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L’uccello di Schrödinger

By 22 Marzo 2019Dicembre 16th, 2019No Comments

 

Il mondo è un mistero.  L’umanità ha tentato nel corso dell’intera sua esistenza di decifrarne l’arcano, in molteplici modi: miti, religioni, filosofie, superstizioni, discipline esoteriche varie. L’epoca attuale cerca di sollevare il velo dell’inconoscibile mediante la scienza. Che, abbiamo appurato, è passibile di essere trasformata in tecnica e, cosa mirabile, funziona. Abbiamo creato macchine, meccanismi, composti chimici, medicine, che hanno moltiplicato per un fattore incredibilmente grande la nostra capacità di trasformare e dominare il mondo.

Il fatto che funzioni, però, non implica che riusciamo anche a comprenderla. A volte sappiamo descrivere un fenomeno, siamo anche in grado di manipolarlo, ma perché funzioni così, e che cosa significhino esattamente le formule matematiche che lo descrivono, non riusciamo a capirlo. Tantomeno a comprenderlo. E questo è un grosso problema. Enorme, in effetti. Ma non è di questo che vorrei parlare adesso: vorrei invece raccontare di come io sia arrivato a svelare uno dei tanti misteri che la scienza ci ha posto di fronte, svelamento che mi ha portato al massimo riconoscimento a cui possa aspirare un fisico sperimentale come me: il premio Nobel. Lo racconto qui esaustivamente e senza omissioni per la prima volta, perché la versione che è stata divulgata finora ufficialmente è stata, come dire… edulcorata.

 

Partiamo dall’inizio. Il mio campo di studio è la meccanica quantistica. Come probabilmente saprete, la meccanica quantistica è una teoria di eccezionale successo, una di quelle, o, più probabilmente, quella di cui abbiamo più conferme sperimentali: le equazioni che ci mette a disposizione sono incredibilmente precise nel predire i risultati dei nostri esperimenti; ed è grazie a ciò che possiamo avere, ad esempio, i semiconduttori, quindi tutti gli aggeggi elettronici di cui è piena la nostra vita, oltre a un sacco di altre cose. Però, quando cerchiamo di dare un’interpretazione, cioè una descrizione nel nostro linguaggio abituale, di quello che le formule matematiche enunciano, sorgono dei problemi. Esistono varie decine di interpretazioni diverse, spesso completamente differenti l’una dall’altra. Tutte coerenti col formalismo matematico, ma discordanti tra di loro. Anche quelli che sono considerati i massimi esponenti della nostra disciplina hanno dato interpretazioni diverse della teoria quantistica, e nessuno è mai riuscito a formularne una che fosse indiscutibilmente quella corretta.

 

Io, per molti anni, mi sono concentrato in particolare sul cosiddetto problema della misurazione che, in alcune delle interpretazioni sopra citate, è anche detto problema del “collasso della funzione d’onda”. So che, detta così, sembra una cosa difficile da capire, ma se mi seguite ancora per un  attimo vi accorgerete che, almeno approssimativamente, a grandi linee, non è poi così complicato.

La meccanica quantistica descrive il comportamento delle particelle elementari che costituiscono il mondo fisico (gli atomi e i loro costituenti: protoni, neutroni, elettroni, eccetera). Esistono diverse grandezze, chiamate di solito “osservabili”, che possiamo associare a tali particelle: per ora, come esempio, prendiamo in considerazione la posizione. La posizione di una particella (cioè, il punto dello spazio, il luogo, dove è la particella) è descritta da una equazione chiamata “equazione di Schrödinger” (che ha come incognita proprio la funzione d’onda il cui “collasso” ci pone tanti problemi). Tale equazione, in effetti, non ci dice dov’è esattamente una particella, ma solo la probabilità di trovarla in un certo posto in un certo momento: non c’è mai la certezza assoluta di dove sia, ad esempio, un elettrone, però se l’equazione di Schrödinger ci dice, ad esempio, che c’è il 50% di probabilità di trovarlo a determinate coordinate, sicuramente se effettueremo 100 misurazioni, in 50 casi lo troveremo proprio lì (semplificando molto il discorso, ovviamente). Il fatto curioso, e che è uno dei principali motivi per cui è così difficile dare un’interpretazione univoca della meccanica quantistica, è che l’equazione non ci dice che l’elettrone è in un posto oppure in un altro, ma che è in tutti i posti contemporaneamente; questo, finché non decidiamo di misurarne la posizione: in quel momento è come se l’elettrone decidesse improvvisamente di essere in un posto solo, e che scelga quel posto in base alla distribuzione di probabilità data dall’equazione. La funzione d’onda, cioè, collassa: mentre prima descriveva un insieme di luoghi dove era l’elettrone, nel momento in cui lo misuriamo l’elettrone “si localizza”, e la nostra funzione, che prima era “spalmata” un po’ dappertutto, appunto, collassa in un unico punto. Ripeto: prima della misurazione la particella è in tanti posti contemporaneamente (si dice che è in una “sovrapposizione” di stati); dopo, è in un unico posto. Questo stesso discorso si applica non solo alla posizione, ma a tutte le osservabili delle particelle quantistiche.

La cosa è alquanto strana. Tanto strana che il buon Schrödinger, avendo molti dubbi riguardo a come si dovrebbe interpretare la sua equazione, si inventò una specie di storiella per esemplificarla: il cosiddetto “paradosso del gatto di Schrödinger”. La racconto con le sue stesse parole (che copio e incollo da Wikipedia):

 

«Si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in modo parimenti probabile, nessuno; se l’evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. »

 

Se noi scriviamo l’equazione che descrive il sistema in questione (per “sistema” intendo il gatto, la scatola e tutto quello che c’è dentro), avremo che questa descrive una distribuzione di probabilità per cui la fiala di cianuro si è rotta (e il gatto è morto) e contemporaneamente la fiala di cianuro non si è rotta (e il gatto è vivo): cioè il sistema è in una sovrapposizione di stati, e il gatto è contemporaneamente vivo e morto. Solo nel momento in cui apriremo la scatola la funzione d’onda collasserà, e noi vedremo il gatto vivo oppure morto.

Ci sarebbe ancora moltissimo da dire sull’argomento, ma ve lo risparmio. Mi limito a dire che, tra le tante possibili spiegazioni della cosa, una, che mi sono riproposto di sottoporre a verifica sperimentale, afferma che è la coscienza a fare collassare la famosa funzione. Cioè: è nel momento in cui una coscienza (un essere senziente, come un essere umano) osserva un fenomeno (ad esempio, un gatto) che quel fenomeno cessa di essere in una sovrapposizione di stati e ne assume uno solo (vivo o morto).

Preparare una singola particella in modo che sia in una sovrapposizione di stati è relativamente semplice. Quello che è estremamente difficile, e che nessuno prima di me era riuscito a fare, è osservare una sovrapposizione in oggetti macroscopici (è per questo che nessuno ha mai visto un gatto contemporaneamente vivo e morto). Io sono riuscito a costruire un apparato che permette di avere degli oggetti macroscopici (cioè di dimensioni visibili) in sovrapposizione, in modo che possano essere, ad esempio, in più posti contemporaneamente. In questo modo mi proponevo di verificare quando la sovrapposizione svaniva; se era necessaria quindi l’osservazione da parte di un essere cosciente, oppure se gli oggetti cessavano di essere in stati sovrapposti per altri motivi.

Dopo aver costruito il mio apparato (le cui specifiche tecniche potete trovare negli articoli che ho pubblicato su riviste accademiche), però, ho fatto molte prove ma, sebbene fossi sicuro da un punto di vista teorico che gli oggetti fossero in sovrapposizione quantistica, non riuscivo mai ad osservarli in tale stato sovrapposto. Mi sono allora reso conto che se la soluzione dell’enigma è davvero che il “collasso della funzione d’onda” avviene a causa della coscienza allora, se anche gli oggetti erano in stati sovrapposti, nel momento stesso in cui cercavo di osservarli la funzione collassava e si localizzavano. E questo era il motivo per cui non potevo osservarne la sovrapposizione. Non sapevo però come fare a dimostrarlo.

E’ stato un colpo di fortuna che mi ha permesso finalmente di sperimentare la sovrapposizione. Potrei dire, più volgarmente, che è stato il culo a portarmi alla mia importantissima scoperta. Il culo, in tutti i sensi.

 

In particolare, la mia fortuna si è materializzata quando l’assistente di laboratorio con cui avevo collaborato fino a quel momento è stata contattata da una prestigiosa università estera, e ha deciso di accettarne la proposta e di andarsene. Si chiamava Sara. Una dottoranda di venticinque anni, mora, carnagione olivastra, un metro e sessantacinque di altezza, una terza di reggiseno, e il culo più bello che io avessi mai visto.

Io sono molto preso dal mio lavoro, che svolgo con passione. Ma ogni volta che vedevo arrivare Sara, con i suoi jeans attillatissimi, o con le sue cortissime minigonne, per un po’ non connettevo più, e il mio sguardo non si staccava dal suo didietro (se non, a volte, soprattutto d’estate quando indossava il camice con sotto solo il reggiseno e le mutandine, lasciandone generosamente slacciati diversi bottoni, mi balenavano davanti agli occhi le sue tette perfette…). Lei se ne accorgeva, ovviamente, e la cosa non sembrava dispiacerle, anzi, si divertiva a stuzzicarmi.  A volte scostava anche un po’, a bella posta, la scollatura, o si alzava il bordo del camice per permettermi di sbirciare di sotto (portava sempre solo perizomi molto, molto sottili…). La cosa diventava sempre più esplicita, e ci scherzavamo spesso, anche se per lei era evidentemente solo un gioco, e per me lo era solo a metà, e il desiderio di lei cominciava a essere una vera ossessione da cui non mi liberavo neanche a casa, dove mi ritrovavo continuamente, mio malgrado, a pensare a lei. Ma, nonostante le mie sempre più frequenti ed esplicite avances, non mi permetteva mai di andare oltre le parole e le sbirciate.

 

L’ultimo giorno in cui è venuta in laboratorio era il 15 di luglio. Faceva molto caldo, e lei indossava un abitino a fiori, sui toni del giallo, molto leggero e molto corto. Io ero immerso nei miei calcoli che stavo rivedendo per l’ennesima volta, cercando di capire dove stessi sbagliando. Ero di umore nero, non vedevo nessuna soluzione al problema. Come lei è entrata dalla porta, il mondo si è illuminato della stessa luce gialla del suo vestito. Il mio cervello ha smesso un istante di funzionare, mentre tra le gambe ho sentito premere contro alla patta. Era radiosa. Quando ho ricominciato a focalizzare l’attenzione ho visto il suo bellissimo sorriso, e uno sguardo strano che al momento non sono riuscito a decifrare. Poi ho abbassato lo sguardo, che è rimasto impigliato ai piccoli rigonfiamenti del vestito in corrispondenza dei capezzoli, senza che riuscissi a smuoverlo, per quanto mi dicessi che così facevo proprio la figura del vecchio porco (anche se speravo che lei pensasse solo porco…).

– Ehi, ti sei incantato? – chiese ridendo.

Normalmente avrei risposto con una battuta, ma quel giorno proprio non mi veniva. – No, no, scusami, ero soprappensiero…

– Eh certo, si dice così… – e si diresse nello spogliatoio dove di solito indossava il camice. Questa volta lasciò la porta socchiusa, e io la vidi mentre si sfilava il vestito. Lentamente, consapevole che la stavo guardando. Rimase per un po’ così, in piedi, dandomi le spalle (anche se la mia attenzione era focalizzata molto più in basso delle spalle…), con addosso solo un perizoma e un reggiseno di pizzo bianchi. Poi volse il volto verso di me, di trequarti, senza più sorridere, seria, con le labbra leggermente socchiuse. E disse: – Allora, vuoi rimanere lì, o entri?

Entrai. Si tolse il reggiseno; si sfilò le mutandine. Si girò, e lasciò che per parecchi secondi la contemplassi. Lei era bellissima e io ero incredibilmente eccitato, ma rimasi pietrificato, la mia testa girava a vuoto e non mi decidevo a muovermi da lì. Disse: – Oggi puoi avermi. Non chiedermi il perché. Però un’unica volta… E ho poco tempo, quindi niente preliminari. Te lo ripeto: puoi avermi un’unica volta… – si abbassò, piegandosi a novanta gradi e appoggiandosi a un tavolino. – Scegli tu – aggiunse, protendendo le braccia all’indietro, afferrandosi i  glutei con le mani, e allargandosi così entrambi i buchi…

 

La figa o il culo. Il culo o la figa. Il più antico e irrisolvibile dilemma che l’uomo abbia dovuto affrontare dall’alba dei tempi…

Come potevo decidermi?

Ed è stato qui (spinto dalla necessità, si potrebbe dire) che ho avuto il colpo di genio. Non la figa O il culo, bensì la figa E il culo…

 

Mi spogliai anch’io completamente e più velocemente che potei, la presi per una mano e la condussi tra i due elettrodi (va be’, non sono proprio elettrodi, ma è tanto per capirci) dell’apparato per la sovrapposizione quantistica macroscopica. Le dissi di piegarsi ancora come prima, e lo azionai.

Ho diretto il mio uccello tra le sue cosce, e l’ho infilato…

Il piacere mi è esploso nella testa: ho cominciato a stantuffarlo dentro… dentro a che cosa non lo so: le sensazioni multiple che mi afferrarono, il godimento assoluto che queste provocarono istantaneamente, la sensazione di essere praticamente ubiquo, immerso in un oceano di piacere, hanno tolto qualsiasi traccia di razionalità dalla mia mente; ero un animale avvolto nella beatitudine e dalla frenesia di possederla; un godimento tale da risvegliare in me istinti primordiali e bestiali; non ero più un essere senziente, non ero più neanche un “io”, ero totalmente immedesimato nell’atto sessuale; non ero più un uomo che chiavava, ero il chiavare stesso.

La sensazione di piacere che provai è indescrivibile. Mi sentivo l’uccello avvolto nell’umidità soffice della figa, e contemporaneamente costretto nelle profondità anguste del culo. Anche lei, mi disse poi, stava provando la più incredibile delle sensazioni: non era come una doppia penetrazione, era qualcosa di diverso e totalizzante, come se l’intero universo la stesse penetrando, e non nella figa o nel culo, ma nell’intero suo essere… qualcosa di ineffabile, appunto.

Non so esattamente quanto durò, so solo che a un certo punto ebbi l’orgasmo più incredibile della mia vita, sborrai come se stessi riversando tutto me stesso nelle viscere vive della Terra, come se stessi ingravidando l’intero cosmo. E, come venni, riacquistai anche il raziocinio. E in quel momento la funzione d’onda collassò, e vidi il mio cazzo nella sua figa.

 

Il resto, come si suol dire, è storia. Dopo questo episodio ho compreso come doveva avvenire l’osservazione per poter mantenere la sovrapposizione: attraverso stati di coscienza alterati che, registrati mediante sofisticate tecniche di imaging cerebrale, potevano testimoniare la sovrapposizione. Altrimenti, anche registrando gli eventi con apparecchiature automatiche, nel momento in cui la coscienza di un osservatore entra in gioco il mondo riprende a mostrarsi inevitabilmente in un unico suo aspetto, in una unica storia coerente. Ma per i dettagli tecnici vi rimando ancora alle mie pubblicazioni sulle riviste accademiche.

Questa però è la vera storia di come mi è venuta in mente quella che è stata definita “l’intuizione più geniale dell’intera storia della scienza”. Questione di culo.

 

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