E cominciava a rendersi conto della situazione.
-Immaginavo. Il nome Ollianus ti dice niente? E Leatus?-, chiesi.
Notai l’espressione di Orosio divenire allarmata, per poi mutare nel ritratto dell’innocenza.
-Non conosco proprio nessuno del genere!-, esclamò. Sorrisi. Estrassi l’auricolare di Leatus. Glielo buttai addosso. Si divincolò stringendolo.
-Questo ce l’aveva addosso il tuo uomo. E trasmetteva ai tuoi uffici.-, dissi.
-Cazzate!-, esclamò l’uomo. Ora la maschera dell’innocenza s’incrinava, stavolta per cedere il posto all’oltraggio.
-Davvero? Curioso che i Prefectii abbiano effettivamente intercettato alcuni messaggi.-, dissi, -Messaggi non esattamente confacenti alle tue attività.-.
-I Prefectii non mi torceranno un capello. Quanto a te… ti assicuro che ti pentirai di essere nato!-, esclamò lui. Io scossi il capo. Ci fu un rumore all’esterno. Un corpo che cadeva a terra.
Non ci badai. Fissai l’uomo che avevo davanti.
-Vedo.-, dissi, -E sono sicuro che saranno molto interessati alla tua corrispondenza privata. Uso di esplosivo militare, sottrazione indebita di materiali per le forze di sicurezza, corruzione, strage… Ti seppelliranno. E lo sai bene.-.
-Possiamo ancora metterci d’accordo. Non mi faresti tutto questo discorso se non volessi una fetta della torta. Ogni uomo ha un prezzo. Dimmi il tuo.-, propose Orosio. Ora la sua faccia era l’emblema della fiducia, -Posso fare di te un uomo ricchissimo.-.
-Non te lo puoi permettere il mio prezzo.-, risposi. Parole come lapidi.
-Non sei un Justicar.-, disse lui, ragionando ad alta voce.
Sorrisi appena. Annuii. -Ma ne conosco una. Una che, secondo me hai già incontrato.-, dissi.
-La troia… Buenariva.-, proferì Orosio. Era sudato. E non faceva caldo. Aveva paura.
-Convergenze del fato, Orosio. Forse lei sapeva. Forse sospettava soltanto. E forse, solo forse, tu hai avuto paura. Sei riuscito a evitare la condanna. Hai mandato il tuo uomo a fare il lavoro sporco. Il lavoro era semplice. Una carovana assaltata da un’orda del deserto. Che triste perdita…-, feci un gesto volutamente vago, -D’altro canto sono incerti del mestiere? Il buon vecchio Ollianus? Oh, nessuno vive in eterno.-.
Orosio strinse le labbra sino a renderle fessure rosse, linee carnose sull’incarnato bianco.
-La domanda che mi faccio è, o meglio era, perché?-, chiesi senza attendere risposta.
-Perché sterminare quella carovana? Così… l’ufficiale Brisgau, controllo immigrazione ed emigrazione, ha fatto una ricerca. Non era la prima carovana svanita.-, dissi.
-Brisgau…-, Orosio sputò il nome come fosse stato veleno.
-Ufficiale competente e zelante. Troppo zelante, però. E troppo barbara nonostante le sue sei generazioni al servizio della civiltà…-, dissi, -Eppure, non riesce a bucare la cortina. Ordini dall’alto, pare. Fino a che non arriva Ghanima Buenariva. Lei è il pericolo. E tu fai pressione. Sfrutti i Prefecti e i tuoi contatti contro di lei. La costringi ad andarsene. E lei… Sceglie di continuare a scavare. E raggiunge una carovana. Quella di Ollianus. E la mia.-.
-Maledetta…-, sussurrò appena l’uomo. Ora il sudore ruscellava. Storsi appena il naso.
-Il tuo uomo, Leatus, furbescamente non la attacca. Piuttosto si muove in modo che siano altri a farlo, ma una Justicar non è una preda facile e Leatus è costretto a fare i conti con la sconfitta del suo primo gruppo d’assalto. L’affare rischia e allora tu fornisci la roba pesante.-, continuai, implacabile, -Roba da demolizione seria. Armi antiveicolo, esplosivo da demolizione. Quel che basta per distruggere tutto. E Leatus lo fa, garantendo anche che Ollianus non possa chiamare i soccorsi. Stupendo connubio di ferocia e intelletto. Ma due variabili sfuggono all’equazione.-, dissi.
Alzai la mano sinistra, due dita levate.
-Io e Ghanima.-, dissi abbasandole una e poi l’altra.
-Leatus sapeva che un testimone oculare avrebbe potuto portare le autorità a farsi domande, figurarsi se poi il testimone è un superstite e un osservatore attento. Allora tu gli ordini di seppellirci definitamente. In fin dei conti, anche una Justicar e un operativo di sicurezza capace possono soccombere, se gli arriva addosso abbastanza gente.-.
-Quel dannato idiota…-, imprecò Orosio.
-Già, Leatus non è riuscito a chiudere il cerchio.-, dissi, -Neanche Ghanima c’è riuscita, ma sospettava, o forse, sapeva.-.
-Quella bastarda ha ucciso sei dei miei uomini! Arrestarla è stato inutile: è scappata!-, esplose l’uomo. Io sorrisi appena.
-Già. E ora, a chiudere il cerchio sono io. Te lo chiedo di nuovo, brutto bastardo: perché?-, chiesi. Orosio sospirò. Un sospiro pesantissimo.
-Sono secoli che la pace ci ha donato il progresso. Secoli che siamo qui, a osservare i selvaggi oltrefrontiera che muoiono e arrancano nella loro merda!-, esclamò.
-Pensa che noi viviamo circa tre decenni in più di loro, che la nostra media di mortalità infantile è sei volte inferiore alla loro, che presso di noi le malattie sono debellate in modo rapido e senza quasi vittime. E loro potrebbero avere tutto questo, ma non lo vogliono.-, disse.
-Quindi è questo. Volevi imporgli il progresso.-, dissi io. Orosio scosse il capo.
-Loro crepano come mosche per malattie che noi possiamo curare! E loro preferiscono cosÌ! Sono animali! Sono stupidi… sono…-, gli puntai l’arma alla testa, tacitandolo.
-Sono liberi. E hanno diritto a scegliere. Poco importa se la loro scelta non ci garba. Inoltre, non si può dire che siamo poi migliori di loro. Viviamo più a lungo, ma l’avidità e la rapacità sono rimaste anche dal nostro lato della barricata. Vedi, Orosio, io capisco la tua motivazione. Ma hai perso la bussola. Volevi provocare una guerra, una rappresaglia della Confederazione su quella gente.-.
-Si sarebbe trattato di un sacrificio minuscolo! Un dolore trascurabile al confronto con gli infiniti, enormi, benefici del nostro stile di vita!-, esclamò lui.
-E un immane esempio di ipocrisia degna del Cataclisma. La miglior dimostrazione che, dopo tutte le devastazioni, tutte le stragi e tutte le gloriose (quanto gloriose) rivoluzioni, nessuno impara mai nulla. Nessuno evolve. Nessuno lo farà mai.-, dissi.
-Tu non puoi fermare il progresso! Non puoi impedire il Mandato del Cielo!-, ragliò Orosio.
-Io da solo non posso, no. Ma non definirei progresso quello che stai cercando di portare a compimento. Lo definirei sterminio, purga. Un atto tutt’altro che umano. Indegno del cielo e di qualunque divinità. E in ogni caso, non sono il solo. I Justicarii non lo permetteranno.-, dissi.
Orosio ghignò, l’espressione porcina divertita.
-È tardi per quello. Ho agganci dappertutto e una legione di soci che ti verranno a cercare. Giudici, ufficiali del Praefectii, persino alcuni sacerdoti!-, disse, -Anche se mi uccidi, non li fermarai. E neppure i bastardi in nero potranno far nulla!-. Lo fissai. Era penoso. Sapeva di essere spalle al muro. Tremava, ma ancora voleva minacciare. Ancora pensava che io fossi come gli altri.
-Per venirmi a prendere, dovranno imparare.-, risposi. Abbassai il cane.
-Dovranno imparare ad ascoltare il Vuoto.-, dissi. Sparai. Due colpi al centro di massa.
Brisgau entrò poco dopo, insieme ad Airanio.
-Tutto registrato?-, chiese. Annuii. Il registratore miniaturizzato che avevo addosso aveva garantito che ogni singola parola di Orosio fosse stata catturata.
La purga arrivò. Leana Brisgau scatenò i Parefectii su ben tre dei soci di Orosio. Uno di loro preferì confessare, gli altri cercarono di aggrapparsi agli appigli forniti da compiacenti giudici corrotti. Peccato che Leana non fosse esattamente fiduciosa nel sistema locale.
Si rivolse al centro amministrativo della Confederatio e l’intera Renania vide un rovesciamento politico di tale spessore da divenire noto come la Decapitazione.
Su sei giudici, quattro furono indagati, processati, trovati colpevoli e rimossi d’ufficio con pene detentive dai venti ai trent’anni di carcere duro, senza appello né condizionale. Per i membri dei Praefectii coinvolti, l’ondata di arresti e sospensioni falciò gli stati maggiori, il Consul Praefectorum, la carica più alta dei Praefectii, di Renania fu indagato e così anche i suoi diretti sottoposti. In molti finirono con l’accettare di patteggiare, confessando per ottenere sconti di pena.
Alla fine della Decapitazione, nel tempo di appena una settimana, il Consul, quattro giudici, dieci sacerdoti e una serie di altri personaggi coinvolti nella congiura, furono condannati per concorso in strage, cospirazione e alto tradimento nei confronti dei principi fondanti della Confederatio.
L’ondata di cambiamenti a livello politico fu l’equivalente di un terremoto di magnitudo 9: una devastazione che portò alla sostituzione di numerose cariche pubbliche e al crollo dell’azienda di armamenti locale. Le ripercussioni sarebbero andate avanti per mesi, forse anni. Non rimasi a guardare il resto: non mi riguardava. Avevo un posto a cui fare ritorno. Un luogo lontano dalle mappe. Lasciai a Brisgau il compito di concludere la faccenda. Leana, promossa ad interim come Consul Praefectorum provvisorio, non avrebbe mancato al suo compito. Io chiesi solo un’ultima cosa. Un volo verso e oltre il confine.
-Come sarebbe a dire, “se n’è andata.”?-, chiesi sforzandomi di mantenere un tono pacato.
-Esattamente questo. Se n’è andata. Esattamente tre giorni dopo che sei partito.-, Ludoldus mi fronteggiava con sguardo calmo, seduto su una delle sedie del suo magro dispensario.
Sospirai. Non volevo crederci: Ghanima mi aveva abbandonato? Aveva scelto la solitudine?
O non era mai stata veramente mia e mi aveva manovrato? La domanda mi sfiorò. Mi sforzai di non cedere al dubbio, alla paura. Di pensare.
-Non… ha lasciato detto nulla?-, chiesi. Ludoldus scosse il capo.
-Mi spiace.-, disse soltanto, -Ha lasciato… questa.- Mi diede qualcosa. Un sasso. Una roccia.
“Illuminante…”, pensai al culmine della tristezza. Poi la fissai. Non era una roccia comune.
Era levigata. Liscia, come presa dal greto di un fiume. E non c’erano fiumi nei dintorni.
Ma c’era stato almeno un lago.
“Ho capito!”, esultai. Sorrisi come un idiota. Ludoldus mi sorrise a sua volta.
-Nabir può venderti una cavalcatura se ti va.-, disse, intuendo i miei pensieri.
Nabir fu meno avido di quanto avevo temuto e, in capo a pochi minuti, ebbi la mia cavalcatura, un cavallo basso tipico di quei territori. Lo spronai sino a raggiungere i colli, i resti del convoglio. Notai delle tombe. Scavate di fresco. C’erano armi infisse come mementi su alcune e molte altre erano segnate da bandante o stracci presi da vesti. Laceri e bruciati. Erano poco più che buche nel deserto, ma erano una misura di rispetto.
Mi avvicinai alla fenditura da cui ero entrato. Ascoltai. Il sibilo del vento risuonò tra le rocce.
Quasi un invito. Entrai. Con calma.
Arrivai alla caverna principale, quella sorta di pozza secca. C’erano tessuti, sulla roccia e torce alle pareti. Come se qualcuno ci avesse dormito, o si preparasse a farlo.
D’improvviso, lo sentii. Una percezione istintiva, senza interferenze da parte del lobo frontale.
Non ero solo là sotto. E non ero neppure spaventato, ma ne accorsi subito dopo. Sorrisi.
Sorrisi perché solo una persona poteva essere così silenziosa, così furtiva.
-Ho chiuso il cerchio.-, dissi senza voltarmi a guardare, -Era ciò che andava fatto.-.
Silenzio. Passi? Forse. Espirai appena. Soppressi il desiderio di girarmi.
-Tu hai provato, ma erano troppo in alto, troppo ammanicati. Non erano un potere nello Stato, erano un potere dello Stato, un’appendice marcescente. E sapevi che per fermarli, avresti dato inizio a una guerra. Una che i Justicarii non avrebbero vinto.-, continuai. Silenzio. Ancora.
-Mi hai lasciato lo Shaken, le tracce. Mi hai dato tutti gli strumenti per chiudere il cerchio, hai chiarito ogni dubbio. E ora… Ora una sola domanda mi rimane.-, dissi.
-So bene qual è.-, la voce di Ghanima Buenariva era roca, vibrante di un emozione che pareva primeva e impellente. Risvegliò con quelle mere parole il mio desiderio. E il mio timore.
Mi girai. Era lì, in piedi, dietro di me, avvolta dalla cappa. Solo i piedi erano nudi.
Ecco perché non avevo sentito nulla. La fissai. Era quello il momento del tutto per tutto.
-Ollianus è morto. Sono morti tutti. La Renania è un enorme rogo politico che brucerà ancora per molto. E io… sono stato l’incendiario. Qualcuno capirà. Qualcuno vorrà vendicarsi.-, dissi.
Ghanima ascoltò. Paziente, immobile.
-Ho perso i miei amici, e il mio capo. Il mio lavoro e le mie certezze. Tutte.-, dissi.
-Sì.-, una sillaba. Impietosa, tagliente. Un assenso doloroso.
-Ho perso tutto. Tranne la speranza di non essere solo.-. conclusi.
Ero vulnerabile come non mai in quel momento, e lo sapevo. Se lei si fosse tirata indietro, anche la mia ultima speranza si sarebbe frantumata. E a quel punto, tutto ciò che sarebbe rimasto di me sarebbe stato un involucro vuoto.
-Siamo tutti soli. Nasciamo soli. Moriamo soli.-, disse lei. La voce era calma. Non staccò gli occhi dai miei. Feci per parlare, mi fermai. Capii che non aveva finito. Non ancora.
-Ma la vita non è solo solitudine. Ci sono legami. Quelli che uniscono.-, disse. Mosse un passo, lieve, verso di me. Sentii il cuore battere forte. La cappa nera ondeggiò.
-Forgiati nel fuoco.-, dissi, quasi un sussurro.
-Forgiati nella scelta.-, aggiunse la nera, -La tua dice chi sei. La mia è semplice.-.
La cappa nera si aprì quando un suo braccio emerse per accarezzarmi il viso. E io vidi.
Sotto la cappa, c’era solo il nero, l’altro nero, della pelle di Ghanima. L’incarnato color ebano scolpito da incalcolabili sessioni di esercizio, modellato da una vita in corsa, i seni piccoli ma fieri, il pube depilato. Era nuda, sotto la cappa. Lo era per me.
-Ti voglio.-, disse Secca, diretta. La desideravo a mia volta. Il mio cuore stava battendo a un ritmo tale che avrei potuto temere un infarto. Sorrisi, congelato in un espressione di assoluta gioia. Mi avvicinai a mia volta. Le sue mani presero a sciogliere nodi, a togliere vestiti, si sfilò la cappa poco dopo aver finito di denudarmi.
Quando fummo nudi, ci guardammo, per un lungo istante.
-Dicono che amare una Justicar ti porti a perdere tutto…-, sussurrai.
-Dicono…-, momorò la nera. Il mio sesso era a contatto col suo ventre, sfiorava la sua pelle calda, un calore che aizzava il mio desiderio di lei.
-A me ha permesso di trovare te.-, mormorai. Ghanima sorrise, il bianco dei denti sull’incarnato scuro. Mi accarezzò il viso scendendo lungo il collo, fermando la mano all’altezza dello sterno.
-Sai, un tempo le donne della mia famiglia erano ritenute incapaci di amare.-, disse. Annuii.
-Io non ho mai amato nessuno. Non sono sicura di saperlo fare.-, mormorò fissandomi.
Si aspettava un giudizio? Improvvisamente mi accorsi che forse, quella era la sua vulnerabilità.
-Mi stai donando questo istante, Ghanima…-, mormorai avvicinandomi a lei sino a baciarla. Mi staccai dopo un breve, casto bacio, -Questo è amore. I poeti lo ammantano di mille parole, ma non servono. La verità è questa, e penso che le Amazzoni del Kelreas lo sapessero.-.
La nera non rispose, non con le parole. La sua mano mi accarezzò il collo, il petto, scivolò sull’addome, scese verso il pube e ghermì il mio sesso. Mosse appena le dita lungo il membro, sfiorandolo appena. Mi sentii un idiota a starmene imbambolato. Scesi con la mano lungo il collo, sino ad accarezzare la schiena della guerriera d’ebano, per poi scendere sulle reni e posare la mano su un gluteo sodo e liscio. La avvicinai a me per baciarla nuovamente. Con l’altra mano, scivolai sul suo seno. Mi strinse il sesso in risposta.
Baciai il collo di lei, il seno. I capezzoli scuri e inturgiditi parevano punte di matita.
Mi chinai a baciarli, leccando delicatamente sino a strapparle un gemito.
Mi strinse a sé mentre continuavo, leccando piano i seni. La sua mano sul mio sesso lo manipolò piano, Mi fermai un attimo per baciarla di nuovo. La sua lingua cercò la mia. La sua mano aumentò appena il ritmo, la mia mano le strinse le natiche mentre l’altra cercava i suoi seni e poi, lenta scendeva sull’addome definito e poi sul pube glabro.
Risalii lungo la schiena con la mano lasciandole il sedere mentre il nostro bacio continuava. Sentii la sua mano indugiare tra le mie gambe, carezzare, sondare.
La mia mano sul suo pube scese, piano. Non volevo essere affrettato o violento, ma la situazione cominciava ad essere insostenibile: ero eccitato e sapevo che avrei potuto perdere il controllo ed era l’ultima cosa che volevo accadesse. Piano, accarezzai la sua intimità, coprendola con la mano per poi scivolare lungo le cosce, destra e sinistra.
Ghanima gemette piano. Mi baciò di nuovo, scese a baciarmi il collo. Sfiorai il clitoride un po’ di volte, senza mai soffermarmici troppo. La sentii gemere, ansimare.
Lentamente, con un dito sondai la vulva. Le grandi labbra erano schiuse, si aprivano al mio passaggio. Ghanima mi voleva, mi aspettava.
Improvvisamente, una sua mano mi spinse sulla spalla. Sorrisi, complice, e scesi a inginocchiarmi tra le sue cosce. Presi a leccare la sua intimità mentre lei, in piedi, addossata a una parete della caverna, gemeva piano, spingendomi la testa contro il ventre come per portarmi a leccare meglio. Infine la sentii irrigidirsi e emettere un gemito modulato, lungo.
Dalla mia personale e umile esperienza, potei ipotizzare fosse un orgasmo.
Non avrei resistito a lungo sentendola godere così: la volevo e mi alzai appena lei me lo concesse. Sorrise.
-Tu sai come far sentire speciale una donna.-, disse. Io sorrisi. Lei mi prese il sesso. Mi portò al centro della sala. Mi baciò lasciando che scivolassimo piano a terra. Si mise sopra di me, stringendomi il pene con due dita. Lo indirizzò all’imbocco della vagina. La carne rosea dell’interno faceva capolino, abbondantemente lubrificata e pronta ad accogliermi.
Senza una parola, Ghanima s’impalò. Affondai in lei, fu come avvondare in un barattolo di miele rovente. Prese a cavalcarmi, lasciando che la gravità le permettesse di farmi scivolare dentro il suo alveo pulsante sino in fondo. Mi baciò ancora.
-Ghanima…-, iniziai. Non sapevo se avrei potuto resistere ancora a lungo.
-Dammi tutto. Diventa mio. Fammi tua.-, sibilò lei a denti stretti, come una fiera.
Continuammo. Lei continuò finché sentii il mio sesso pulsare, pronto a rilasciare il suo carico di seme nel ventre della nera. E infine, proprio mentre ero al limite, Ghanima mi fece affondare sino in fondo in lei. Fu troppo: rilasciai il mio seme nel suo più intimo pertugio in tre scariche. Sentii il sesso della nera contrarsi sul mio, avvolgermi mentre raggiungeva il piacare con me. Dopo, languimmo una sull’altro, per lunghi minuti.
-È fine?-, chiesi. Lei scosse il capo.
-È l’inizio.-, corresse, -Avrò una figlia da te. Noi non mettiamo mai al mondo maschi, la nostra discendenza è sempre femminile, non saprei dirti perché. E da ora, tu e io viaggeremo insieme. Per parecchio.-. Suonava come un buon piano.
-Mi addestrerai.-, dissi.
-Non ti serve molto altro. Solo alcune lezioni. Quando sarai pronto però ci separeremo. E tu non dovrai mai più cercarmi.-, ribatté lei. La fissai. In quel momento era l’idea più improbabile che potessi concepire.
-Perché?-, chiesi, -Non… stai bene con me?-.
-Sto meravigliosamente con te, Alexander. Ed è questo il punto: stare bene è un lusso. Quel che è successo qui succederà ancora. In altri luoghi e altri tempi, ma c’indebolirebbe se divenisse consuetudine. Non lo voglio e fidati, neanche tu. Un Justicar deve apprendere l’arte di sopportare la solitudine.-.
-Quanto tempo?-, chiesi.
-Dieci anni.-, rispose lei, -Che non trascorreremo sempre insieme. I prossimi cinque mesi comunque non prevedo di sparire.-.
Annuii. Avevo solo lei. Per ora. Perché mi accorsi che in realtà mi stava venendo concesso molto altro. Essere un Justicar. Le sorrisi.
-Allora spero tu abbia voglia di rifarlo. Dobbiamo assicurarci la discendenza, no?-, chiesi accarezzandole il viso. Lei mi baciò.
Mamma mia ruben, mamma mia... Ti prego, scrivimi a gioiliad1985[at]gmail.com , mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze…
ciao ruben, mi puoi scrivere a gioiliad1985[at]gmail.com ? mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze...
Davvero incredibilmente eccitante, avrei qualche domanda da farvi..se vi andasse mi trovate a questa email grossgiulio@yahoo.com
certoo, contattami qui Asiadu01er@gmail.com
le tue storie mi eccitano tantissimo ma avrei una curiosità che vorrei chiederti in privato: è possibile scriverti via mail?