I giorni seguenti furono un equilibrio instabile tra la realtà e qualcosa che non riusciva a nominare.
Non disse nulla a nessuno.
Nemmeno a sé stessa, quando si guardava allo specchio e non riconosceva l’espressione che le si disegnava sul volto.
Cominciò a notare dettagli che prima le sfuggivano.
Le sue mani mentre lavava i piatti: belle, curate, troppo leggere su quel vetro.
Il modo in cui si toccava i capelli mentre si specchiava: non era vanità, era premeditazione.
Il corpo, che sembrava risvegliarsi sotto la pelle, come se sapesse.
Come se si stesse preparando.
Una sera entrò in bagno, si spogliò, si guardò a lungo.
Vide ogni curva, ogni porzione di pelle.
Si osservò come si osserva un oggetto che sta per essere consegnato.
Era il suo corpo.
Ma non più suo.
Lo stava offrendo.
Lo stava mettendo in vendita.
E il pensiero non la disgustava.
La eccitava.
Il giovedì Marco le disse che sarebbe stato fuori per lavoro tutto il weekend.
Una fiera in Puglia, tre giorni, niente di nuovo.
Lei fece finta di dispiacersi.
Poi annuì.
“Stai tranquillo, ci penso io.”
Il venerdì telefonò a sua madre.
Le chiese se poteva tenere i bambini per il weekend.
Disse che aveva bisogno di riposo, che voleva prendersi due giorni da sola.
“Ma certo, amore. Ti farà bene.”
Nessuna domanda.
Solo sollievo.
Anche sua madre la credeva invincibile.
Il sabato mattina si svegliò con il cuore gonfio.
Non era ansia.
Non era paura.
Era qualcosa che non aveva mai sentito prima.
Un’attesa che somigliava alla fame.
Fece colazione coi bambini, li vestì, li accompagnò a casa della nonna.
Li baciò uno a uno, come sempre.
Ma dentro sentiva che stava dicendo addio.
Non per sempre.
Ma a quel sé stesso che aveva recitato per anni.
Tornò a casa, chiuse la porta.
Silenzio.
Andò in camera, aprì l’armadio.
Scelse abiti comodi, anonimi: pantaloni morbidi, maglietta senza marchi.
Si guardò allo specchio.
Sembrava una turista.
O una donna in fuga.
Prese il telefono.
Lo spense.
Lo infilò in un cassetto.
Poi si sedette sul letto.
E aspettò.
Alle 17:15 salì in macchina.
Il sole calava lento.
Le strade erano vuote.
Uscì dal paese senza guardarsi indietro.
Stava andando incontro a qualcosa che non conosceva, non capiva, eppure voleva.
Con tutta sé stessa.
Con tutto il corpo.
Con tutta la fame che si era tenuta dentro per anni.
Alle 17:59 era lì.
Fermò la macchina davanti a un cancello in ferro battuto, alto, chiuso.
Dietro, una strada di ghiaia portava verso l’interno.
Campagna intorno.
Silenzio.
Spense il motore.
Scese.
Il vento le spostò i capelli sul viso.
Li sistemò con un gesto istintivo.
Aveva le mani fredde.
Un secondo dopo, il cancello si aprì.
Una macchina nera avanzò lentamente verso di lei.
I vetri oscurati.
Nessun rumore.
Anna non si mosse.
Non parlò.
Non cercò di capire.



Ho letto il tuo raccondo e nn ho resisitito ma mi sono unito all'orgia prima della fine :P sul discorso…
Ciao, questo racconto in questi due capitoli e' gia' una promessa ...sara' bellissimo perche' lo e' gia' quindi mi aspetto…
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