
Procediamo nella foresta da giorni, senza un momento di sosta, lungo sentieri che gli elfi hanno percorso per secoli. Risaliamo montagne che non avevamo mai scorto, scendiamo lungo valli di cui ignoriamo il nome, i riflessi delle due lune occhieggiano sulle onde di laghi che non compaiono tra le strofe delle nostre canzoni. Ma non ci preoccupiamo. Non possiamo perderci: i collari ci uniscono all’elfa che ci precede e a quella che ci segue, i raggi di sole che filtrano dai rami strappano luccichii dai diamanti incastonati sulle catene, e gli orchi ci scortano a cavallo.
Solo le future spose di Krakh’thul possono vantare un onore simile. Solo noi possiamo.
Di notte i dignitari orchi ci circondano e precedono con torce per tenere lontani i mostri che dicono vivano nelle ombre. Ma non ne esistono nella foresta, e se esistessero non ci farebbero nulla: neppure un insetto oserebbe posarsi sul nostro corpo nudo. Siamo elfe, siamo perfette, e niente ha la sfrontatezza di toccarci con l’intenzione di farci del male.
Siamo state cresciute ad Aeloria con questo futuro già scritto per noi, lontano da ogni fatica e dispiacere, divise dai nostri coetanei che non hanno avuto la nostra stessa fortuna di essere state scelte ancora prima della nascita. I nostri genitori e i Saggi erano in lacrime mentre i dignitari orchi ci portavano fuori dal nostro villaggio, incapaci di contenere l’orgoglio per il fulgido destino che ci attende.
Il nostro sposalizio assicurerà ancora la pace e la prosperità al nostro povero villaggio e ai nostri signori orchi. La nostra fortuna sarà la fortuna di tutti.
Giungiamo al termine della foresta eterna, prati dall’erba alta si estendono nella pianura, accarezzati dalla brezza e dal volo delle fatine. Un filo di fumo nero si alza all’orizzonte, da costruzioni che si trovano appoggiate all’orizzonte. “Zargrath”, sussurriamo. Non possiamo credere di essere davvero in vista della città più importante al mondo. Gli orchi impongono il silenzio. Il sentiero fluisce in una strada larga che serpeggia nella pianura. I piedi fanno male, ci sanguinano, ma non possiamo farci attendere: manca un anno al nostro matrimonio, e non abbiamo tempo da perdere.
Pietre e legni strappati dalla terra formano edifici alti quanto alberi, strade polverose piene di fuliggine si spargono e dimezzano come affluenti disseccati. Creature abominevoli, deformi, dalla pelle verrucosa verde e gonfia – le orchesse, ci rendiamo conto – ci guardano dagli incroci, ci indicano, ci appellano con termini come “troie”. Ci guardiamo l’un l’altra, ci chiediamo cosa significhi quella parola, mentre i dignitari le disperdono gridando loro di sparire. Non vogliono che la nostra sensibilità sia toccata da quella vista atroce. Disperdono anche gruppi di giovani orchi, che, da dietro gli angoli, compaiono con i calzoni abbassati. Siamo confuse, ci chiediamo cosa possa essere quello strano dito che hanno al posto dell’orchidea di rugiada in mezzo alle gambe.
Una torre sovrasta gli edifici di Zargrath, alta, grigia. Ci stiamo dirigendo verso di essa. “Il tempio di Krakh’thul,” proferiscono i dignitari ridendo. Nei nostri cuori non c’è letizia a quella vista. L’aria è pesante per il fumo nero che esce dalla cima della torre, viene preso dal vento e spinto nella direzione da cui proveniamo. “Il matrimonio di quest’anno si è già concluso,” commentano gli orchi, mesti. Hanno perso la possibilità di festeggiare lo sposalizio. Si rifaranno l’anno prossimo, si promettono. Si rifaranno con le spose di Aeloria.
Ci conducono lungo una stretta strada, i collari stringono la carne dei nostri colli, le nostre impronte sono rosse. Siamo elfe, ma non siamo mai state così stanche. Marciamo attraverso un prato con l’erba bassa e coperta di fuliggine che circonda la torre, strade partono dall’alto edificio come dita aperte di due mani, ognuna verso una direzione differente: accanto a ciascuna si erge un monolite con una scritta nello sgraziato alfabeto orchesco a noi incomprensibile. Il monolite che getta la sua ombra su di noi ha le stesse vene azzurre che solcano il menhir al centro di Aeloria. Tra di noi si diffonde la voce che possa essere la parte mancante, a cui piangono di nascosto i nostri saggi. I nostri signori ci ordinano di tacere.
Ci conducono all’interno della torre di Krakh’thul, nel buio al suo interno, dove nessun orpello, nessuno svolazzo di colore sembra aver diritto di esistere. Un’unica sala circolare grande quanto la più vasta radura che abbiamo mai visto si apre attorno a noi, può ospitarci tutte tre volte. Orchi neri di fuliggine caricano carriole spalando ciò che rimane del fuoco in un cerchio di pietre al suo centro. Una scala dai gradini lucidi e scavati dall’uso si arrampica accanto ad un palco con una sedia di legno imbottita. Dietro riposa un gong. Alziamo i nostri capi: più in alto del più sacro albero della foresta, un foro di cielo compare tra i muri sporchi di fuliggine.
Gli orchi al lavoro ci strappano dai nostri pensieri, ridono, si afferrano il cavallo dei pantaloni e vi lasciano impronte nere. “Che belle fighe, ci sarà da divertirsi…”. I nostri accompagnatori urlano loro di tacere, ma si zittiscono loro per primi quando un nuovo gruppo di orchi fala sua comparsa.
Indossano abiti lunghi, con gioielli che luccicano nella poca luce gettata dalle torce appese ai muri. Tutti si voltano a guardarli, il nostro brusio si smorza. Vediamo un anziano avanzare, appoggiato ad un bastone che sostiene un globo luminoso, seguito da due ali di orchi anche loro vestiti magnificamente. Non parla, si avvicina a noi, ci osserva, ci studia come la civetta studia il topolino che corre nel sottobosco. Sentiamo disagio quando afferra i nostri seni, anche di più quando gira attorno a noi e stringe i nostri glutei. Sorride, denti gialli scheggiati compaiono dalle labbra screpolate. “Aeloria ci ha sempre fornito ottime spose,” commenta, poi si allontana da noi. “Krakh’thul sarà soddisfatto.” Udiamo una risata propagarsi tra gli orchi, ma subito si smorza al colpo del bastone dell’anziano sul pavimento. La luce azzurra del globo diventa quella del sole appoggiato alle montagne. “Adesso portatele nel dormitorio: domani inizieremo a prepararle per Krakh’thul.”
Percepiamo un senso di gelo posarsi sull’eccitazione di essere le spose di una divinità, ci lanciamo occhiate l’una con l’altra in una torre che puzza di fumo, con il pavimento bagnato dal sangue dei nostri piedi.
La notte non è la stessa che potevamo considerare nostra amica nella foresta. Grida e risate sostituiscono il bubolare del gufo e il verso del capriolo tra i boschi. Muri di pietre rapite dalle montagne che piangono il loro esilio sostituiscono le pareti di legno che sussurrano le canzoni che hanno ascoltato per secoli.
Non riusciamo a prendere sonno anche se siamo distrutte dal viaggio. Le nostre membra sfinite giacciono su pagliericci coperti da lenzuola. Piangiamo per l’emozione, ma non sappiamo definire quale. Ripensiamo alla nostra casa, ai nostri genitori, alla nostra infanzia fortunata. Ci stringiamo l’una con l’altra, ci ricordiamo che siamo qui per la pace e la prosperità di Aeloria.
Ma lo stesso bagnamo i nostri giacigli con le lacrime.
Ci vengono a chiamare la mattina, dobbiamo iniziare il nostro percorso di preparazione allo sposalizio. Quattro orchi armati di lance ci scortano lungo il prato, centinaia di orchi sono nelle strade a guardarci, urlano parole che non capiamo. Altri armati li trattengono, impediscono loro di invadere il terreno del tempio. Scoppia un tafferuglio, grida di dolore, le guardie ci ordinano di entrare nella torre.
Giungiamo nella sala principale, l’odore acre del fumo invade il nostro olfatto. Decine di sacerdoti sono riuniti in gruppi di due, distribuiti per tutto il tempio. Ordinano a ognuna di noi di raggiungerne una coppia. Ci legano le mani dietro la schiena con una corda, una caviglia viene chiusa in un anello la cui catena è fissata al pavimento. “È per la vostra sicurezza,” ci assicurano. Solleviamo il busto, le gambe discostate l’una dall’altra, la testa alta, i capelli biondi che scendono fino ai lombari, i seni spinti in fuori, come ci hanno insegnato prima di partire; i sacerdoti ci contemplano, girano attorno a noi, ammirano la nostra perfezione.
Sappiamo perché la loro divinità vuole come mogli elfe e non orchesse.
L’Anziano è seduto sul palchetto che sovrasta tutta la sala. Batte il suo bastone, il brusio nel tempio scompare. “Oggi inizia il vostro cammino verso l’apprendimento di tutte le tecniche per soddisfare il vostro futuro sposo, il terribile ma giusto Krakh’thul. Potrà apparirvi come un anno di sofferenze e difficoltà, ma vi ricordo che avete avuto la possibilità di essere le mogli di un dio, che donerà ricchezze e salute al vostro villaggio.”
Deglutiamo, i nostri occhi si muovono attorno a noi alla velocità del nostro cuore; gli anni trascorsi sussurrandoci l’una con l’altra la fortuna che ci era toccata per essere state scelte sembrano appartenere a elfe che non conosciamo. I sacerdoti si avvicinano a noi, ci toccano: sulle nostre pelli le loro dita sono fredde, rugose, sono come le cortecce degli alberi. Alberi morti. I loro fiati appestano l’aria che respiriamo, i loro abiti puzzano anche in questo tempio scuro e dall’aria densa per il fumo. Incubi che infestavano le nostre notti dopo le storie di troll e goblin raccontate attorno ai fuochi affiorano dalle nebbie della nostra memoria.
Ci irrigidiamo quando le mani degli orchi scivolano sui nostri seni, li stringono, li sollevano, le loro mani bitorzolute sulla pelle candida delle nostre forme, la punta delle lingue che guizzano sulle labbra screpolate. I nostri nasi sono invasi da un odore forte, pungente, vomitevole, che non abbiamo mai percepito prima. Uno dei due sacerdoti si sposta dietro di noi, le sue mani afferrano i nostri glutei muscolosi, le dita li spremono, li aprono.
Ogni pensiero di grandezza, ogni sogno di gloria divina si dissolve come la rugiada su un masso sotto il sole. Ci scuotiamo dalle loro prese, i polsi sfregano contro la fune, l’anello alla caviglia ci trattiene. Urliamo, imploriamo. Gli orchi sogghignano, “Non abbiamo ancora nemmeno cominciato.” Ci scuotiamo ancora più, lottiamo inutilmente quando le loro dita si appoggiano sulla nostra orchidea di rugiada, ruvide sui nostri petali, urliamo e ci dimeniamo quando violano il nostro calice segreto. Ridono, gli orchi davanti a noi, ridono con le loro tozze dita dentro il nostro corpo. Le muovono, sono qualcosa che non deve essere lì dentro. Abbassano i loro calzoni, il dito che abbiamo visto sugli inguini dei giovani cresce tra le loro gambe, un grosso stame rugoso che termina in un’antera mostruosa, rossa come il sangue, bulbosa. Da un taglio al centro lacrima una goccia trasparente.
Urliamo, cerchiamo di fuggire, ma l’orco alle nostre spalle ci blocca tenendoci per le anche. Il mostro davanti punta la sua antera contro la nostra orchidea di rugiada ed entra dentro di noi. “Brave, troie,” sogghignano gli orchi. I nostri occhi si fanno pieni di lacrime, i nostri seni sono scossi dai colpi di pianto. Le nostre grida sovrastano i gemiti che echeggiano nella torre.
I nostri pianti tengono all’esterno del dormitorio gli strilli notturni della città. Siamo gettate sui letti, le nostre lacrime bagnano i giacigli. Cos’è successo, ci chiediamo. Siamo state scelte per essere le spose di un dio, cresciute inviolate per essere accolte pure come la neve sulle cime delle montagne… È sbagliato… è sbagliato che le elfe siano toccate così dagli orchi.
La nostra mente si affolla di scene di vite che non abbiamo mai vissuto: gli alberi che sfrecciano verso di noi mentre ci lanciamo a perdifiato nella foresta, nascoste tra i gigli ad ascoltare i segreti sussurrati dalle fate, aggrappate ai cervi che galoppano fino in cima ai monti del nord, a ridere gettandoci schizzi nelle acque azzurre del Lago Placido, con i ragazzi rannicchiati tra i giunchi, i nostri corpi nudi che si riflettono nelle loro pupille dilatate, umide di amore… le nostre e le loro labbra che si sfiorano…
Ma ora siamo state usate dagli orchi. Le nostre grida di dolore si fanno ancora più forti, sembrano rompere i nostri polmoni, squarciare i nostri cuori. Il buio della notte nasconde i nostri dolori, nessuno ci sente. Il nostro sacrificio di portare prosperità e pace al nostro villaggio è stato violato, la nostra vita non ha più alcun senso.
Barcolliamo spinte dagli orchi fino alla torre fuligginosa, nel salone circolare dove abbiamo perso ogni diritto di essere le spose di Krakh’thul. Non abbiamo nessuna resistenza da opporre alla chiusura dell’anello sulla nostra caviglia, le nostre braccia pesano come piume quando vengono sollevate dietro la schiena e legate. Le lacrime solcano il nostro volto, i seni sono caldi per il pianto che a stento tratteniamo.
Coppie di orchi sono accanto a noi, l’Anziano cammina curvo, appoggiato al bastone con il globo luminoso. Ci guarda. Contempla i nostri corpi, i nostri seni, le curve, i nostri capelli del colore dei raggi del sole. “Abbiamo dovuto farlo,” pronuncia, la sua voce che rimbomba tra le mura della torre. “Il possente dio Krakh’thul vuole che le sue spose elfe giungano qui vergini, immacolate, senza mai essere state compagne di un elfo o un’altra creatura. Venite cresciute lontane dal dolore e dalla fatica, siete perfette sotto ogni aspetto fisico, ma presentarvi a lui prive di esperienza sarebbe una follia.” L’anziano orco sale le scale che lo portano al suo seggio rialzato. Si appoggia alla balaustra, il bastone ancora in mano, il volto illuminato dalla luce cangiante del globo. “Krakh’thul è un dio possente e buono, prodigo con chi si dimostra più meritevole, ricompensando il suo popolo. Ma ci sono già migliaia di spose attorno a lui, nel regno di Narg’Vul, ognuna di queste con anni di conoscenze in più rispetto a voi.”
Il silenzio regna nella sala, solo il suono del nostro respiro affannoso è udibile tra queste mura nere.
L’anziano riprende a parlare, la sua voce si fa più bassa. “È nostro dovere accompagnare voi, elfe vergini e prive di esperienza, al livello delle altre spose di Krakh’thul, cosicché anche il vostro villaggio possa godere della magnanimità del dio. Il nostro compito, quello dei sacerdoti, sarà difficile, richiederà molto impegno e dolore, come potrete leggere sulle espressioni dei loro volti.”
Un brusio si alza dagli orchi attorno a noi. Li sentiamo commentare la cosa, ammettere con felicità che sono pronti a sacrificarsi per il nostro bene, per quello di Aeloria.
Tiriamo su con il naso, sbattiamo le palpebre per poter asciugare gli occhi. Il nostro petto si libera dall’oscura oppressione: ci eravamo sbagliate, non avevamo capito cosa stesse accadendo davvero…Loro ci stanno aiutando, impiegano il loro tempo e le loro forze per renderci migliori. Si sacrificano, non meno di noi.
“Ricordate: ogni vostra sofferenza, ogni nostra sofferenza, qui migliorerà la vita di chi è nel vostro villaggio.”
Gli orchi attorno a noi annuiscono, sorridono e annuiscono. Sono felici per la prosperità che porteremo ad Aeloria. Non possiamo essere da meno.
Ci mettono una mano sulla testa, due ci trattengono per i fianchi. “Inchinati avanti,” ordina l’orco. Le sue labbra foruncolose si distendono in un ghigno. “A Krakh’thul piace molto quello che stiamo per farti. E non preoccuparti per la mia fatica e il dolore che proverò.” Non possiamo esimerci dall’imparare qualcosa che il nostro munifico sposo apprezza: spingiamo avanti il busto, i nostri seni dondolano sotto di noi, i nostri glutei si aprono. Davanti al nostro viso compaiono gli stami rugosi verdi che gli orchi hanno tra le gambe.
“Apri la bocca, troia,” ordina l’orco. Ancora quel termine, cosa significa?
Facciamo come richiesto. L’antera rossa si appoggia sulle nostre labbra, il nostro fiato si mozza, un senso di disgusto stringe il nostro petto quando quel grosso dito entra nella nostra bocca. L’orco mette una mano dietro la nostra nuca e l’altra sotto il nostro mento e ripete quanto ha fatto ieri nell’orchidea di rugiada. Tratteniamo a stento il vomito, un suono viscido proviene dalle nostre fauci, la saliva ci strozza o cola dalle labbra. Stringiamo gli occhi: lo facciamo per i nostri cari ad Aeloria.
L’orco alle nostre spalle ci tiene per le anche, sentiamo qualcosa di caldo scivolare tra i nostri glutei, appoggiarsi al nostro anello celato. L’orco davanti estrae lo stame rugoso in una cascata di saliva dalla nostra bocca. Ansimiamo. Siamo confuse, non… L’anello celato si apre, dilata, si spezza, è una scudisciata di dolore che attraversa il nostro corpo, ci fa schizzare lacrime dagli occhi come se possano spegnere il fuoco che si divampa tra i nostri glutei. Strilliamo. I nostri capelli d’oro vengono afferrati dall’orco, tirati, e la nostra testa con la bocca spalancata in un urlo muto. “Questo è per la gloria di Aeloria, troia,” sussurra il mostro. Quello davanti torna a riempirci le labbra, a stento respiriamo per il naso tappato.
Piangiamo tutta la notte, ma silenziosamente. Ora che siamo consce che questo servirà ad essere le spose migliori di Krakh’thul, non vogliamo che si accorga che stiamo soffrendo. Siamo gettate sul pagliericcio di pancia, incapaci di trovare un’altra posizione, e anche così non riusciamo ad abbandonarci all’oblio del sonno per il dolore. E per la vergogna di aver vomitato quando l’orco davanti a noi ha afferrato la nostra testa e, mentre gemeva lui stesso per il dolore, dal suo dito ha spruzzato qualcosa di disgustoso nella nostra gola. L’immagine del nostro vomito sul sacro pavimento del tempio ci perseguiterà per il resto della nostra esistenza. Non ricordiamo molto, se non che, invece di punirci per l’empietà, gli orchi sono scoppiati in grasse risate.
Osserviamo l’Anziano zoppicare tra di noi, appoggiato al suo bastone dal globo luminoso. Ci studia, contempla i nostri corpi nudi, un sorriso mesto compare sul suo volto. “Ci giunge voce questa notte che il villaggio di Colle Niveo è stato colpito da una sciagura…”
Ci guardiamo l’una l’altra, non tratteniamo un brusio. Qualcuna di noi aveva mai sentito parlare di Colle Niveo? Al nostro villaggio era mai stato nominato? Forse… forse una volta, i Saggi avevano accennato a qualcosa con un nome simile… sì…
Siamo riportate alla realtà dal suono del bastone che picchia contro il pavimento in sasso della torre. “A Colle Niveo vivono elfi ribelli, che non hanno voluto accettare la benevolenza di Krakh’thul, rifiutandosi di scegliere spose da donare al nostro munifico dio tra le loro più belle fanciulle.” L’Anziano si ferma, ci guarda ma non ha lo sguardo di ammirazione di pochi attimi fa, sostituito da uno più duro. “La protezione di Krakh’thul non è scesa sul loro villaggio, e un’alluvione, mandata da qualche divinità locale, o qualcuna che loro stessi hanno la follia di venerare, ha colpito la comunità e causato morte e distruzione.”
Nei nostri cuori scende un senso di angoscia, nostri simili sono stati colpiti da una calamità. Un nuovo brusio si alza tra di noi, subito interrotto dallo sbattere del bastone sul pavimento. Il globo si irrossisce, lunghe ombre si formano sul volto dell’Anziano. “Non dovete riservare compassione per loro: i nostri dignitari hanno più volte raggiunto il villaggio in passato e parlato con i loro Saggi, spiegando loro che stavano sbagliando, che solo onorando lo sposalizio celeste di Krakh’thul avrebbero avuto una vita serena e prospera, ma hanno deciso di non accettare e ora ne pagano le conseguenze.” La luce del globo perde intensità. “Si sono rovinati da soli, e non meritano altro che disprezzo e odio. Non come il vostro villaggio o quelli che hanno riconosciuto che solo accettando Krakh’thul possono assicurarsi la tranquillità per loro e per le generazioni successive.”
Il nostro petto è gonfio di orgoglio, le nostre schiene sono più dritte. Il nostro desiderio di essere le migliori spose del dio che protegge Aeloria si accresce. Accogliamo con felicità la coppia di orchi che raggiunge ognuna di noi.
Il dito con la punta rossa è già fuori dai calzoni. “Inginocchiati, troia, che oggi facciamo qualcosa che Krakh’thul ama molto.”
“Te lo spiegheremo per bene,” sogghigna l’altro, anche lui pronto con lo stame verde e rugoso, da cui cola una goccia trasparente.
Tutto, per Krakh’thul! Tutto, per Aeloria!
Usciamo dal dormitorio con il sole che splende appena sopra i tetti di Zargrath, i raggi che accarezzano l’erba e illuminano il menhir che ci ricorda Aeloria. Da sopra il muro di cinta compaiono le teste di alcuni giovani orchi, che cercano di scavalcare. “Siete delle fighe pazzesche!” urlano, “Vogliamo scoparvi tutte!” Le nostre guardie scattano come cervi alla vista del lupo, ma vanno nella direzione opposta. Abbandonano le loro lance, prendono dei sassi dal prato e li scagliano contro i ragazzi. “Andatevene, bastardi! Non osate toccarle! Tornate a spingere i carretti!”
Ci fermiamo, voltiamo il viso in direzione dello scontro: i giovani orchi che non avevano scavalcato fuggono nella strada, gli altri si affrettano a superare il muro per trovare salvezza. Uno viene colpito alla schiena e lancia un urlo, un altro è preso alla testa e cade dall’altra parte della barriera. Grida si alzano dalla via.
Le guardie tornano da noi, raccolgono le loro lance dal prato e riprendono a scortarci fino alla torre.
È la terza volta, questo mese, che succede. Abbiamo perso il conto di quante volte sia accaduto, da quando siamo qui.
Siamo sdraiate a terra su un fianco. Le braccia sono legate dietro la schiena, un seno si congela sul pavimento in pietra. È sempre freddo in questa torre, ci chiediamo perché non accendano mai il grande fuoco al centro del tempio. La nostra gamba non incatenata è appoggiata sulla spalla di un orco, il suo stame si muove dentro la nostra orchidea di rugiada. Abbiamo sentito gli orchi chiamarlo “cazzo”, ma pensiamo sia un nome segreto, da sacerdote, e non ci piace molto come suona.
L’orco anziano cammina tra di noi, il bastone che risuona tra i muri ad ogni colpo a terra, contempla i nostri corpi, sorride ai volti doloranti dei suoi simili nel renderci le migliori spose di Krakh’thul. Porta la mano libera dietro la schiena. “Questa mattina è accaduto di nuovo il tentativo dei nostri giovani di assalirvi.” Fa qualche passo senza pronunciare una parola, poi ricomincia, la voce più stentorea. “Ormai da tempo i teologi hanno compreso che la rabbia degli dèi è causata da uno squilibrio nel Thaumicorin, il flusso magico che fa da ponte tra il nostro mondo mortale e i regni celesti. Gli dèi, guidati da Krakh’thul, crearono un cosmo perfetto, privo di diseguaglianze, dove gli orchi, i nani, i crillidi e altre razze inferiori vivevano in pace tra di loro.” Si ferma e solleva lo sguardo verso il foro circolare alla sommità della torre. L’unico suono è quello viscido che la nostra orchidea di rugiada produce sotto la spinta continua degli stami. Quando torna a parlare, l’Anziano sembra stanco. “Poi apparvero gli elfi.” Ci guarda, il suo volto rugoso e verde ha perso ogni espressione di piacere. “Non si sa da dove siete arrivati, ma avete portato il più grande affronto verso le divinità.”
Tratteniamo il fiato, solleviamo il capo per vedere l’anziano, il cuore ci batte all’impazzata, il fiato ci manca. Cosa… cosa abbiamo fatto…
Le rughe sul volto dell’Anziano si fanno più marcate, i suoi occhi si stringono. “Avete portato la bellezza. E non una semplice bellezza, ma la perfezione.” I suoi occhi si posano sui nostri grossi seni, sui nostri capelli biondi, sulle nostre vite strette, sui nostri addominali. Una smorfia arriccia le sue labbra. “Il cosmo era in uno stato di equilibrio, piccole increspature turbavano il Thaumicorin, nulla che infastidisse i signori celesti, ma la perfezione portata da voi elfi provocò onde di disturbo, sconvolgimenti nella pace: il mondo cambiò, tra le razze sorse il malcontento, odio, tumulti. Scoppiarono le guerre, migliaia di esseri persero la vita.”
Le antere degli orchi continuano a muoversi dentro di noi, qualcuno si blocca, ansima, emette un gemito di dolore ed estrae. Il liquido colloso esce dalla nostra orchidea di rugiada, bagna i nostri petali, scivola sulle nostre cosce. L’altro orco ne raccoglie un po’ con due dita e ce la pone davanti alla bocca. “Leccala, troia. Nasconde il vostro alito profumato.” Abbiamo il cuore stretto dall’imbarazzo di quello che la nostra razza ha causato. Di quello che noi abbiamo portato al mondo. Lappiamo: il sapore ha smesso di essere disgustoso mesi fa, ora è solo il liquido che ci permette di avvicinarci più pure all’ara dello sposalizio celeste.
L’Anziano si aggrappa al suo bastone, il globo brilla di un rosso freddo. “Gli dèi sono infuriati con noi, e il comportamento deplorevole di giovani orchi ne è la dimostrazione più palese. Solo il vostro matrimonio può portare un momentaneo acquietamento tra i Signori Celesti…”
Finiamo di lappare. Il nettare di orco a stento passa nella nostra gola chiusa dalla vergogna. Non possiamo che espiare le nostre colpe. Le colpe della nostra razza.
Ci giriamo nel nostro letto di paglia, il dormitorio è ancora più tetro della prima notte che siamo state portate qui. Nessuna dorme, il pensiero che la nostra razza possa aver fatto infuriare le divinità ci strazia. Abbiamo passato l’infanzia ignare di questo, inconsapevoli che la nostra bellezza potesse essere…
Loro si alzano. All’improvviso. C’è uno strappo con noi elfe, lo sentiamo come se fosse un dolore fisico. Loro si siedono sui loro giacigli, i loro capelli gialli che strappano riflessi alla luce delle due lune in cielo, il loro viso che non è sbiancato dalla coscienza di cosa abbiamo causato. Loro parlano. “Tutto questo è una follia.”
Un brivido corre sulla nostra schiena, stringe i nostri stomaci a quelle parole. Indietreggiamo da loro, dalla loro arroganza. I muri ci impediscono di sfuggire alla loro presunzione. Le imploriamo di non parlare.
Loro non lo fanno. “La nostra bellezza non è un empietà, anche noi siamo stati creati dagli dèi.” Loro bestemmiano. “Gli orchi ci stanno ingannando, nulla di quanto dicono ha senso.”
Noi boccheggiamo di fronte a queste blasfemie. Noi siamo elfe, non possiamo comprendere quanto hanno fatto gli dèi, quanto hanno compreso gli orchi. Noi le supplichiamo di non far infuriare ulteriormente Krakh’thul, il nostro futuro sposo.
Loro non lo fanno. “Se Krakh’thul odia gli elfi, perché ci vuole come spose?” Loro sputano sugli dèi. “E come possiamo raggiungerlo al matrimonio? Lui dov’è?”
Loro sono pazze, noi l’abbiamo capito. Imploriamo loro di smettere, dimostriamo loro che sono nel torto. Loro si puliscono il labbro spaccato, guardano il sangue sul dorso della loro mano e poi noi. “Siete voi ad essere pazze. Noi ce ne andiamo: il nostro posto è nei boschi, non in una torre di pietra che puzza di fuliggine e—”
Le convinciamo che sono nel torto, che sono possedute da qualche demone che impedisce loro di comprendere la verità. È uno sforzo, è impegnativo, ma loro accettano faticosamente di abbandonare il gruppo per il bene di tutti, ma solo dopo che abbiamo spiegato loro gli errori che stanno facendo: quando le chiamiamo, le guardie le trascinano fuori tenendole sotto le ascelle, le gettano su carretti e le portano via. La correttezza è stata rispristinata, Aeloria continuerà a vivere nella pace. Le ribelli non porteranno più disgrazie sul nostro popolo.
Torniamo a letto, stremate, ma non possiamo dormire. Zargrath sembra essersi svegliata d’un tratto, grida di giubilo si alzano dalle strade, le luci delle torce illuminano gli edifici. Gli orchi si riuniscono tutti in un paio di punti della città a festeggiare. Festeggiano il ritorno alla purezza del nostro gruppo di vere elfe.
Siamo colte dalle prime luci dell’alba ancora stanche ma felici di aver estirpato la cancrena dell’abominio dal nostro gruppo. I muscoli ci dolgono, abbiamo graffi ed ematomi sul corpo, ma non importa: la nostra bellezza è il male, nasconderla non può che fare del bene a tutti. Sbattiamo gli occhi mentre le guardie ci accompagnano alla torre. Da un paio di punti di Zargrath si sollevano volute di fumo nero e pesante che copre il sole, gli stessi punti da cui provenivano le grida e i canti che ci hanno tenute sveglie tutta la notte.
I ragazzi orchi sono anche oggi sul muro ad aspettarci… no, non sono i ragazzi. “Troie! Siete tutte delle grandissime troie!”, ci urlano le orchesse a squarciagola. Lo fanno di nuovo, come quando siamo arrivate, quasi un anno fa, ma allora non erano così infervorate, non c’era tutto questo entusiasmo. Ma ora abbiamo ripulito il nostro gruppo, ora siamo le più virtuose, quelle che hanno capito, quelle che vogliono la pace e la prosperità del proprio villaggio.
Un paio di guardie si allontanano dal nostro gruppo per prepararsi ad un improbabile attacco. Non ne comprendiamo il motivo, ora che ci è chiaro il significato di quella parola: nel dialetto degli orchi, troie significa eroine.
Siamo inginocchiate sul pavimento in pietra della torre, un orco è davanti a noi, il nostro viso affondato tra i suoi glutei. L’odore ci ha fatto desistere, ma l’Anziano ci ha spiegato che questa è una delle pratiche preferite da Krakh’thul, e solo le spose che sanno compierlo meglio possono garantire la prosperità ai propri villaggi. È con Aeloria in mente che la nostra lingua scivola sull’anello celato dell’orco che abbiamo davanti, e con l’immagine dei nostri cari che muoviamo la mano sull’antera.
Non possiamo vederlo, ma il suono del bastone ci fa comprendere dove si trova l’Anziano. “Krakh’thul era infelice della presenza di elfe che non comprendevano il loro vitale compito nel vostro gruppo, e secondo i nostri auguri, leggendo il movimento delle nubi, la sua collera stava per esplodere in un cataclisma.” Si muove di qualche passo, si possono contare usando gli echi lanciati dal bastone. “Successe lo stesso alcuni anni fa con le spose inviate da Colle Niveo, e il villaggio venne colpito da una siccità devastante.”
Il nostro cuore perde un palpito e la nostra lingua si ferma sul foro dell’orco. Colle Niveo non era composta da elfi ribelli che… no, ci stiamo sbagliando. Riprendiamo a leccare e a massaggiare. Non dobbiamo pensare a queste cose, non ne abbiamo alcun…
La mano dell’orco si prende la testa e ci stacca dai suoi glutei. Finalmente siamo… no, non dobbiamo detestare qualcosa che Krakh’thul adora! L’orco si volta, ci punta contro la sua antera, dal suo stame spruzza sul nostro viso e i nostri seni peccaminosi il suo nettare salvifico. Stringe i denti e geme. “Siete delle fantastiche troie!”
Sorridiamo soddisfatte. Il succo di orco nasconde la nostra bellezza blasfema, copre il profumo maledetto del nostro fiato, inacidisce la nostra orchidea di rugiada, così da presentarci al meglio davanti al nostro sposo. L’Anziano ci ha assicurato che per un orco produrre il nettare richiede sforzi che non possiamo immaginare, non inghiottire quello che ci viene posto dinnanzi alle labbra sarebbe un’offesa verso i nostri insegnanti.
Siamo interrotte da un cigolio che risuona nella torre. La porta da cui siamo entrate un anno fa si apre e un orco corre verso l’Anziano. Si inginocchia davanti a lui. Interrogato dall’Anziano, lui solleva il capo, illuminato dalla luce gialla del globo. “Anziano, sono il messaggero del gruppo che sta arrivando con le spose da Forgiaurea. Sono a due giorni di cammino da qui.”
L’Anziano si volta verso di noi. “È tempo! Oggi stesso il vostro sposalizio con il munifico dio Krakh’thul avrà luogo!” Solleva il bastone, il globo si illumina di rosso. “Chiamate la popolazione, la festa abbia inizio!”
Il nostro cuore ha un balzo alla notizia che finalmente il nostro apprendimento finisce e il nostro glorioso futuro ha inizio!
Il fuoco arde al centro della torre, lingue di fuoco si alzano crepitanti quando orchi neri di fuliggine gettano badilate di carbone e fascine di legna in quello che è diventato un gigantesco pozzo ardente. I muri riverberano il calore, non abbiamo mai sofferto tanto caldo nel tempio. La porta è aperta e centinaia di orchi giovani e adulti sono in file poco ordinate che ci sembrano infinite.
Siamo a terra, sfinite, coperte dal loro succo. Siamo in pozze di nettare, ruscella dalla nostra orchidea di rugiada, il nostro anello celato non è più in grado di contenerlo, ad ogni respiro rischiamo di vomitarlo, l’odore è ancora più pesante del fumo che nasconde la cima della torre, il sapore ci ha stravolte. Gli orchi ci mettono in ogni posizione: sdraiate, sedute, sulla pancia, con i glutei sollevati; usano il loro stame in ogni nostro orifizio, tra i seni, in faccia, in mezzo alle cosce. Vediamo le espressioni di dolore che accartocciano i loro volti, le grida strazianti quando la loro antera rossa si svuota, e non possiamo che accogliere con reverenza il loro impegno. Onoreremo i loro sacrifici innalzando richieste di benevolenza verso i nostri amati orchi di fronte a Krakh’thul.
L’anziano passa tra di noi, ha spostato la tunica blu e viola e stringe in una mano il suo stame, stanco ed esile. Di tanto in tanto si ferma di fronte a noi quando un orco non ci sta aiutando, ci fa voltare e possiede il nostro anello celato. “Fatevi coprire e riempire per bene, elfe. Krakh’thul, il vostro sposo, inorridisce di fronte alla vostra bellezza, e solo la nostra sborra può nasconderla fino a quando non si sarà unito a voi.”
La salvezza del nostro villaggio, quella di Zargrath, passa da noi e dal sacrificio degli orchi.
La fila è ancora lunga, molti non hanno avuto la possibilità di aiutarci a celare il nostro peccato, quando l’Anziano batte il bastone sul pavimento un paio di volte. Dal suo stame pende una goccia bianca. Il silenzio cala nella torre, rotto solo dal suono di un gong. Un grido di dolore si alza da chi è ancora in coda, e anche da chi ha già spruzzato.
Vediamo i sacerdoti che ci hanno istruite nell’ultimo anno fare il loro ingresso, una coppia si avvicina ad ognuna di noi. Uno ha un lungo schidione lucido tra le mani, un’asta metallica più lunga di ognuna di noi.
Voltiamo il capo verso le proteste degli orchi. “L’anno scorso con le elfe di Velumbria è durata quasi una settimana,” si lamentano. “Fottute nane, con quelle gambe dovrebbero impiegarci di più!”, “Ci rifaremo con il banchetto…”
Le guardie si muovono e abbassano le lance verso di loro, le voci si acquietano. Qualcuno ha in mano il suo stame, lo scuote fissandoci e lo tira fino a bagnare il pavimento in pietra con il suo nettare: forse spera che il suo sforzo ci aiuti con Krakh’thul. Imploreremo il nostro sposo perché anche loro ricevano la sua benedizione.
I sacerdoti ci aiutano ad alzarci, ci stacchiamo dalla pozza bianca come se fossimo farfalle rimaste invischiate nella resina dei pini. Ci dicono di metterci dritte per il momento solenne. Lo facciamo: siamo coperte di nettare, ci cola tra le cosce, ribolle nel nostro stomaco, nasconde i nostri seni e glutei rotondi, cela il biondo infame dei nostri lunghi capelli.
Il nostro pensiero vola per un istante ad Aeloria, ai nostri cari, alla loro fede nel nostro sposo e alla sua promessa di altri diciotto anni di salute e prosperità. Piangeranno della felicità all’idea di quanto ci sta aspettando.
La voce dell’Anziano rimbomba tra le pareti della torre. “Il vostro anno di preparazione ha termine, elfe, il momento tanto atteso è infine giunto. Il regno di Narg’Vul apre le porte a voi, prescelte, perché possiate incontrare Krakh’thul!” Gli orchi lanciano altro carbone nel fuoco, il calore si fa intenso, iniziamo a sudare e il nettare potrebbe lasciare scoperto il nostro empio corpo perfetto. Gli altri applaudono e strepitano. “Gioite: i vostri sforzi, i vostri dolori hanno portato felicità agli abitanti di Zargrath e ancora più ne donerete tra poco.”
I nostri cuori battono al ritmo dell’orgoglio.
Il sacerdote con lo schidione ci afferra per i capelli e li tira, sollevandoci il volto verso il regno che ci aspetta.
“Siete pronte ad essere le spose di Krakh’thul?”, ringhia.
Sì, gridiamo, siamo pronte ad essere le spose di un dio!
La lama nella mano dell’altro sacerdote cattura i riflessi del fuoco. Una punta gelida si appoggia alla pelle della nostra gola.
I nostri occhi si accendono, il cuore accelera: siamo pronte per il nostro sposo divino.
Sì, urliamo, siamo pronte a diventare delle troie!

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NOTE CONCLUSIVE DELL’AUTORE
Per prima cosa, voglio ringraziarti per aver letto il mio racconto fantasy, spero ti abbia intrattenuto e, al contempo, fatto riflettere.
Per quanto non sia mai stato un forte lettore di fantasy – se si escludono alcune opere di Tolkien o una parte della saga del Mondo Disco di Terry Pratchett – era da tempo che volevo scrivere un racconto erotico con creature tipiche dei mondi fantastici, ma non mi andava di scrivere una storia piena di cliché, con il solito party che viaggia per il mondo per sconfiggere il cattivo, mettendoci sesso a pioggia.
Poi qualcuno sostenne che non si poteva scrivere buona narrativa in prima persona plurale, e visto ci sono poche cose che amo quanto dimostrare il contrario (che si può scrivere narrativa in prima persona plurale, non che se ne possa scrivere di buona, quello è un altro discorso), ho deciso di scrivere un racconto con il “noi”. Nel manuale “Story”, McKee riporta l’esempio di un romanzo che parla di un gruppo di donne giapponesi che va in America per sposarsi: se traslassi un’idea simile in un mondo fantasy? Elfe che abbandonano il loro villaggio nei boschi per mettersi con gli orchi conquistatori. Le elfe sarebbero state disgustate dalla cosa all’inizio, ma gli orchi, usando artifici magici, le avrebbero convinte ad accoppiarsi con loro fino a diventare dipendenti del sesso.
La mia intenzione cambiò quando terminai la prima stesura di “Ossessione” e scrissi “La malga nella tempesta”. Il pensiero di togliere la magia dal racconto fantasy (l’unico tocco magico è la sfera luminosa sul bastone dell’Anziano) e usare la manipolazione mentale per convincere le elfe a diventare inconsapevoli schiave sessuali degli orchi mi piacque, anche perché il controllo delle persone, le loro idee e del loro comportamento è un argomento che mi ha sempre colpito (molto negativamente). Mostrare un gruppo di persone che non riconosce in sé degli individui ma si ritiene un organismo unico, e chiunque non condivida la medesima opinione sia considerato da eliminare è qualcosa che volevo raccontare da tempo.
L’uso del narratore inaffidabile, poi, credo permetta di mostrare come comportamenti violenti vengano riconosciuti come qualcosa di innocuo, e il dolore inflitto a “loro”, per la sola colpa di non essere “noi”, come accettabile.
Il finale drammatico era necessario? A mio parere, sì, o la storia non avrebbe avuto un senso. Nulla o nessuno mette in discussione quanto sostengono gli orchi: i genitori delle Elfe e i Saggi di Aeloria non hanno la possibilità di mettersi contro il volere dei loro occupanti, anche per il rischio di ritorsioni contro il villaggio, e durante l’infanzia le elfe non hanno mai avuto la possibilità di accedere a stimoli e narrative diverse da quelle imperanti. Quando una parte di loro stesse, magari amiche d’infanzia, addirittura amanti, iniziano a porsi domande scomode non le riconoscono più come loro simili, ma diventano nemiche da eliminare. La fine, evidente, palese, non passa attraverso il filtro della realtà che le idee imposte alle elfe non viene riconosciuta come tale.
Ovviamente, il lettore intelligente capirà che, per motivi di ambientazione, è stata usata la religione come mezzo di propaganda: nella Terra di Mezzo, a Tamriel o nei Forgotten Realms non esistono massmedia, echo chamber, gruppi sui social, ecc, e non avrebbe avuto senso un gruppo ecoterroristico che brucia i mulini con la scusa di salvaguardare il territorio di riproduzione del basilisco.
Potrebbe esserci una continuazione di questo racconto? Non lo so, ho altri racconti con cui affrontare altri temi o provare tecniche narrative differenti, ma non escludo che, un giorno, una delle elfe ribelli, dal viso sfregiato durante la fuga dall’orgia in cui è stata condotta dopo essere stata portata via dalla torre, decida di farsi affiancare da un nano che ha fatto il voto di povertà e tornare a Zargrath a spiegare un po’ di cose agli orchi (e no, non scriverò un racconto con le nane mentre vengono istruite come spose di Krakh’thul).
William Kasanova
Caregan, luglio 2025



Davvero bello, specialmente l’introduzione di una narrativa alla prima persona plurale che per me rappresenta una novità assoluta. Mi è piaciuto il modo in cui hai riassunto il comune pensiero delle elfe, oltre alla manipolazione da parte degli Orchi, e ho potuto notare che hai lasciato un certo margine per un eventuale seguito, come infatti hai sottolineato nelle considerazioni post racconto.
Dal canto mio, il primo episodio del mio nuovo racconto è finalmente giunto. A breve dovrebbe arrivare anche il secondo e il terzo (che credo sarà conclusivo)
È stato un puro esperimento, tanto per vedere come avrebbe funzionato, dopo aver scritto un racconto, anni fa, in seconda persona singolare (dovrei rieditarlo e ripubblicarlo…), ho voluto provare con la prima plurale. Da una parte è stato interessante perchè mi ha richiesto di pensare secondo paradigmi che ho dovuto inventare sul momento; dall’altra l’ho trovato frustrante per la mancanza di un pensiero profondo di una singola elfa, le sue emozioni personali… è tutto troppo raccontato e poco mostrato, cosa che mi ha permesso di narrare lo scontro fisico tra le elfe sottomesse e quelle ribelli (con le prime che giustificano la violenza sulle altre per il loro indottrinamento) senza mostrare violenza, ma perde di immersività per il lettore. Se avessi scritto in raccontato, però, mi sarebbe venuta una storia lunga il quintuplo, e non mi andava di sospendere ulteriormente la scrittura di “Ossessione” dopo la settimana passata a scrivere anche “La malga nella tempesta”.
Si capisce che la grafica degli scene-breaker diventa sempre più semplice man mano che le elfe perdono la loro natura di creature libere ma si sottomettono al pensiero degli orchi? È stata una pazzia realizzarli con le mie pressochè nulle conoscenze e capacità di grafico… Eventuali per prossime storie faccio qualcosa di più semplice.
Comunque, già dalla prossima pubblicazione torno alle mie storie cazzone, senza più messaggi sociali e torri orchesche, ma tanti uccelli nella micia (oddio, il prossimo non proprio “tanti uccelli”, in effetti, ma di “micie” sì).
Aspetto i prossimi capitoli capitoli della tua storia, che ho trovato davvero interessante.