L’aperitivo con Giulio e Roberta fu divertente e spensierato nonostante io e Nami continuassimo a cercare l’una lo sguardo sfuggente dell’altra, tant’è che i nostri amici ci chiesero più di una volta se qualcosa non andasse tra noi. Bevemmo un paio di birre a testa e ci affrettammo verso il parco poco lontano, dove già la band aveva terminato il sound check; mancammo di poco i vari “Sà, sà, sà, prova, prova!”
Quando la luce del sole fu quasi del tutto svanita dal cielo, le prime note di una delle canzoni più famose ci invogliarono a interrompere la nostra staticità a favore di piccoli e ritmati movimenti. La band si esibì per un po’, poi approfittammo dell’inizio della pausa per correre a regalarci un’altra birra prima che il bar fosse circondato dalla folla. Iniziammo a berla quando Giulio, dispiaciuto, ci informò che a causa di un imprevisto doveva assolutamente andare via. Invano tentò di convincere la sua amata a restare con me e Nami; lei decise di andare via con lui, lasciandoci da sole in una marea di sconosciuti. Li salutammo proprio nel momento in cui gli artisti ricominciarono il concerto e ci sbrigammo a terminare le bevande; giusto in tempo perché poco dopo una delle nostre canzoni preferite s’amplificò per il parco.
Decidemmo di buttarci nella mischia e iniziammo a ballare, scatenandoci in un baccanale di movimenti poco coordinati e stonati tentativi di imitare la bravissima cantante. Presto la folla cominciò a pogare, a saltare, a muoversi freneticamente. Sembrava quasi di trovarsi all’interno della caverna di Zion dove tante persone, sedotte dal ritmo e dall’incertezza del domani, avevano deciso di godersi quell’ultima notte di passione e frenesia.
La danza aumentò d’intensità con l’incedere delle note; gocce salate di sudore mi schizzarono via dai capelli e dal corpo che s’agitava e piroettava al ritmo della musica, riempiendo l’aria circostante di feromoni. Chiusi gli occhi, strinsi forte le palpebre al punto che numerose macchioline bianche si mescolarono nel mio campo visivo e, con tutta me stessa, diedi voce al mio cuore strillando il ritornello della canzone e battendo forsennatamente i piedi per terra. Mi piegai per lo sforzo, liberai l’anima dall’ansia e dalla preoccupazione che avevo accumulato nei giorni passati, quasi scorticandomi la gola nell’intensità del grido. Sentii la morsa liquefarsi nel mio stomaco, aprii gli occhi e vidi che anche Nami, lì di fronte, si stava scatenando urlando disperatamente come me. Il ritmo sostenuto della canzone ci aveva reso dimentiche di qualsiasi cosa all’infuori del controllo delle membra e del testo del brano che stavamo ascoltando. I nostri sguardi s’incrociarono più e più volte, sorridemmo entrambe; lei portò una mano all’orecchio per domare una ciocca fastidiosa e io, tracotante di lussuria, decisi di farmi avanti. Mi avvicinai a mia sorella, le afferrai la mano e nell’esaltazione del momento iniziai a ballare con lei. I nostri corpi si avvicinavano e si allontanavano ritmicamente nella danza convulsa, ancora e ancora e ancora, mentre altre persone ballavano intorno a noi e riempivano l’atmosfera dell’odore acre, caldo ed eccitante dello sforzo fisico; per quanto ce ne interessasse però, potevano benissimo non essere lì. C’eravamo solo io e lei sotto i riflettori in quel rituale druidico. Il tamburo aveva sincronizzato i nostri cuori che battevano ormai come una cosa sola; tali erano divenute anche le nostre menti, connesse e alimentate, ora più che mai, da un desiderio comune, da un circolare uroboro rosso che inizia dove l’altro capo incontra la sua fine.
L’abbracciai stretta, percepii la sua pelle contro la mia, l’odore del suo profumo misto a quello del sudore e dell’erba tagliata di fresco sotto i nostri piedi. Le annusai istintivamente i capelli. Quando mi sciolsi dal suo abbraccio, non potei fare a meno di notare quanto intensamente mi stesse fissando.
Il tempo cessò istantaneamente di esistere.
La musica non scorreva più tra noi.
La folla era svanita.
Solo quegli intensi occhi neri coronati da lunghe ciglia, ora, mi si stagliavano di fronte. Mi strinsi a lei poggiandole una mano sul fianco e dolcemente Nami guidò le sue dita sulla mia guancia accaldata dalla folle danza, guardando timidamente in basso, all’altezza della mia scollatura. Le sue labbra carnose anelavano il contatto e decisi di assecondare quella bramosia.
Per due volte le sfiorai la punta del naso col mio; non rifiutò l’intimità, anzi, mi fece capire che ambiva ad altro. Le mie labbra si apersero leggermente imitando la magnificenza di un bocciolo che svela al mondo la sua anima. Un piccolo sorriso m’increspò appena la guancia e la timida fossetta, padrona del lato destro della mia identità, fece capolino. Ridussi ulteriormente la distanza che ci separava, i nostri sussurri ormai divisi solamente da un sottile velo d’aria. Potevo percepire il suo fiato su di me, pasta dentifricia e birra si erano amalgamati in un unico, intenso aroma. Chiusi gli occhi, impaziente di ghermire quel contatto fisico che per troppo tempo s’era limitato ad abitare i miei sogni più sfrenati.
D’improvviso persi l’equilibrio e mi ritrovai per terra: un ragazzo poco incline al rispetto degli spazi altrui e parecchio ubriaco ci aveva urtate facendomi ruzzolare carponi. Non seppi dire se al momento fossi più adirata per la spinta o per la magia che il reo aveva interrotto, ma mi alzai dignitosamente, presi per mano il signor Imbarazzo (che nuovamente era tornato tra noi) e facendo finta di nulla ricominciai a ballare a distanza di sicurezza da Nami, mentre le parole di quella che sarebbe stata l’ultima canzone della serata s’andavano spegnendo.
“Stand my ground
I won’t give in,
I won’t give up,
No more denying,
I’ve gotta face it.
Won’t close my eyes and hide the truth inside.
If I don’t make it, someone else will,
Stand my ground.” *
Il concerto terminò poco dopo la mezzanotte. Io e mia sorella camminammo per un po’ a braccetto, ancora ebbre di musica e di quanto avevamo sfiorato, ondeggiando come le “oche che non erano tortore” del famoso cartone animato e cantando a squarciagola, anche noi poco rispettose del sonno altrui, i vari ritornelli che avevamo ascoltato durante la serata. Raggiungemmo la fermata del bus notturno che ci avrebbe accompagnate a casa – un capannello di persone lì davanti ci fece capire che non era ancora passato – e chiacchierammo per un po’ con un amico appena riconosciuto.
Rientrate nel nostro amorevole nido domestico, Nami affermò di avere assolutamente bisogno di lavarsi, nonostante l’ora tarda. Prese l’accappatoio e si chiuse in bagno, mentre io in camera cercavo la playlist contenente le canzoni che avevamo ascoltato fino a poco tempo prima. Abbassai il volume a un livello appena udibile per non disturbare i vicini, rimossi le scarpe e mi buttai di peso sul letto, ancora vestita, ripensando a tutte le sensazioni che avevo vissuto durante quell’incredibile giornata.
Ebbi la tentazione di cedere ai bisogni del mio corpo, la morbida carne lì sotto già da un po’ stava comunicandomi la sua smania, ma resistetti. Nami mi raggiunse qualche minuto dopo, vestita di nient’altro che un abbondante e sformato asciugamano bianco. I suoi capelli ancora umidi m’inebriarono di un intenso e meraviglioso odore di shampoo.
«Ho dimenticato di nuovo le ciabatte», affermò sorridendo.
Si mise semi seduta, distese le gambe sul materasso e, vedendola stanca, le domandai se avesse bisogno d’aiuto. Timidamente annuì.
Presi un asciugamano dalla cassettiera, – assecondare le mie voglie e tergerla con il mio corpo sarebbe stato impossibile – mi sedetti sul suo letto e le avvolsi il piede con il telo. Ne frizionai lentamente il dorso, prima di dedicarmi alla pianta. Il mio pollice iniziò inconsciamente ad accarezzarle l’arco mentre l’altra mano, ancora ligia al dovere, tamponava il soffice cotone sulla calda pelle arrossata. Le lunghe e sottili dita erano la mia prossima meta. Ad una ad una le asciugai delicatamente, stando ben attenta a ricalcarne i contorni: l’alluce, il lungo illice, poi le successive.
Mi ringraziò canzonatoria per la solerzia, specificando che come domestica avrei sicuramente avuto un futuro. La ignorai e continuai nella mia opera. Le asciugai la caviglia, il polpaccio, la tibia e il ginocchio, sentendo la mia temperatura interiore continuare a innalzarsi; le mutandine già da tempo chiedevano pietà.
Decisi di dedicare anche all’altra estremità di mia sorella lo stesso trattamento ricevuto dalla prima. Avvolsi il telo sul piede ancora umido e ne massaggiai le forme, premendo il pollice sulla pianta e poi sull’incavo delle dita. Nami si umettò le labbra in un riflesso incontrollato, chiuse gli occhi e si lasciò scappare un breve mugugno. Si portò una mano al petto e s’accarezzò prima il collo e poi la conca, madida di sudore, che questo forma con le clavicole. Abbandonai l’inutile asciugamano per terra e ripresi a massaggiarle la liscia pelle del piede. Titillai un paio di volte i suoi polpastrelli, immisi dolcemente le dita nell’incavo e poi percorsi con l’indice la linea che dall’antro delle cinque compagne corre giù fino al tallone; le dipinsi sulla pianta cerchi e spirali e sagome senza consistenza, premendo infine con forza entrambi i pollici per donarle un po’ della mia energia. Strinse e spalancò le dita del piede, decisamente grata per quella mia sfrontatezza; uno spasmo involontario le galoppò lungo tutta la gamba. Nami aprì gli occhi e, con mia grande sorpresa, schiuse leggermente le gambe. Il bianco telo che indossava aveva un po’ abbassato la guardia mettendo in mostra il pallido seno sinistro, dall’origine fino alla dolce e seducente forma sferica della sua fine. L’introverso capezzolo fece capolino dalla sua mano ma decise alfine di servirsi della protezione di indice e medio per restare seminascosto nella penombra creata dall’abat-jour. Sublimata da quella visione e ormai preda di un crescendo di emozioni, con dita frementi e impazienti disegnai lentamente le linee dei tendini sul dorso del piede e la curva della caviglia. Le lisciai il malleolo e, ricalcando con le dita il contorno del tatuaggio, risalii lungo la margherita a fil d’indice, facendole venire la pelle d’oca. Fui colta da un impeto irresistibile e decisi di offrirle un piccolo dono là dove il metatarso incontra la falange dell’alluce: le mie labbra.
Lei mi fissò, fui incapace di interpretare la sua espressione.
Decisi di frantumare ogni indugio: alea iacta est.
Avanzai carponi sul materasso verso di lei, desiderosa di coglierla di sorpresa, e le regalai un bacio a stampo sulle labbra. Durò un secondo; mi staccai subito, curiosa di conoscere la sua reazione. Mi fissò per un po’, il suo personale Caronte stava sicuramente traghettando chissà quali e quanti pensieri dalla mente al cuore. Si sporse su di me e ricambiò il mio con un altro timido e casto bacio sulle labbra.
Questa volta fui io a essere presa alla sprovvista. M’ero aspettata qualsiasi reazione. Stupore certamente, forse diffidenza, probabilmente riluttanza. Mai avrei immaginato che lei, la mia dolce Lesbia a cui chiederne mille, cento e altri mille ancora, potesse invitarmi ad assaporare le sue labbra. Il batticuore incalzò quando Nami mi poggiò dolcemente una mano sul viso e dischiuse la bocca al contatto con la mia: la carne toccò altra carne, i nervi barattarono colori e sensazioni e le mucose s’irrorarono dell’ardore del nostro bacio. Giorni di tormenti si sciolsero in quell’unione inaspettata di bocche e anime, mentre le nostre lingue si esibivano in un’articolata coreografia che nulla poteva invidiare a quelle degli uccelli in cielo: s’incontrarono, si divisero, si cercarono e nuovamente s’avvicinarono, sempre più ansiose di conoscersi nel profondo. La mia destra le cinse la nuca mentre l’altra mano, acquisita una certa indipendenza dalla mia volontà, decise di curiosare lungo il corpo di mia sorella con l’intento di cercar conforto nella sua; ne accarezzò silenziosamente il collo, la spalla e poi il braccio. I bastioni infine raddoppiarono e divennero dieci, s’incrociarono e si fusero tra loro, stringendosi vicendevolmente. La difesa dell’asciugamano crollò di colpo mettendole in mostra il seno, ma non ebbi il coraggio di aprire gli occhi per guardare; troppo potente era il timore che stessi vivendo un sogno, lungi da me volerlo interrompere. Percepii le dita di mia sorella, audaci bersaglieri alla ricerca di una breccia in cui intrufolarsi, percorrermi la schiena. S’infilarono leste al di sotto della maglietta, facendomi inarcare in uno spasmo involontario, e mi carezzarono la spina dorsale, verso la nuca e puntando al bacino, su e giù e di nuovo settentrione e meridione, alba e tramonto; si accomodarono infine all’altezza del coccige, indecise se proseguire la loro corsa verso la notte.
Come tutto era iniziato, purtroppo altrettanto rapidamente finì in quell’istante. Nami si staccò inaspettatamente dal mio viso; gli occhi velati da un accenno di pianto lasciavano presagire tutti i dubbi etici e morali che l’avevano cinta d’assedio. Si profuse in continue scuse, la voce tremante, e corse in soggiorno chiudendo la porta di camera dietro di sé.
Assistetti attonita alla sua fuga, ogni forza rifuggita dal mio corpo stanco; la sentii, impotente, singhiozzare dall’altra parte della parete.
Fui per un istante divisa tra il volerle correre incontro per abbracciarla e rassicurarla, per dirle che non era successo nulla di grave, e il restare dov’ero per concederle un po’ di spazio. Preferii la seconda alla prima e, abbracciatami il cuscino che ancora profumava dei suoi capelli, chiusi la coscienza al Mondo e domandai asilo al Regno dei sogni.
— continua
* “Stand my ground”, Within Temptation.
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