Ho visto un uomo. All’angolo della strada su Ponte Vittorio, barcollava tra le auto cercando di evitare di cadere. Forse era ubriaco o solo stanco della vita. Le braccia strettamente conserte per ripararsi dal freddo, per proteggere il cuore. Il palmo teso in una impercettibile richiesta di aiuto, solo il palmo. Il gesto della povertà. Una lisa camicia a quadri bianchi e rossi sbiadita, un giubbotto bucato che a malapena copriva i fianchi, delle scarpe da ginnastica lacere, gli occhi abbassati, i capelli lunghi grigi e incolti, la barba arruffata, gli occhi, una volta forse di un celeste acceso, vuoti, opachi. Non chiedeva soldi, non implorava denaro, si avvicinava come per caso alle auto, strusciando tra i motorini, guardava dai finestrini, cercava con lo sguardo di incontrare lo sguardo del guidatore, di essere almeno visibile, non bussava al vetro, non chiedeva. Guardava solo e andava altrove. Nessuno ha fatto il gesto di abbassare il finestrino, di guardare in faccia la povertà. Ho cercato anch’io di non guardare. Ho spostato lo sguardo sulle sue scarpe, vecchie scarpe da ginnastica, una volta bianche, la suola consumata, i lacci sporchi, la punta bucata. Ho alzato lo sguardo sul suo viso. Non sono riuscita a guardare gli occhi. Non volevo guardarlo come si osserva un fenomeno strano.
Come una puttana l’uomo accetta qualunque cosa la gente gli elargisca, emozionato apre la mano e guarda. Solo cinquecento lire, neppure un pacchetto di gomme. Anche la povertà costa. Avrei voluto fermarlo e dirgli , ma non l’ho fatto.
Ho fatto finta di nulla. Ho guardato le statue che ornano Ponte Vittorio. Gli angeli con il loro sguardo truce e il dito indicatore. Indicatore di colpa. La nostra. Gli angeli in marmo bianco, splendenti, con le ali spiegate e la spada in mano rivolta verso il cielo. Il gesto della giustizia. Sono solo immobili statue di marmo. Fredde come questo pomeriggio invernale.
Stavolta all’angolo della strada nessuno si e’ accorto di lui. Pioveva. L’acqua scivolava sulle statue penetrando nelle pieghe del marmo cosi’ come scivolava addosso all’uomo, pulendo la sporcizia incrostata sul suo corpo, ma lui sembrava non accorgersene, continuava a barcollare tra le auto. Forse era ubriaco. Chissà cosa pensava. Chissà se amava, se sognava o se odiava. Chissà se la sua poverta’ era autentica o solo fintamente ostentata. La bocca storta in una smorfia, lo sguardo perso in un altrove per noi incomprensibile. Forse vedeva il suo paese devastato dalla guerra, forse immaginava le tendine della finestra della sua casa svolazzare lerce da un brandello di casa, forse pensava alla sua fuga con i pochi vestiti racimolati, forse pensava alla sua donna. Forse la sua compagna e’ la puttana tossicodipendente che dorme sotto il ponte in una scatola di cartone, tra materassi sporchi, avanzi di cibo e topi, forse e’ l’accattona pittrice, una ragazza giovane, i capelli corti, il viso indurito dalla vita, che dorme sotto l’arco di Porta Castello, coperta da un plaid e da una tenda di plastica, guarda il cielo, sogna e dipinge i colori dei sogni, stupendi acquerelli che raffigurano alberi e arcobaleni, gli stessi acquerelli su cui poggia il viso per dormire e che protegge dalla pioggia con il suo corpo, o forse e’ una donna minuta rimasta in patria per piangere quello che non hanno piu’. Forse e’ solo. Solo con se stesso e i suoi ricordi. Solo come migliaia d’altri di immigrati.
Per non dimenticare di aver un corpo allunga di nuovo la mano sporca. Ho fatto pochi metri nel traffico con il motorino, ora sono accanto a lui. Sento il suo odore. Odore penetrante di sporco. Odore di sudore appiccicato sui vestiti presi chissà dove. Posso vedere le gocce di pioggia scendergli sulle guance, penetrargli nel giaccone, colare fino alle scarpe. Si sfrega le mani per scaldarle un po’ dal freddo, ne cadono gocce di pioggia sporca, si tira su il collo del giaccone bagnato. Mi pare di sentire il disordine cencioso dei suoi sentimenti. Odia coloro a cui chiede l’elemosina, invidia lo stretto abitacolo di un’auto che li ripara dalla pioggia, odia dover abbassare gli occhi per impietosire. Ma ha imparato a farlo. Gli altri come lui, arrivati prima in quell’angolo di Roma, gli hanno insegnato che deve tenere gli occhi abbassati. Chissa’ com’e’ il mondo visto dal basso. La poverta’ non permette di alzare gli occhi al cielo. Guardi il mondo dal basso in alto. Il cielo e’ la prima cosa che gli occhi riescono a vedere. Il cielo uguale per tutti e la pioggia che ti bagna. Fai parte della stessa pozzanghera in cui poggi i piedi. Il tuo corpo impedisce alle gocce di bagnare la strada, tu con la tua poverta’ impedisci alla pioggia di tornare ad essere parte della natura.
Chissa’ se la pioggia riesce a lavare i ricordi del passato o se penetrano dentro come schegge, frammenti di vita dolorosi. Il viso scavato dalle rughe, la stanchezza della vita impressa sulla fronte, la pioggia potrebbe solcare il suo viso come una terra arida, imprimendo nelle carni altri ricordi. Ma la pioggia scivola via come le auto al semaforo verde. Sembra quasi non accorgersi che un’altra ondata di auto si e’ fermata al rosso. Ripete gli stessi gesti meccanici di allungare la mano per chiedere. Un qualcosa che gli permetta di sopravvivere un’altra giornata. Solo cinquecento lire, ancora cinquecento lire, altre cinquecento lire accumulate in un risvolto interno dei calzoni per paura che si perdano o che gli vengano rubate. Non esiste lealta’ tra i poveri. I calzoni zuppi di pioggia sono appiccicati alle gambe infreddolite, immagino il profilo del suo corpo, vecchio, cadente, magro, immagino le gambe con i pochi peli bianchi rimasti, i piedi scoperti bagnati, le vesciche sotto il tallone, le gocce di urina che macchiano la patta dei calzoni logori. La poverta’ non e’ mai dignitosa. La fame, la sete, il sonno, la voglia di fare l’amore sono solo un’espressione corporea, un duello tra la mente e il corpo. Chissa’ se desidera ancora. Chissa’ che tipo di amore sogna. Non desidera neanche piu’ il contatto con un altro corpo, femminile, morbido, ondulato, profumato, non lo scalderebbe di piu’ rispetto alla sua casa di cartone e alle vecchie coperte che ha affidato sotto il ponte al suo vicino di poverta’. Non e’ piu’ tempo d’amore. Riesco quasi a leggere nei suoi pensieri, e’ come se fossero trasparenti come quelli dei bambini, i loro occhi riflettono quello che pensano, sono ancora aperti alla vita, cosi’ gli occhi del vecchio immigrato sono colmi di ricordi e pieni di speranza. La speranza di avere ancora cinquecento lire da mettere da parte. Mi sembra di sentire il respiro del suo corpo, un respiro affannoso di stanchezza e malinconia, un respiro stridulo come una corda di violino mal pizzicata. Chissa’ com’era il viaggio che voleva intraprendere, forse nei sogni immaginava una vita diversa. Forse non voleva lasciarsi catturare dai ricordi del passato ma vivere solo nel presente. I tubi di scarico delle auto intossicano i suoi sensi. La vita pulsa nei suoi muscoli ma non e’ piacere del movimento e’ solo stanchezza. Le sue labbra sono immobili, non parla la nostra lingua, non servono le parole per la povertà, e’ lo sguardo a parlare.
All’angolo della vita, su Ponte Vittorio il vecchio non c’e’ piu’. Ora ci sono due ragazzi di colore che puliscono i fari delle macchine. Anche la povertà gira.
eccolo https://raccontimilu.com/orgia/prima-volta-al-club-prive/
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Bisogna scrivere il nick dell'autore nel motore di ricerca del sito, allora esce la pagina con tutti i suoi racconti
Mi chiedevo se ti andasse di scrivere un racconto simile circa a questo, ma seguendo la storia che ho in…
Sempre più pazzesca..vorrei conoscervi..anche solo scrivervi..sono un bohemienne, cerco l’abbandono completo ai piaceri.. e voi.. Scrivimi a grossgiulio@yahoo.com