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Ora siamo suoi

By 21 Luglio 2025Luglio 27th, 2025No Comments

Tutto quello che leggerete è frutto di fantasia.
Per contatti skylar2023@libero.it

Non c’è mai un momento preciso in cui capisci che stai perdendo tua moglie.
Non è un giorno solo. Non è un gesto isolato. È una goccia sottile, che scava. È un profumo nuovo nella sua pelle, uno sguardo che si assenta a metà frase. È un tono di voce che cambia impercettibilmente, come se stesse parlando a un altro uomo… o meglio, a una donna.

Nel mio caso, tutto è cominciato con un paio di scarpe.

Lei lavorava in un negozio del centro, uno di quelli eleganti, dalle luci calde, con vetrine sobrie e pavimenti in legno. Passavo a prenderla ogni tanto, solo per il piacere di guardarla mentre sistemava le scatole, si chinava tra gli scaffali, mostrava modelli con quel sorriso educato e distratto che mi aveva fatto innamorare anni prima.

Mia moglie — la mia donna — si chiama Elisa. Trentacinque anni, un corpo che sembrava costruito per far perdere l’equilibrio agli uomini. Alta, forse un metro e settanta o poco più, con gambe affusolate e forti, sempre scoperte sotto gonne che le valorizzavano senza mai cadere nel volgare. Portava una quarta abbondante di seno, pieno, naturale, che si muoveva sotto camicette sottili come una promessa silenziosa. Ma ciò che più colpiva era il sedere: alto, rotondo, sodo come quello di una ventenne, che ondeggiava con fierezza ogni volta che camminava davanti a me. E i piedi…
I piedi erano il suo orgoglio, anche se non l’avrebbe mai ammesso apertamente. Perfettamente curati, unghie smaltate in toni scuri, caviglie sottili. Portava il 39, con dita lunghe, affusolate, sensuali. Indossava sempre scarpe aperte, anche fuori stagione. Diceva che le facevano sentire libera.

Quel giorno, quando tutto è iniziato, era sabato. Ricordo che era vestita con una gonna nera aderente e una camicia bianca sbottonata di due tacche più del necessario. Stava servendo una cliente. Una ragazza giovane, bellissima, che sedeva scomposta sulla poltroncina del camerino come se il negozio fosse casa sua.

Aveva i capelli neri, corti, tagliati come una lama, pelle chiara e occhi che non chiedevano: pretendevano. Il vestito che indossava era minimo: un top elasticizzato, jeans tagliati sopra la caviglia e sandali consumati. I suoi piedi, piccoli, delicati, perfetti, sembravano appoggiati sulla realtà con disprezzo.

Stava ridendo. Ma non con Elisa.
Rideva di Elisa.

Mi fermai fuori dalla vetrina. Nessuno mi aveva visto.
Elisa si inginocchiò lentamente davanti a lei, prese uno stivaletto dal ripiano, e lo allungò verso il piede della ragazza. Non con il solito gesto sicuro di una commessa esperta. No. Con esitazione. Con… timore.

La ragazza allungò il piede senza dire nulla. Glielo poggiò in grembo.
E mia moglie abbassò lo sguardo.
Come se quel piede valesse più della sua dignità.

Ricordo lo schianto silenzioso che ho sentito dentro.
Un tonfo profondo. Come se qualcosa fosse caduto dal cuore alla gola, e poi giù, dritto nello stomaco.

Non entrai.

Mi allontanai senza che mi vedessero. E per tutto il giorno, quel gesto mi bruciò in testa. Tornai a casa tardi, fingendo che fosse solo una giornata come le altre. Ma quella sera, quando lei si spogliò in camera da letto, notai una cosa. Una traccia, minuscola, invisibile agli occhi di chi non guarda.
Aveva un livido sul fianco. Un’impronta, forse. Un’ombra di tallone?
Non chiesi nulla.
Lei non disse nulla.
Eppure, nei suoi occhi c’era qualcosa di nuovo. Un languore. Una lentezza nei movimenti. Come se il suo corpo fosse… saturo.

Nei giorni seguenti, iniziarono le assenze. Piccole. Puntuali.
“Chiudo più tardi”, “Una cliente fissa”, “Devo rimanere per l’inventario”.
E io? Io lasciavo fare. Perché la desideravo ancora. E ogni volta che tornava, sembrava… carica. Irradiava sensualità. Mi abbracciava con più trasporto. Mi lasciava toccarla, ma senza mai lasciarsi andare del tutto. Era come fare l’amore con un corpo che apparteneva a qualcun altro.

Una sera, mentre la stavo baciando tra le gambe, sentii qualcosa.
Un profumo. Dolce, penetrante, muschiato. Non suo. Non nostro.
Il suo.
Era stata con lei.

“Chi è?” le chiesi, tremando.
Lei si irrigidì per un istante. Poi sospirò.
“Una ragazza. Una cliente.”

“E tu…?”
“Non sono più io, quando sono con lei,” rispose. “E non voglio tornare indietro.”

Non c’erano lacrime. Né rabbia. Solo la certezza di qualcosa che mi stava travolgendo.

Il giorno in cui la vidi inginocchiata davvero — non solo per lavoro, ma per adorazione — fu quello in cui compresi che il nostro matrimonio non ci apparteneva più.

Ero passato al negozio a sorpresa. Avevo preso il pomeriggio libero.
Ma trovai la serranda abbassata. La porta era aperta. Silenzio all’interno. Entrai senza far rumore.

E le vidi.
Lei era lì, seduta su una poltrona bassa, le gambe accavallate. La ragazza.
La stessa, sempre lei.
Elisa, nuda dalle ginocchia in giù, era in ginocchio. Non stava provando scarpe. Non stava vendendo.
Stava baciando quei piedi come se fossero sacri.

Leccava la pianta. Baciava le dita. Si stringeva le caviglie contro il viso.
E la ragazza la guardava con superiorità glaciale. Come se fosse una cosa ovvia.

Poi parlò.
“La tua bocca serve solo per questo,” disse.
E mia moglie annuì.
Lo sussurrò, quasi:
“Sì, padrona.”

Padrona.

Non ce la feci a entrare. Non ce la feci a scappare.
Restai lì, nell’ombra, a guardare.
Senza fiato. Senza più un ruolo.

E fu allora che mi accorsi di quanto fossi solo.
Non avevo più il suo corpo. Non avevo più il suo sguardo. Non avevo nemmeno più la sua umiliazione: non era per me.
Era per lei.

Quando tornò a casa quella sera, le dissi solo:
“Da quanto?”

Lei si tolse il cappotto. Si avvicinò.
Si inginocchiò. Nuda, umile, eppure più viva di quanto l’avessi mai vista.
“Da quando l’ho vista la prima volta,” disse. “E non riesco più a fermarmi.”

“E io?” chiesi, con la voce spezzata.
“Tu puoi restare,” disse lei. “Ma solo se accetti.
Solo se guardi. Solo se taci.”

Accettai.

Non per forza. Non per debolezza.
Ma perché era troppo tardi per opporsi.
E perché, in fondo, sapevo già di essere stato estromesso.
E c’era qualcosa di perversamente eccitante in tutto questo.
Nel sapere che mia moglie era un oggetto di qualcun’altra.
E che io… non ero nulla.

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