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Agosto non cominciò sotto i migliori auspici.

Finita la colazione, con gli occhi ancora gonfi e arrossati a causa della notte insonne, Nami mi comunicò la sua decisione: sarebbe tornata a vivere per un po’ da mamma e papà, adducendo come giustificazione una sciocca lite; se per un giorno, una settimana o un mese, non avrebbe saputo dirlo. Cominciò a preparare il borsone mentre io, altrettanto tacitamente, m’apprestavo a lavar via dalla pelle il sudore della sera prima, lasciando all’acqua fresca il compito di corroborare i miei muscoli tesi e donare nuova forza a membra svigorite. Le concessi un po’ di tempo da sola, conscia che fosse ciò che desiderava, e m’accorsi della sua assenza solo quando finii la doccia e il silenzio fece eco al mio appello.

«Nami?»

Nessuna risposta. Mi guardai intorno, l’unico suono era il lento stillicidio dell’acqua che dai capelli bagnati colava sul pavimento. Un bigliettino riposava sul tavolo, illuminato di sghimbescio da un fendente di luce solare. La calligrafia di mia sorella ribadiva una sola cosa: “Scusa!”.

Piansi. Mi arrabbiai, gridai, sfogai contro i cuscini una bizzarra imitazione dell’ira del Pelide e piansi di nuovo, permettendo a emozioni ingarbugliate di prorompere fuori dal mio stomaco.

Per più di metà settimana continuai a scriverle su WhatsApp, nella speranza che potessimo chiarire quant’era successo, ma le sue risposte si limitarono a monosillabi e cortesia finché, stufa di questo comportamento, smisi di contattarla. Colsi invece l’invito di un amico e mi organizzai per andare a trovarlo. Volevo allontanarmi anch’io da quella casa; cambiare aria per qualche giorno mi sarebbe stato d’aiuto.

Arrivai a Firenze all’ora di pranzo di un venerdì torrido e assolato. Luca mi stava già aspettando alla stazione, fu facile individuarlo: con il suo metro e novanta di altezza (più un tappo di bottiglia, com’era solito dire) spiccava tra la folla come un papavero in mezzo alle margherite. Camminammo per un po’, ci fermammo a mangiare in una trattoria di sua conoscenza e, dopo una passeggiata digestiva, ci dirigemmo al suo appartamento. Anche lui come noi, studente squattrinato, non poteva godere dei servigi che un condizionatore poteva offrire: un paio di ventilatori facevano finta di rinfrescare l’aria afosa che gravava in quell’appartamento, così come nel resto della città. Dedicai un abbraccio sudaticcio al suo coinquilino e fuggii di corsa in bagno, bramosa solo di acqua fresca sul mio corpo e di non sentirmi più una fuorilegge che aveva disubbidito al telegiornale, passeggiando per la città nelle ore più calde della giornata. La doccia mi rinfrancò il corpo e lo spirito. Tornai in camera vestita solo del telo con cui mi ero asciugata, scortata da un coro di fischi e complimenti – a mio parere totalmente immeritati – che i miei due temporanei coinquilini si erano sentiti in dovere di rivolgermi.

Quella sera decidemmo di uscire. Luca ci condusse in un pub vicino all’appartamento, dove bevemmo dell’ottima birra. Rientrammo a casa due ore dopo la mezzanotte e, augurata la buonanotte al coinquilino, ci gettammo sfiniti sul letto e ci addormentammo quasi istantaneamente, senza nemmeno curarci di indossare il pigiama. Il sabato trascorse quasi similmente al venerdì, girovagammo senza meta tra i luoghi più belli di Firenze. Tra un “Devi metterti la crema solare, altrimenti, pelato come sei, ti verrà un’insolazione.” e un “I capelli non te li hanno proprio dati in dotazione o li hai usati tutti per la barba?”, però, iniziai a capire quanto Nami mi mancasse. Decisi comunque di restare fedele all’impegno preso e mi obbligai, per quanto le forze me lo concedessero, a non pensare a lei, né tantomeno a scriverle.

Rientrammo a casa poco prima di cena e concessi a Luca il primo turno in doccia, non per un profondo senso di gentilezza verso il mio ospite, quanto perché avevo bisogno di un po’ di tempo da sola per dare un’occhiata ai profili social di mia sorella. Una nuova foto con una sua amica compariva beffarda tra i primi risultati. Poggiai il telefono a faccia in giù sul letto, collerica e amareggiata allo stesso tempo, ma subito cambiai idea. Cercai di nuovo la foto, feci levitare per qualche secondo il pollice sopra quel pulsante che le avrebbe comunicato il mio gradimento e cliccai. Me ne pentii istantaneamente. Scelsi di spegnere il cellulare e, una decina di minuti dopo, diedi il cambio a Luca in bagno.

Uscimmo dopo aver cenato, tornammo al pub dov’eravamo stati la sera prima e, tra una birra al doppio malto e l’altra, rivangammo i vecchi tempi del liceo, ridendo così di gusto da attirare più di una volta gli sguardi infastiditi degli altri avventori. Non so dire se fu a causa delle birre, dei ricordi o dell’atmosfera rossastra e soffusa del locale, né se dipendesse dalla tempesta che infuriava nel mio cuore o se semplicemente lo desiderassi e basta, fatto sta che non respinsi il suo bacio. Successe spontaneamente e fu quasi come vivere un film senza esserne, per una volta, una mera spettatrice. Ci guardammo intensamente per qualche secondo al termine di una lunga risata, poggiò le mani forti e nodose sulle mie e s’avvicinò, scatenando una scintilla di elettricità statica tra di noi. Le mie labbra si dischiusero in un invito quando lambirono le sue e, dolcemente, ci baciammo. Continuammo così per un po’; il mio labbro superiore conobbe quello inferiore del dirimpettaio e viceversa. La sua lingua fece capolino dalla bocca; mi sembrò una sirena tentatrice: voleva ammaliarmi con il suo canto, ottundermi l’ingegno, inebriarmi. A differenza di Odisseo, le corde che mi legavano a Nami cedettero all’istante e mi lasciai sedurre e stregare dal suo fascino.

Decidemmo di andar via da lì e ritornare in luoghi più appartati. Pagò il conto, lo presi sottobraccio e camminammo per un po’ al chiaro di luna ridendo e scherzando, quasi imbarazzati per i baci che ci eravamo scambiati poco prima. Raggiungemmo il suo appartamento, fortunatamente il coinquilino era partito, e filammo di corsa in camera. Accese la luce e io la spensi: preferivo la grigia penombra alla sagace luminosità. Riprendemmo ciò che avevamo interrotto, regalandoci baci e sfiorando i rispettivi corpi con mani smaniose di appagare la loro lussuria. Nami apparve nella mia mente e al contempo nell’angolo più buio della stanza, un fantasma altero che sembrava obiettare silenziosamente a quanto stavo per compiere.

“Non sei lì, non dirmi cosa devo fare!” pensai, mentre cercavo di scacciar via dalla mente l’immagina di mia sorella. Il suo reciso diniego ad andarsene, tuttavia, mi costrinse a ignorarla.

Aiutai Luca a disfarsi dei vestiti; i pantaloni volarono via e caddero sul pavimento a fare compagnia alla maglietta che, pochi secondi prima, aveva subito la stessa sorte. Le sottili lame di luce lunare gli rischiararono appena i contorni dei pettorali e dei bicipiti; sentii il suo sguardo intenso percorrere voglioso le curve del mio corpo accaldato. Alzai le braccia per permettergli di svestirmi più facilmente e finse di meravigliarsi per la mancata protezione del mio seno e per la rada peluria che avevo deciso di non rimuovere dalle ascelle. Mi poggiò una mano sul fianco – sentii il sudore bagnarmi la pelle – e con il pollice iniziò a stuzzicarmi il capezzolo ancora addormentato, massaggiandolo circolarmente. Lo baciò e poi decise di replicare sul gemello quanto stava già facendo sul sinistro, prima di racchiudere entrambi i seni con le mani, quasi volesse tastarne la consistenza. Interruppi quel contatto, mi allontanai appena da lui, sfilai la gonna e rimasi con solo le mutandine addosso.

Guardai nuovamente l’angolo buio della stanza: il fantasma di Nami era ancora lì, ancorato alla mia mente come una nave che non può prendere il largo per colpa della bassa marea. La sua immagine gelida era talmente tangibile che quasi mi parve di percepire una folata d’aria fredda provenire da quella direzione.

“E’ solo la corrente, c’è la finestra aperta. Tu non sei qui!”, sussurrai alla mia mente con scarsa convinzione.

«Tutto ok?»

Lasciai la domanda di Luca senza risposta e lo spogliai. L’assenza del tessuto liberò la piena potenza del suo uccello; lui, a differenza mia, era già pronto a spiccare il volo. Gli solleticai i testicoli glabri con la punta delle dita, prima di avvolgergli la mano intorno al pene già irrorato di sangue e voglioso d’azione.

«Spogliati anche tu… fammi compagnia.»

Accettai il suo suggerimento e mi liberai dell’ultimo brandello di stoffa ancora legato al mio corpo, facendo sì che la luce lunare illuminasse il crine che sormontava la mia vulva.

«Sei super sexy così…»

Mi parlava a pochi centimetri di distanza, ma la sua voce sembrava provenire da un altro pianeta. I miei sensi volevano concentrarsi su quel pene eretto che pulsava di desiderio di fronte a me, ma innegabilmente erano attratti dall’angolo oscuro di quella camera dove adesso lo spettro di Nami rideva canzonatorio, quasi volesse sfidarmi a continuare, se n’avessi trovato il coraggio. Chiusi gli occhi per un paio di secondi e indirizzai l’attenzione su ciò che era reale e tangibile, sulla solidità della carne che avevo di fronte piuttosto che su quell’inutile inganno della mia mente.

Spinsi il mio amante sul letto, lo invitai a sdraiarsi e subito fui su di lui. Le sue mani tornarono a giocare con i capezzoli e a stuzzicarmi il seno, ne percorsero le curve leggermente asimmetriche e vi si chiusero a coppa. La vagina iniziò leggermente a inumidirsi man mano che le sue dita iniziarono a discendere lungo i fianchi e verso le natiche, obbligandomi a muovermi su di lui e a massaggiargli l’uccello con la vulva a malapena umida. Dondolai per un po’, avvicinandomi e allontanandomi dalla punta, cercando di fare esplodere il suo piacere ma, allo stesso tempo, sforzandomi di rendermi accogliente. Le grandi labbra si aprirono leggermente, come i petali di una rosa che inizia a sbocciare. Poggiai una mano sulla sua asta e la accarezzai per tutta la lunghezza, sentendola appena un po’ scivolosa al tocco.

«Non fermarti, Sara!»

Continuai ad accarezzargli meccanicamente i testicoli con i polpastrelli, facendolo sussultare ad ogni carezza e percependo la mia attenzione allontanarsi sempre più dalla scena, attratta nuovamente dall’oscurità come una falena dalla luce.

(Sai che non funzionerà, che vorresti essere con me e non lì!)

«Sta’ zitta, Nami!», bisbigliai sommessamente nell’esatto momento in cui quel finto spettro aveva allargato le braccia con l’intenzione di attirarmi a sé; fortunatamente i mugugni di Luca resero il mio amante sordo a quei mormori. Decisi di prender tempo e cominciai a baciarlo. Partii dalla bocca e proseguii lungo il collo, percependo i battiti del suo cuore pulsarmi addosso attraverso la carotide. Raggiunsi il torace, glabro anch’esso, e poco più giù l’ombelico. Guardai nella mia mente e subito dopo gli occhi del mio amico; mi fece un cenno affermativo (come se ce ne fosse bisogno!).

Nami scosse la testa e chiuse gli occhi.

Ripresi a baciare il pube per arrivare infine all’uccello. Iniziai a leccarlo delicatamente, prima in tutta la sua lunghezza, poi i testicoli, poi la punta. Lo sentii ansimare e capii che desiderava di più. Poggiai le labbra calde sulla cima di quel pene duro come il marmo, gli regalai un bacio, aprii la bocca e ne inghiottii la forma. Giocai per un po’ con la lingua cercando di donargli più piacere possibile, mentre con la mano iniziai lentamente ad accarezzargli l’asta. Aumentai il ritmo nella speranza che tanto bastasse a rendermi pronta per la penetrazione ma, per l’ennesima volta, il mio sguardo interiore avvertì Nami schernirmi da quell’angolo oscuro della mia mente.

(Ti ho detto che non funzionerà!).

Mi fermai, probabilmente aveva ragione.

Luca mi domandò nuovamente se fosse tutto a posto, annuii bugiarda e gli chiesi il cambio. Mi fece distendere sulla schiena e si complimentò per la bellezza delle mie forme.

Tornò a giocherellare con i capezzoli, li stuzzicò con le dita, li baciò e li mordicchiò dolcemente. Più di una volta li sfiorò con la punta della lingua mentre io, occhi chiusi, sbuffai snervata per la mia mancata concentrazione. Come avevo fatto poco prima sul suo corpo, anche lui decise di seguire il sentiero che avevo già percorso. Dal seno proseguì a baciarmi lo sterno, i fianchi e l’ombelico. Sostò per un po’ sul Monte di Venere cercando, a modo suo, di indurmi in uno stato di sfrenato desiderio e impaziente attesa per ciò che stava per arrivare. Avevo le gambe serrate come le porte di Gerico, delicatamente le aprì, mi guardò e proseguì nel suo compito, come un bravo soldato.

Iniziò a baciarmi il clitoride proprio nel momento in cui mi voltai verso Nami: era nuda; riuscii a vederle il seno scoperto ma le braccia s’incrociavano a protezione del pube. Non parlava più, non sorrideva beffarda né scuoteva la testa: il suo sguardo vitreo mi penetrò l’anima.

“Vai via, per favore!”, la supplicai interiormente e, quasi l’avessi evocata, subito dopo ricevetti un suo messaggio. Riconobbi la suoneria speciale che le avevo dedicato e afferrai il telefono, poggiato sul comodino in un momento di lucidità.

«Devi guardarlo proprio ora?»

Ignorai la domanda e lessi il messaggio di mia sorella. Tre parole, tre semplici parole rallegrarono il mio umore.

“Ti prego, torna!”.

Il mondo riacquistò all’istante lucentezza e colore, il monotono grigio fu sostituito immantinente dalla più variegata palette che un pittore potesse mai desiderare di possedere. Spazzai via dalla mente l’angolo buio, e il suo equivalente, nella camera, ritornò a essere soltanto uno spazio vuoto.

Accarezzai il capo di Luca, infondendogli l’energia necessaria alla costruzione dell’Hippos* che gli avrebbe concesso di eludere le mie difese e guadagnarsi finalmente l’ingresso a Ilio, così tanto agognato in quei lunghissimi minuti camuffati da decennio. Incoraggiato da questo mio gesto, continuò nel suo tentativo di darmi piacere. Usò la voce in maniera magistrale all’inizio, quasi imitando la famosa marcia turca del compositore austriaco, alternando rapidi colpetti a costruzioni di strane forme geometriche perlopiù circolari e bidimensionali, usando sapientemente la cuspide per solleticare e sfiorare quelle piccole appendici del mio corpo, sempre più eccitate e vogliose adesso che m’ero convinta a lasciarmi andare. Il mio centro gravitazionale mi richiamò a sé, scatenando una tempesta estiva vivaldiana che il mio amante non mancò di notare; si lasciò trasportare dall’impeto e dal piacere di sentire quella gradevole linfa impregnargli le labbra. Non più la punta adesso titillava la pelle calda e sensibile, ma l’intera sua bocca sembrava ansiosa di soddisfarmi, al punto che ciò che era iniziato come un cunnilingio quasi scolastico e perfetto si trasformò, tre minuti dopo, in una passionale serenata al chiaro di luna, sublimando la libidine in pura arte erotica. Accelerò notevolmente il ritmo e l’intensità delle stoccate e, così facendo, costrinse il mio cuore a battere più veloce per stare al passo, quasi come se non avessi più tempo per godere. Sentii l’emozione farsi strada e risalire dall’inguine al cuore e al collo; non potei più frenare le corde vocali che, finalmente libere, iniziarono a manifestare la mia gratitudine.

Il mio amante decise che l’intera bocca non gli bastava più e domandò aiuto alle dita. Prima l’indice e dopo anche il medio accarezzarono e s’addentrarono lì dove la marea s’era già da tempo innalzata, frangendosi spumeggianti sulla carne come i marosi sugli scogli.

«Luca…»

Non dovetti dire altro. Gli afferrai le braccia e lo indussi a tornare sotto di me, mettendomi a cavalcioni e ancorando le mie gambe alle sue. Con la sinistra gli presi in custodia la verga nerboruta e la guidai delicatamente nel mio naos, sentendomi subito invasa da quella bellissima sensazione di complementarità. La sentii sfregarmi, riempirmi, arrivare al culmine. Ancheggiai un po’, dapprima pacatamente poi sempre più svelta; lo forzai a poggiarmi le mani sui fianchi per dirigere i miei movimenti, come se fosse un direttore d’orchestra. Cambiò presto idea, decise di giocare un po’ con le piccole manopole nel tentativo di sintonizzare la mia radio interiore a una frequenza a lui più congeniale; non ci volle molto per trovarla. I nostri bacini cominciarono a muoversi all’unisono e mi piegai su di lui, per permettere alla sua bocca vogliosa di assaporare i due lamponi pronti per essere colti.

Ogni affondo, determinato e dolce allo stesso tempo, si trasformò in una scarica elettrica in grado di attraversare ogni singola sinapsi del mio corpo, facendomi tremare di passione. Guardai l’angolo buio per accertarmi che in quella stanza ci fossimo solo noi due e sorrisi, felice, quando scoprii che io e Luca eravamo gli unici attori in quello spettacolo.

“Sto tornando da te, Nami”

Questo pensiero mi diede più energia. Guardai il mio amante ma vidi il riflesso di mia sorella specchiarsi sul suo volto, non più ostile, bensì desideroso di soddisfare ogni piacere più recondito. Accelerai il ritmo, ansimai e costrinsi Luca, un paio di minuti dopo, a domandarmi una tregua.

«Potremmo…»

Assecondai il suo desiderio e mi sistemai meglio, imitando il più famoso dei quadrupedi. Inarcai leggermente la schiena per aiutarlo a individuare il corretto ingresso alla fonte del piacere e impedirgli di percorrere il sentiero errato, e nuovamente provai quella graditissima sensazione di interezza e totalità. Si mosse velocemente, dettando i tempi di ogni singolo colpo: ora era diretto e deciso, un rapido susseguirsi di caldo e freddo, coperto e scoperto; ora più irregolare e dolce, per poi tornare nuovamente ad affondi rapidi e perentori accompagnati da stimolanti massaggi a quella piccola entità desiderosa d’attenzioni e già da un po’ di tempo trascurata.

Rallentò appena pochi minuti dopo. Si piegò su di me, la pelle calda del ventre rasentò la mia schiena sudata, e divenne più dolce e meno temerario. Si fermò e mi chiese di voltarmi. Mi fece distendere, incrociai le gambe stanche attorno al suo bacino e lo incitai a un ultimo assalto, per saccheggiare l’unica cosa che ancora custodivo gelosamente all’interno della mia città: l’orgasmo. Spinse, sempre più forte e veloce. Boccheggiammo insieme, ansammo all’unisono con un’unica voce, respirando l’una il fiato dell’altro. Le mie mani accarezzarono le forme e il vigore dei suoi bicipiti, prima di stringerli. Ero ormai prossima alla meta.

«Resisti Sara, sto per venire…»

Non so dove trovai la forza, ma resistetti. Afferrai saldamente le sbarre della testata del letto e strinsi le dita dei piedi, aumentando la pressione delle gambe, costringendolo ad avvicinarsi a me, quasi ventre contro ventre. Chiusi gli occhi, supplicandolo di fare in fretta. Le cannonate si fecero più frequenti e fulminee, incapaci di arrivare nel profondo della mia anima ma intenzionate solamente a lambirne sempre più velocemente la superficie. Sentii gli spasmi avvilupparsi intorno ai miei muscoli, annullarne ogni volontà, costringermi a serrare le gambe.

Urlai.
Tremai.
Fui libera.

Raggiunsi l’orgasmo in quel preciso momento, accompagnato da una forte vibrazione che mi scombussolò dalle fondamenta. La mia volontà s’appannò e non capii bene cosa accadde dopo; i sensi e l’istinto mi suggerirono che Luca si era scisso da me, ripristinando la dicotomia insita nel genere umano. Non più una sol cosa, eravamo tornati ad essere donna e uomo proprio pochi secondi prima che il vulcano eruttasse tutta la sua potenza repressa e inondasse le colline e la valle sottostante di lava. Il fluido caldo e viscoso colò per un po’ lungo le chine, poi una mano ne arrestò il cammino.

Luca si distese al mio fianco, mi carezzò il braccio agognando i miei complimenti ed elargendosene da solo, cercando di convincermi a percorrere strade differenti quando, di lì a poco, il virgulto avrebbe ritrovato la sua energia. Non lo ascoltai. Sorrisi garbata, lasciai che mi spostasse i capelli sudati dalla schiena e mi baciasse nuca, collo e spalle, e finsi di addormentarmi pochi minuti dopo. Il sonno tardò ad arrivare ma, alla sua comparsa, portò con sé il ricordo delle labbra carnose di mia sorella. Obliata in quell’immagine, persi lucidità e, sorridendo, m’addormentai.

— continua

* Hippos: termine greco che è stato tradotto, forse erroneamente, con “Cavallo”. Nell’Iliade, grazie al famoso Hippos (quasi sicuramente una nave e non un cavallo di legno), dopo dieci anni di assedio, gli Achei nascosti al suo interno riuscirono a intrufolarsi a Ilio (o Troia).

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