Skip to main content

Parco degli Aranci

By 2 Gennaio 2005Dicembre 16th, 2019No Comments

Sarà che stasera indosso una gonna, a maglie più larghe perché s’intraveda, l’infinito bisogno d’essere certa, che una femmina è femmina quando percepisce nel ventre, la consistenza e i contorni del mondo che entra, nell’unico senso adatto a sentire, l’anima dentro d’ogni essere e cosa.

Sarà che cammino in faccia al tramonto, d’una Roma assopita distratta e deserta, sul parapetto mi mostro ed allargo le gambe, per accogliere il mondo e goderne bellezza, per sentire il contorno dell’ombra dei pini, e dare una forma al cielo che rosso, mi modella le pieghe del sesso che offro, in un rapporto di carne senza uomo né donna. Perché non sono gli occhi che danno misura, né il naso l’odore d’essenza, né le mani il concetto di forza, come quando bambina assaggiavo ogni cosa, sentivo le forme attraverso la bocca, di qualsiasi oggetto non bastavano gli occhi, ma il palato la lingua per limitarne i contorni, come ora da grande non serve la vista, per dare il profilo ad un uomo che incontro, quando sola per strada mi lascio rapire, per sentirlo più dentro quando chiudo le labbra, per sentirne il vigore l’oggetto la forma.

M’allargo e mi chiudo per non perdere nulla, ogni dettaglio che dà conoscenza, la convinzione che sono parte del mondo, che m’entra e riempie questo ventre scomposto, come bocche di pesce che restano ferme, in attesa di un branco che viene al contrario, si saziano e sfamano la voglia infinita, d’ingoiare ogni forma della stessa natura, di acqua di mare di carne, per espellere scarti e trattenere il bisogno, nel ciclo perenne che arricchisce la vita.

Chissà che direbbe chiunque passasse, che ha visto una donna farsi scopare, da questo imbrunire che a strati colora, le cupole e i tetti d’una Roma che amo, che sento e mi fotte in mezzo alle cosce, in un andirivieni di sensazioni che a pelle, mi stipano il ventre e mi trapassano il cuore, come se non avessi più fondo e l’anima tutta fosse fatta di vuoto. Sono gatti ed antenne, sono vicoli e piazze, che a forma di sesso mi stipano il collo, sono chiome di pini, cupole e croci, che s’accalcano maschi e mi danno misura, di quanto i miei occhi si fermerebbero prima, senza avvertire che c’è un cuore che batte, in ogni cosa che vedo, in ogni maschio che fotte.

A volte mi chiedo quanto siano poveri gli uomini, che amano una donna dall’odore e dal tatto, senza poterla sentire di dentro, comprenderla tutta e bagnarla d’umore, in un orgasmo perenne che dura una vita, come un grembo di donna recipiente e materno. Ecco ci sono, mi sento madre del mondo, partorisco ogni cosa che m’entra e trattengo, mentre gli uomini tutti che mezzo che hanno, per sentire l’amore sentirselo dentro?

Gli rimangono i sensi per nutrire la brama, la voglia infinita di farsi una donna, e farsela tutta col sesso e la bocca, e farsela in piedi o carponi sul letto, giudicando la forma l’obbedienza del culo, dal dietro che offre mentre davanti si trucca, come se s’abbellisse per il proprio bisogno, la faccia i capelli mentre si guarda, e lasciasse a quell’uomo la parte più sporca.

Tra poco riprendo la via di casa, sazia respiro e gonfio il mio seno, contenta davvero che anche stasera, ho goduto al tramonto su un parapetto di Roma, spargendo le tracce del mio orgasmo infinito, sulla terra che nutro e feconda l’istinto, come polline e ceneri trasportate dal vento, che si posano sopra i tetti di case, d’altre femmine ora accovacciate nei letti, aperte alla brama di un uomo di carne, mentre chiedono amore e lo reclamano invano. Se solo sapessero cosa si prova, sentirsi l’anima in mezzo le gambe, e spalancarla al bisogno dell’immenso che preme, dello spazio e del tempo che si fanno misura.

Oddio che darei per questo mondo che sento! Ogni volta a quest’ora mi strappa l’istinto, di dipingermi il viso gli occhi le labbra, con i colori rossastri di questo tramonto. Ringrazio il cielo di portare una gonna, sentire la brezza a contatto di pelle, che sale dal fiume che viene da Ostia, e leggera m’asciuga la voglia che imperla, le pieghe a conchiglia che non copro di nulla.

Perché una femmina è femmina se si lascia scopare, da tutto l’intorno che le preme nel mezzo, perché il mondo è fatto di cose, di eventi e persone, divise nei ruoli di femmine e maschi, ma non è il sesso che decide la parte. Come farebbe allora il vento ad essere maschio? Come farebbe il fiume ad entrarmi nel ventre? E i tetti le case le cupole gialle, i gatti le croci le chiome dei pini?

Leave a Reply