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Racconti Erotici

La Caduta. Atto Diciassettesimo: del Racconto di Alexander Varus e della verità

By 3 Febbraio 2023No Comments

-Sappi, o Imperatrix, che la mia è una storia assai dolorosa. In essa forse non ravvedrai né eroismo né ardimento, eppure ti chiedo di ascoltare affinché tu possa sinceramente dire se io fui quindi il codardo che forse mi reputi o se le mie non furono che umanissime azioni.-.
Si fece silenzio e tale rimase mentre Alexander narrava della sua fuga dall’Impero, della rocambolesca partenza da Fez, di Farah e di Tork, di Izabel e di Amea.
Il cipiglio dell’Imperatrix rimase impassibile mentre Alexander narrava della prigionia presso i discendenti di Cassius.

(Parla Aristarda, Imperatrix in Roma)

Ascoltai dunque con profonda concentrazione ciò che Alexander Varus aveva passato, le ordalie di viaggi per terra e mare. Alexander narrò per diverso tempo, con dovizia di particolari. Lo interruppi solo quando parlò di Eria, di ciò che Vera Nemlia, la mia amata guardia gli aveva rivelato. Lo stupore sommo permeava la mia voce mentre parlavo.
-È quindi lei veramente Layla? È davvero la prima tra i Cimanei? Colei che unendosi a Janus gettò le basi del nostro Impero?-, chiesi dunque.
-Invero sì, mia signora.-, rispose Alexander, -Ella ha fatto dell’odio la sua ragione di vita, della sofferenza il sostentamento e della lama la sua sola legge.-.
Lo stupore m’impedì di proferire verbo per minuti mentre nella mia mente il Mito della Fondazione si dipanava come l’avevo appreso da Socrax e dai miei precettori.
-Come può? Come può essere la stessa guerriera?-, chiesi infine.
-Mia signora, in fede ti dico che non sono certo di come ciò sia stato possibile, ma non dubito che la versione del Mito di cui tu hai conoscenza sia la verità. Molto è stato taciuto, sino ad oggi. Ciò non fu fatto per spregio, ma per proteggere Roma e la fragile pace ottenuta. Se la verità fosse emersa, sangue sarebbe stato sparso.-, spiegò Alexander.
Annuii, ma ciò non mi fece sentire meglio.
-Narrami dunque di cos’accadde realmente, Alexander. Fai onore al tuo nome e porta il vero laddove può proteggere gli uomini.-, lo esortai.
Narrò. E desiderai che mai l’avesse fatto. La morte di Janus a opera di Layla, la fuga di Maghera in Kelreas, la storia riscritta. I Justicarii e la Stirpe, l’Impero stretto nella morsa tra i due ordini occulti in lotta. Una guerra sotterranea che si era palesata, a torto o a ragione, solo ora, in tutta la sua ferocia. Tremiti mi scuotevano. Com’era possibile?
Com’era possibile che tutto ciò fosse accaduto e l’Impero nondimeno fosse beatamente esistito, continuando a inglobare territori come se nulla fosse stato, felicemente ignaro del conflitto di ombre che proseguiva nel suo stesso cuore?
-Invero, Imperatrix, la struttura stessa dell’Impero era plasmata dalla duplice mano della Stirpe e dei Justicarii. Una creatura nata a metà, che oggi si avvia alla sua fine.-, disse Alexander, con tono calmo ma inflessibile.
-Quindi questa lotta non serve a nulla?-, chiesi, semplicemente incapace di concepire una simile possibilità, -È questo che stai dicendo, o discepolo di Socrax?-.
-Ciò che sta accadendo qui, oggi, era scritto. Il vecchio deve finire, Imperatrix, affinché il nuovo giunga. Non la fine di un Impero, ma l’inizio di una vera pace.-, rispose Alexander. Non pareva timoroso, né spaventato e fu questo a calmarmi improvvisamente. Pareva molto diverso dallo studioso che avevo conosciuto.
Dov’era finito quel giovane? Era forse stato fagocitato dall’oscurità? Mutato dal dolore? Plasmato dalla collera? Invero, speravo che dietro al suo volto ci fosse ancora qualcosa dello studente di Socrax che ricordavo di aver accolto.
“Quanto l’hanno cambiato queste traversie! Non pare più lui!”, mi sorpresi a pensare.
-I Justicarii sapevano che il tempo dell’Impero stava volgendo al termine, ma la Stirpe non ha mai accettato questa semplice verità.-, disse Alexander, -Erano persuasi che l’Impero di Roma, degli eredi di Licanes, avrebbe potuto perdurare negli eoni a venire.-.
-Nessun’impero dura.-, interloquì infine Maghera. Io preferii tacere.
Piuttosto osservai la giovane. Era davvero l’amazzone che diceva di essere? E in che senso era un’erede spirituale della compagna di Janus e prima tra le guerriere del Kelreas?
La mia confusione non aveva fatto che aumentare.
-Imperatrix, lascia che Alexander proceda il suo racconto.-, esortò la giovane, come se avesse percepito il mio inquieto interrogarmi. Annuii.
Alexander spiegò dunque della Stirpe e dei Justicarii, di Socrax, unico della Stirpe ad aver disertato per i Justicarii e della lotta che venne condotta dall’alba dell’Impero a questo giorno. Non lo fermai, sicché attesi che riprendesse di raccontare del suo viaggio.
-Dunque, mia signora, giungemmo presso genti pacifiche, e là ebbi una visione.-, disse Alexander. Lasciai che narrasse di ciò e del suo rapporto con Vera, non senza sentire una punta di rimpianto. Le mani di quel giovane avevano accarezzato la sua pelle, quella bocca aveva baciato la sua… E io ora non avrei mai più potuto farlo. Il mio dispiacere per quella perdita si sommò al dolore per gli altri morti, per Ilthea e tutti coloro che erano morti sotto le mie insegne. Era un fardello pesantissimo che avevo portato da sola per così tanto…
E ora la pace era vicina. In un modo o nell’altro, presto sarebbe finito tutto.
Mi chiesi se fosse realmente sbagliato sperare nella fine. Alla lunga, vittoria o sconfitta non erano realmente importanti, non per me, non più. Anche il Trono non era divenuto altro che un vacuo simulacro di glorie passate, mero ricordo di un era in cui essere Romanei o Licanei poteva avere una qualche importanza, costituire un vanto.
“Come ci ricorderà la Storia?”, mi chiesi, “Come portatori di luce in un evo oscuro o come tiranni?”. Non me l’ero mai chiesto sino a quel momento.
-La Storia ricorderà che ci sono uomini e donne giusti, contrapposti agli avidi, agli oppressori.-, rispose Alexander. Mi accorsi solo in quel momento di aver parlato ad alta voce, sovrappensiero. Gli sguardi di Maghera e Alexander mi fecero capire quanto profondamente dovevo apparire turbata.
-Continua, ti prego.-, riuscii a dire con il contegno che sapevo esibire in occasioni ufficiali.
Sapevo bene che ora sarebbe giunta la parte peggiore e mi preparai, ben conscia dei dolori ancora prossimi a venire.

(parla Alexander, l’Esule e custode dell’Ultima Lama).
-Tu vuoi? Tu vuoi o Imperatrix udire ciò che narrerò pur sapendo che sarà foriero di dolori e lacrime?-, chiesi. Accanto a me, Maghera taceva. Gli occhi di Aristarda Nera mi sondarono con inquietante intensità prima che l’Imperatrix in Roma annuisse.
-E sia.-, dissi. E presi a narrare…

Procedemmo dunque verso la nostra meta, la vela a cogliere il vento. Non parlavamo.
Non avrei comunque saputo come spiegare il cambiamento avvenuto, e Vera forse non osava chiedere, conscia che qualcosa era mutato per sempre.
Una metamorfosi aveva avuto inizio in me. Sin dall’inizio della mia fuga, tale cambiamento mi aveva avvolto come una crisalide che ora, con fatica, vedevo rompersi al sempre più consistente impeto della mia decisione.
La nostra barca procedeva piano, il viaggio ben più lieto del nostro fuggire dal villaggio dei discendenti di Cassius. Provviste e acqua ci erano state garantite. Il viaggio durò tre giorni, durante i quali mantenemmo quasi interamente il silenzio. Fu all’alba del terzo giorno, che Vera Nemlia osò parlare.
-Dove stiamo andando, Alexander, lo sai?-, chiese. Non mi parve di udire la mia voce quando risposi, pochi istanti dopo.
-Oltrepasseremo lo Stretto a Nord-est, sino ad approdare su terra emersa. Proseguiremo a piedi, sino a una fortezza, quel che ne rimane.-.
-Come puoi sapere?-, la domanda di Vera Nemlia pareva sospinta da un sussurro.
-So perché ho visto, Vera.-, risposi, -I miei occhi sono aperti.-.
-Allora perché andare lì?-, chiese lei.
-Perché la vecchia via rinasce nella nuova.-, ribattei io.
Lei annuì. Accettò. Volse lo sguardo dietro di noi.
-Eria ci seguirà.-, dissi. Non era una domanda.
-Dovremo affrontarla.-, dissi. Lei annuì.
-Così è scritto.-, disse lei. Il suo tono era triste, e risoluto. Permeato da una consapevolezza che trovai funesta. Io le presi una spalla. Sapevo cosa voleva dire.
-Da chi, Vera? Da chi?-, chiesi. Volevo solo che mi dicesse che non era scritto.
Che non era già un fato deciso.
-Dal Cielo, temo.-, rispose infine lei infrangendo le mie speranze. Mi richiusi nel silenzio, per un lungo istante. Il vento del mare spirava su di noi, come a voler riempire quella quiete che l’assenza di parole aveva saputo creare. Sforzo vano.
Inutile ribellarsi al destino: a suo modo e tempo, ognuno segue il proprio.
Ed era giunto il mio tempo. Il tempo del mio destino.
Guidammo la nave verso terre dimenticate. Infine, notammo la terra emersa.
L’isola emergeva, un luogo austero, brullo. Privo di vita?
Un luogo morto? Eppure lo sguardo che Vera Nemlia vi dedicava lasciava presagire che là si fosse sicuramente svolto un evento importante per lei.
Un luogo destinato a restare morto? Forse no. Tuttavia avvicinandoci sentii un brivido.
Sicuramente, quel luogo era in qualche modo legato a ricordi tragici. Notai Vera guardarsi attorno, come se quel posto le riservasse sorprese e tranelli ancora celati alla vista.
Un luogo segnato. Notai qualcosa sulla spiaggia. Bianco sullo scuro del bagnasciuga.
Ossa. A centinaia.

Non fu invero il miglior benvenuto. Prendemmo terra cercando di non calpestare quei resti, impresa non facile. Tirammo in secca la barca, traendo le provviste.
Una bruciata si ergeva ad est, alberi scheletrici lambivano il cielo, come a voler raggiungere grazie mai concesse loro. Una visione desolante che, unita allo spettacolo della spiaggia, lasciava solo presagire dolori e visioni di orrori ancora a venire.
Avanzammo verso quella direzione. Vera non parlava, il viso truce, raccolta in pensieri sui, che non osavo sondare. Io a mia volta sentivo forte il desiderio di andarmene, sfidare nuovamente il mare e cercar lidi più sereni ove invero poter ritrovare una beatamente serena ignoranza. Mi corazzai contro quella tentazione. Ero giunto lì spinto da troppi sacrifici, da troppe morti, troppi avevano dato la loro vita per me, o a causa mia.
Dovevo loro questo. E lo dovevo a me stesso. Se ora avessi voltato le spalle, l’avrei rimpianto sino al giorno della mia morte.
Incedetti dunque lungo la spiaggia, sino alla radura morta.
Anche lì c’erano scheletri, resti. Privati di armi e armature. Qualche punta di freccia denotava le cause di tali morti, almeno di alcune di esse.
Le osservai come rapito, cercando di immaginare. Era tutto ciò che dovevo vedere?
Ero giunto sin lì solo per quello? Per annientamenti già avvenuti?
Per quale ragione gli dei o chi per loro mi aveva voluto condurre là?
Solo per perire? No. Doveva esserci un motivo. Le morti di moltissimi erano alle mie spalle. Non potevano esser state vane!
-Vera…-, iniziai. Lei, poco avanti a me, mi fece cenno di tacere.
Feci per parlare, ma improvvisamente la vidi.
Una montagna. Oltre la foresta morta, oltre gli scheletri bruciati, oltre la devastazione.
Un monte spoglio, brullo quanto l’isola stessa. Ma non fu quello ad attirare il mio sguardo.
Bensì i resti. Bruciati e martoriati, invasi da licheni e crepe, devastati dall’incedere del tempo e dalla furia dell’uomo, ma ancora a lor modo possenti.
-Il Tempio.-, sussurrai. Vera Nemlia annuì. Lacrime mute rigavano le sue gote.
-Il Tempio dei Justicarii.-, disse.
Quelle parole aprirono un profondo silenzio, quasi che tale dichiarazione avesse cancellato tutto il resto. La vista di quel luogo era una veduta mitica. Se per i più i Justicarii erano un mito ignoto o una leggenda infondata, per me erano certezza. Quel tempio suggellava la certezza con il suo mero esistere. Vera mosse i propri esitanti passi verso di esso.
Lo guardai mentre avanzavamo. La cinta muraria esterna era brecciata in più punti. Edifici in legno erano bruciati e i loro resti marcivano e si sgretolavano piano. Altri scheletri bruciati erano a terra. Quanti Justicarii erano caduti per difendere quel luogo?
Quanti assalitori avevano pagato col sangue la vittoria? A tali domande non avevo risposta, ma potevo certamente immaginare. Il paesaggio parlava chiaro.
Non fu tuttavia il paesaggio a strapparmi il fiato, bensì il resto. Il Tempio incombeva su di noi, maestoso anche in rovina. Se c’era qualcosa per me, doveva essere là.
Procedetti con passi lenti e incerti dentro la foresta, attento a non calpestare i resti dei morti. Fu impresa non facile, erano sparsi ovunque ed era impossibile evitare di calpestarli, anche badando al massimo a dove mettere i piedi.
Il luogo odorava di cenere, anche dopo tanto tempo, quasi che il mondo stesso avesse voluto serbare il ricordo dell’oltraggio a quel luogo…
C’inoltrammo nella foresta. Oltre di essa, verso il tempio. Lo fissavo in cerca di qualcosa. Un segno, una conferma. Sentivo il cuore in petto come un tamburo.
-È passata una vita da quando sono stata qui…-, sussurrò Vera al mio fianco.
-Non volevi tornarci.-, non una domanda, la mia. Lei annuì in risposta.
-Ricordo poco. L’adolescenza qui, l’addestramento. L’Ordine era ferreo nel suo regime. Chi varcava queste porte non poteva uscire prima di aver terminato l’addestramento. Chi falliva non incontrava un fato lieto.-, sussurrò.
-Perché? Perché non mostrare pietà?-, chiesi.
-I Justicarii non sono benefattori. Sono guerrieri. Lame snudate contro l’indifferenza del mondo.-, rispose la giovane, -Chi voleva entrare veniva sottoposto a una prima prova. Un interrogatorio, per così dire. Poi partivano le altre prove.-.
-Ma accettavano solo ragazzi o comunque adolescenti? O…?-, chiesi. Lei sorrise.
-Accettavano anche adulti, ma le prove per loro erano ben più severe.-, disse.
-Socrax deve aver passato l’inferno.-, mormorai. Come suonò stanca la mia voce!
-Socrax fu determinato. Sapevano chi fosse. Fu lasciato fuori da queste mura per tre giorni. Non si mosse sotto la pioggia battente e il vento gelido dell’inverno. Quando lo fecero entrare, tremava di febbre. Ebbe ancora la forza di inchinarsi a coloro che lo accolsero e consegnare le armi prima di collassare.-, raccontò Vera. Annuii. Suonava da lui.
-Lo accettarono. All’epoca ero ancora una ragazza. Ma durò poco. Dopo diversi giorni, arrivò l’attacco. Riuscimmo a fuggire, io e altri giovani, prima che il Tempio fosse cinto d’assedio. Ma so che anche altri fuggirono. La Stirpe non riuscì a estinguere il nostro fuoco.-, disse la giovane. Si voltò verso di me, gli occhi ardenti di furore, -Ed ora giungi tu, ultimo vero romaneo, forse. Con una lama uscita dalla leggenda, appartenuta alla nostra -nemesi. Per dare inizio a una nuova alba.-.
-Non so neppure cosa stiamo cercando…-, mormorai, mesto. Lei mi mise una mano sulla spalla. Strinse con forza.
-Non hai bisogno di sapere. Abbi fede! Credi che tutto questo sia stato inutile?-, chiese.
I visi di Tork, Amea, Fatma e Socrax mi balenarono alla mente. Scossi il capo.
-No. Non lo credo.-, dissi. Lei sorrise. Ma non fu lei a parlare.
-E fai bene, oh viandante.-, disse una voce accentata in perfetta lingua licanea.
Mi volsi verso di essa, imitato da Vera, la Prima Lama in pugno. Puntata verso la voce.
Verso una giovane dalla carnagione bronzea, il viso armonioso, il corpo longilineo.
-Chi sei?-, chiesi.
-Maghera.-, rispose lei con naturalezza.
-Porti il nome di una leggenda morta da secoli!-, esclamai.
-Porto il suo nome poiché non muore nulla. Tutto muta. Fluisce. Il nuovo nel vecchio, anche ora. Anche qui. E tu, viandante, giungi sospinto dalle ali del fato.-, rispose lei.
-Parli per enigmi.-, dissi non senza irritarmi, -Parla chiaro. Chi sei e cosa vuoi?-.
-Sono Maghera, come ho detto. E ciò che voglio, è guidarti.-, disse la giovane.
La vedevo meglio. Vestiva come un’amazzone del Kelreas. L’arco lungo delle guerriere riposava appeso alla faretra che portava sulla schiena. Alla cintura portava due coltelli.
-Vesti come un’eroina del Mito, usi il suo nome, ma sappiamo tutti che non sei lei.-, replicai. Vera taceva. Il suo silenzio aggiunse peso alle parole successive.
-Sai così tanto, o viandante. E conosci così poco…-, rispose la giovane con un sorriso.
-So che i morti non fanno ritorno. Yneas non permette che essi rivivano.-, dissi, pacato.
-Ma presso le Amazzoni del Kelreas la verità è ben diversa, come forse tu sai già. La tua compagna forse, potrebbe confermarlo?-, chiese Maghera.
-Alexander, presso le genti del Kelreas vi era la credenza che spiriti illustri potessero tornare alla vita, reincarnandosi in nuovi corpi.-, spiegò Vera, che sino a lì non aveva parlato. Mi volsi verso di lei.
-E tu credi a questo? Credi davvero che questa ragazza possa essere Maghera, compagna di Janus, condottiera delle Amazzoni? La Maghera del Mito?!-, chiesi, basito.
-Sì.-, rispose Vera, -Perché tu stesso sai che gli Dei non operano per vie chiare e lineari. Essi travestono la verità affinché a vederla siano i puri. Mettono alla prova gli incerti, spezzano gli orgogliosi e infine innalzano gli umili e i miti.-.
-Tutto il tuo viaggio sin qui…-, Maghera mi fissò con uno sguardo intenso, che mi parve antico e giovane ad un tempo, -Prova questa verità.-.
Aprii la bocca per parlare, e subito la richiusi per poi riaprirla.
-Come sai di ciò che ho passato?-, chiesi.
-Sogni. Ho sognato il tuo arrivo su questi lidi. Sapevo di dover essere presente. Io e le mie compagne abbiamo sfidato il mare come fece colei che io fui secoli orsono. Come tu hai fatto. Come Janus stesso.-, spiegò la guerriera del Kelreas.
-Mi stai chiedendo di credere che…-, espirai, cercando di calmare i battiti del mio cuore,
-Che tu sia effettivamente Maghera reincarnata, come io sono…-, non osai dire altro.
-Janus.-, osò proferire Vera. Si gettò in ginocchio, davanti a me.
-Oh Dea!-, esclamò, -Grazie per questo giorno! Grazie, grazie, grazie!-.
Lacrime di commozione le bagnavano le gote.
-Questo è incredibile…-, mormorai in un soffio.
-Questo è ciò che deve essere.-, disse Maghera, -E tu lo sai.-.
-Socrax lo sapeva?-, chiesi a Vera. Lei annuì, alzando il viso rigato dalle lacrime.
-Socrax sapeva tutto. Sapeva di essere il nuovo Veggente che, come Asteius, sapeva non sarebbe giunto sui lidi salvifici per la sua gente. Non avrebbe visto il termine del viaggio.-.
-E Aristarda? Septimo? Calus? Fatma? Loro chi…-, mi fermai, forzando l’ultima domanda, -Chi erano?-. Vera sospirò, scosse il capo.
-Non lo so. Non è dato sapere. Anime nuove o antiche, questo non è dato sapere. Sappi solo che questo è ciò che devi fare.-, disse.
-È ciò che saranno a importare. Nessuna morte è definitiva. Yneas avvolge e rinnova la vita attraverso il suo fluire.-, continuò la bionda.
La valanga di rivelazioni mi travolse. Annichilì le mie capacità di concepire un pensiero.
Dovetti respirare più volte, stringendo ancora in pugno la Prima Lama per riuscire a riconquistare e mantenere una presa sul presente.
-È il tuo destino, Alexander.-, mormorò Maghera. Il suono del mio nome sulle sue labbra era musicale e piacevole. Annuii appena. Avevo cercato un segno, chiesto la risposta.
Ora l’avevo. Tutti i pezzi erano al loro posto. Salvo uno.
-Quindi la storia si ripete? L’Impero muore e i suoi esuli troveranno nuovi lidi?-, chiesi.
-L’alternativa è la tirannia. Il male si è destato da molto. La mia gente ha tagliato i contatti con l’Impero per questo.-, rispose Maghera annuendo.
-La fine di Roma… Come può essere questa la sola fine? La sola possibilità?-, chiesi.
Sentii la giovane farmi dappresso. Profumava di qualcosa. Essenze floreali? Forse.
Mi mise una mano sulla spalla. Un gesto fraterno, che mi spronò a guardarla in viso.
-Non è la sola. Ce ne sono altre, a miriadi. Ma il nuovo non può sorgere quando ancora il vecchio è forte. E la scelta è tua, Janus Alexander.-, indicò la Prima Lama, -Quell’arma può essere una reliquia di strage o un simbolo di rinnovamento. Non sta che a te.-.
-In ogni caso, temo che dovrai sbrigarti: Eria ci ritroverà. È scritto.-, mormorò Vera.
-Eria?-, chiese Maghera.
-Layla.-, dissi io. Notai il viso della giovane corrugarsi. Un’espressione di immane tristezza, di ira e sdegno che non conoscevano lo scorrere del tempo pervase i suoi lineamenti.
-È così, dunque.-, disse solo, -Allora la affronteremo.-.
-No.-, disse Vera, -Voi entrerete nel Tempio. Cercherete la Forgia. E forgerete il nuovo destino. Sta a me affrontarla. Darvi il tempo.-.
-Morirai.-, sussurrai io.
-Sì. Come morì una delle Amazzoni prima che Janus avesse potuto amarla davvero. Tutto trova il suo posto, Alexander. E sono grata che in questa vita, io abbia potuto vedere adempiuta la promessa che mi fu da te fatta sulle spiagge di Re Gunkal…-.
Maghera taceva. Io sentii le lacrime pungermi gli occhi. Rabbia e dolore, frammisti.
-Non posso permettere che la gente continui a dare la sua vita per me!-, gridai.
-Non sta dando la tua vita per te. La sta dando a te.-, disse Maghera.
-Tutto questo era già previsto.-, sussurrò Vera Nemlia, lo sguardo rivolto verso la foresta.
Qualcosa emerse. O parve emergere da essa. Una sagoma nera in un manto lacero.
Eria. Maghera estrasse l’arco e incoccò la freccia. Scagliò. Eria non si mosse.
La freccia divorò la distanza. E, a pochi centimetri dal viso della donna-demone, fu deviata dalla sua lama snudata.
-Maghera del Kelreas! Ti saluto al di là del tempo!-, urlò.
-Io saluto te, Layla.-, Maghera snudò i coltelli, impugnandoli, -Vieni dunque se così dev’essere.-. Il sole baluginò sulle lame nude, strappando riflessi brillanti.
-Sarà un piacere. Non riuscisti a fermarmi quando uccisi Janus, non lo farai ora.-, esclamò la demone. Maghera emise un verso di antico odio.
Era così? Era mio compito interpormi tra le lame e morire come Janus fece? Decisi.
-Layla!-, gridai, -È me che vuoi!-. Feci un passo verso la donna, la Prima Lama impugnata in una mano. Sentivo solo un battito forte, profondo. Il mio cuore.
-Una verità da cui sei a lungo scappato, Alexander. Ma ora sai. Come so io. La storia si ripete.-, disse Eria. Si lanciò verso di me. Improvvisamente qualcuno mi superò. Vera.
Vera Nemlia fronteggiò la carica di Eria, lama in pugno e viso sereno. Parò due fendenti, evitò un calcio.
-Fronteggerai me, non lui.-, ringhiò alla guerriera in nero, -Sai che così dev’essere.-.
-Non mi sfuggiranno e lo sai.-, rispose l’altra fendendo e affondando. Per grazia divina o mera abilità, Vera Nemlia evitò ed evase gli attacchi con rapidità.
-Andate!-, urlò a noi. Sentii la mano di Maghera afferrare la mia. Corremmo verso il portale. Lo superammo. Era stato divelto, bruciato. Ci ritrovammo nella corte interna. Un cortile con un pozzo. Luogo d’addestramento e adunata. Potevo ben immaginare quanti guerrieri dei Justicarii avessero calcato queste sale. D’un tratto seppi dove andare.
-Di qua!-, dissi prendendo il braccio di Maghera. Notai le scritte, tatuaggi. Ne aveva un sacco lungo braccia e gambe. Caratteri primitivi, scrittura sacra del Kelreas.
Entrammo in edifici vari. Dormitori e magazzini. Tutto bruciato e distrutto. Quel luogo ospitava solo scheletri, fantasmi, ricordi e rovine. Fuori, il rumore delle lame che cozzavano si allontanava sino a svanire.
Entrammo nella corte interna. Maghera osservava tutto, gli occhi verdi che parevano divorare la scena. Archivi bruciati, sale di meditazione distrutte e profanate.
-È tutto qui?-, chiesi. Mi fermai di fronte alla statua di un idolo seduto con una lama sulle gambe. Non c’era nulla là. Lottai contro il crescente timore che tutto quel viaggio e ora il sacrificio di Vera fosse stato inutile. Poi lo vidi. Il pomello della spada sulle ginocchia…
Mi alzai. Lo afferrai e feci forza. Un grido riverberò. Fortissimo.
-Alexander!!!-, la voce di Eria pareva permeata dall’odio più puro.
-Vera Nemlia è morta per te! Socrax è morto per te! Sei morte per tutti coloro che ti conoscono! E prima di perire riprenderò ciò che è mio. E ucciderò chiunque si metterà in mezzo! Non imporre altro lutto e dolore al mondo! Dammi la Prima Lama!-.
Non osai rispondere. Era vero. Tutto atrocemente vero.
Layla avrebbe ucciso altri. Migliaia di altri. Si sarebbe bagnata nella linfa vitale di milioni di uomini se l’avesse avvicinata di un solo passo alla Lama.
-Non lasciare che muoiano invano. Darle la Prima Lama significa condannare il mondo al Caos.-, sussurrò Maghera. La fissai. Perché non riuscivo a darle torto? Perché non riuscivo a dubitare? Perché malgrado tutto, stavo cominciando a credere?
E perché, a dispetto delle circostanze, sorridevo vedendola?
-Io…-, sussurrai. Lei mi mise un dito sulle labbra. Poggiò una mano sulla mia, sul pomello della spada. -Chiudi gli occhi.-, disse. Obbedì. Il buio s’impadronì della mia mente.
Poi le labbra di Maghera trovarono le mie. E vidi.
Una vita prima, sdraiati l’una nelle braccia dell’altro, sazi di amore e sesso, appagati.
-La mia vita ti appartiene, o guerriera del Kelreas!-, dissi con voce non mia.
-Come la mia appartiene a te, o Esule. In questa e nelle altre.-, disse lei.
Sentii quel momento. La mia mano che scendeva a carezzare il ventre di Maghera, il calore dei nostri corpi, la brama di una figlia. Tutto così mio, così vero.
Ero io, non Janus, a vivere quel momento. Io…. Io che era chi era Janus.
Improvvisamente, un rumore spezzò il ricordo. Mi staccai dalla bocca della giovane, seduto nel Tempio in rovina, la mano sul pomello della lama, girato. E vidi la statua ruotare di sessanta gradi, mostrando una scala che s’inoltrava nelle tenebre.
Maghera sorrise. Io anche. Destino. Ci chiamava.
Scendemmo la scala mentre la statua si riposizionava, celando il passaggio.

(Parla Aristarda Nera, Imperatrix in Roma)
-Non so cosa fu di Eria, o Layla, mia signora. Ritengo ci incontreremo sul campo-, spiegò Alexander, l’uomo nel cui corpo, sotto una mente temporale e una carne che non avrebbe conosciuto altro che quella vita, risiedeva l’anima del Fondatore.
-Certamente sei destinato a questo.-, disse Maghera. Il mio sguardo passava tra loro, incapace di soffermarsi per pochi istanti su di essi.
-Dea Madre…-, sussurrai. Ciò che avevo udito era incredibile, semplicemente incredibile.
-Perché nulla mi è stato detto?-, chiesi, -Vera sapeva. Socrax sapeva…-.
-Era troppo. Una verità gigantesca. Un fardello inumano da portare.-, spiegò Alexander.
Annuii. Era vero. Già troppe rivelazioni avevano scosso la mia vita. Quelle giungevano da sole, ora, all’alba di un ultimo scontro. Era giusto che fossero le sole.
-Orsù, dimmi della Lama.-, chiesi. Alexander Varus annuì.

(Parla Alexander Varus, portatore dell’Ultima Lama, erede di Janus).
Scendemmo quelle scale, o Imperatrix, con prudenza, guidati da globi luminosi che fiocamente ci mostravano la spirale discendente. Pareva di scendere verso il centro della terra stessa. Quasi che fosse una discesa all’inferno. Ma faceva fresco, là sotto. E quando giungemmo a una porta intatta e la aprimmo, capimmo di non essere nell’Ade.
Era una forgia. Gli strumenti, il crogiolo e gli stampi, il metallo in attesa di venir rimodellato dal calore, tutto era in perfetto ordine.
Laggiù nessuno era mai giunto. Mai.
-C’è altro quaggiù.-, sussurrai. Oltrepassai un’altra porta. C’era un bivio.
-Dev’essere la via di fuga con cui i Justicarii sono fuggiti.-, mormorai.
-Una sì. Ma l’altra?-, chiese Maghera, -Dove porta, e quale dovremmo prendere?-.
Me lo chiesi. Fu un impulso che non stento a definire al di fuori del razionale e che molti direbbero la mano del Fato, a guidarmi. Andammo verso destra.
Attraversammo un tunnel dove le scritte in lingue antiche erano migliaia.
I globi luminescenti rilucevano fiochi, ma tenaci. Illuminavano l’oscurità attorno a noi.
Maghera estrasse un acciarino e, avvolto uno stoppaccio attorno a un bastone che si era portata nella faretra, diede luce a una torcia, illuminando la galleria.
-Queste scritte…-, mormorai, -Cosa sono?-.
-Questa è un nome.-, disse lei sfiorando il muro con le dita in corrispondenza di un carattere incisovi, -Eudossia del Kelreas, Flagello di Lochkasmi-. Io annuii.
Ne riconobbi uno in lingua licanea.
-Audrasio di Pterida. Legato della Legione Diesis.-, lessi. Poi un altro.
-Urtalio di Prenassia. Guardiano delle Pleiadi.-, lesse Maghera.
-Nathlai, Tre Volte Onorata.-, lesse ancora lei.
-È un memento.-, dedussi io, -Sono nomi dei morti. Di coloro che si addestrarono qui…-.
-E la galleria continua.-, disse la giovane. Annuii. C’inoltrammo in quel tunnel.
C’erano altri nomi. Sempre più antichi, sempre meno traducibili. Idiomi primitivi, poi scritte in caratteri simili a quelli licanei ma difficili a leggersi. Nomi che parevano appartenere ad altre epoche. Più remote e arcane. Epoche altrettanto feroci.
Infine, giungemmo in fondo alla galleria.
Sul fondo c’era un sepolcro. Al centro di una stanza circolare si ergeva un tumulo, una tomba, un parallelepipedo in marmo nero. La figura del guerriero in rilievo sul marmo nero era artistica e impressionante. Non c’erano rune né epigrafi, nulla di scritto a dire chi fosse quell’uomo tanto onorato. Ma lo si poteva intuire.
-Era il loro Fondatore.-, mormorò Maghera, -L’uomo che diede i natali a quest’Ordine.-.
-Sì.-, risposi io. La statua brandiva qualcosa tra le mani. Un arma antica.
Un Tantō. Il primo? Forse. Sicuramente non era un falso: la lama era consunta, l’impugnatura usurata. Un’arma che aveva visto molto e messo fine a molti nemici.
-È questo che siamo venuti a prendere, Maghera.-, dissi, -Due lame, volte a divenire una. Ordine e Caos, Giustizia e Ferocia, Equilibrio.-.
Posai la mano sulla tomba. Udì appena un sussurro, inudibile all’orecchio. Un impulso.
Presi la lama e la sottrassi dalla presa della statua. Uscì senza resistenze.
La afferrai per l’impugnatura consunta. La Prima Lama dei Justicarii e, nell’altra mano, strinsi la Prima Lama di Layla. Le due lame che avevano dato origine al Mito.
E che al Mito, ora, avrebbero dovuto mettere fine. Sorrisi. Ora sapevo.
-Non c’è modo che Layla ci raggiunga qui.-, dissi. Maghera annuì.
-Torniamo alla forgia. Abbiamo un lavoro da fare.-.

Digiunammo per il giorno seguente, esplorando l’altra via. Conduceva a una ridotta completa di molo. C’era ancora una barca attraccata.
Importava poco: riscaldammo la forgia, lentamente.
Socrax mi aveva insegnato qualcosa sulla forgiatura dei metalli. Maghera inoltre conosceva a sua volta il procedimento. Rimossi l’impugnatura in corda del Tantō.
Rifacemmo lo stampo di una nuova arma. Un ibrido, il segno d’inizio per una nuova era.
Quando il metallo della Prima Lama si unì a quello della Lama del Primo Justicar, seppi che la nuova via era tracciata. Maghera prese a cantare un inno alla Dea Madre del Kelreas.
Io pregai tutti gli dei che quella lama, sorta dalla rovina e dagli abissi della Storia, potesse infine portare pace a una terra devastata. Versai il metallo nello stampo, insieme a poche gocce del mio sangue e di quello di Maghera. Una comunione.
Martellai il ferro rovente sino a temprarlo. Affilai la lama sulla mola sino a renderla tagliente come doveva. La impugnai. Era perfetta.
Trovammo gli abiti dei Justicarii. Li indossai. Sarei andato in battaglia come uno di loro.
Sarebbe stato il mio modo di onorare il loro Ordine.
-Il resto, mia signora è cosa nota.-, dissi concludendo il mio racconto.
Aristarda mi fissava, incredula e attonita. Infine si alzò dal trono. E crollò in ginocchio, inchinandosi a noi.
-Io vi saluto, o Fondatori.-, sussurrò tra lacrime di gioia, -Vi saluto, poiché ora so che al vostro fianco, solo la vittoria e la pace potranno finalmente arridere alle genti del nostro Impero.-.
-Non ancora. Non ancora la pace, o Imperatrix.-, mormorò Maghera, -Layla ancora vive. Questa battaglia giunge infine, predetta da millenni, come fresco vento del fato a scacciare le tenebre che si sono addensate sul mondo. L’inizio di una nuova era.-.
-E sia! Farò schierare l’esercito domattina. Vi chiedo solo di essere al mio fianco.-, disse Aristarda Nera. Annuimmo, come un solo essere.
La notte prima della battaglia non dormimmo.
Maghera e io offrimmo sacrifici a Yneas e alla Dea Madre, pregando per la vittoria o per un lieto trapasso, come era uso. I soldati di Aristarda inneggiavano il Moripatres, il canto funebre. Erano tutti pronti. Non ci sarebbe stato un altro scontro.
La guerra sarebbe finita là, con la nostra morte o quella di Layla.
Aristarda scrutava l’orizzonte, una figura solitaria al margine del campo, nella notte scura.
-I Justicarii?-, chiese mentre osservava la piana e il campo di Calus e dei suoi uomini.
Erano molti più di noi. E senza l’aiuto di quei guerrieri, eravamo in grave inferiorità.
-Temo per l’esito di questa battaglia.-, mormorò Aristarda.
-È naturale, Imperatrix. Solo un folle non prova timore.-, dissi io.
Il vento soffiò su di noi. Freddo. L’Imperatrix mi guardò. Stupita.
-Ancora non riesco a credere a questa metamorfosi. È vero? Sei Janus?-, chiese.
Io sospirai. Non era facile rispondere. Non lo era davvero.
-Non è semplice darti una risposta, Imperatrix. Io so di avere… delle visioni. Momenti della vita di Janus. E poi c’è Maghera. Lei… Lei è la Fondatrice, la stessa che viaggiò con l’Esule di Licanes, e che ridiede linfa alla nostra gente.-, dissi infine.
-Ci voglio credere, o discepolo di Socrax. Voglio credere che questa possa essere la luce di una nuova alba, non l’avvento di una notte tenebrosa su tutto e tutti.-, mormorò Aristarda.
-Ora converrebbe cercare di riposare per le poche ore che ci separano dall’alba.-, dissi alzandomi. Mi diressi verso la tenda, dove Maghera già dormiva. Mi sdraiai al suo fianco e chiusi gli occhi, stranamente in pace, in attesa del domani.

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