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I piedi liberati dalle calzature affondati nella sabbia, fresca per la sera, salsi soffi sul mio volto indurito, disilluso.
Appena sopra l’orizzonte, linea tracciata che separa, fonde cielo e mare, sorge pigra e poi levita rapida una luna che, sfiorata dai raggi del sole ormai morente, splende di luce rossa.
La festa – cosa festeggino non so, non m’importa – dei colleghi continua nel locale, affittato allo scopo, illuminato nella notte a un centinaio di metri da me; odo il suono attenuato della musica musica e l’eco delle voci, delle risate.
Ho deciso di lasciare il lavoro attuale, ma sono ancor di più irrimediabilmente lontano, affacciato sull’orlo vertiginoso dell’abisso della mia malinconia dei giorni che innumerevoli hanno attraversato la mia esistenza, stretto nella prigione del mio rimorso, ubriaco di risposte non date.
La luna è ormai divenuta un disco che brilla di vivida luce bianco argentata e traccia sulla scura, liquida, placida superficie una strada luminosa. Lontano, rari natanti con le loro luci intermittenti punteggiano, definendolo, l’orizzonte.
Cosa c’entriamo noi con questo sfoggio arrogante di magnificenza?
Non sono comunque solo: ho con me una bottiglia di Gewurztraminer Konrad Oberhofer del 2009, pagato un occhio della testa. Inclino il bicchiere in direzione del sentiero luminoso disegnato sul mare e brindo alla struggente bellezza di fronte a me. Il liquido dorato e setoso, di grande struttura, scivola nella mia gola liberando i suoi aromi fruttati con appresso un sentore di miele.
Un suono sommesso di granelli di sabbia che scorrono, fruscio di vesti accanto a me. Il mio cuore freddo ha un sussulto, sobbalza.
Lamia sei tu. Non ci speravo proprio di averti accanto, anche se sei l’unica ragione per cui son qui stasera, in questo consesso che mi sarebbe altrimenti estraneo.
Lo hijab incornicia la preziosità del tuo volto. I tuoi occhi, velluto nero brillano nella selenica, magica luce e rivaleggiano in splendore con la porzione di cielo trapuntato di stelle alle nostre spalle.
Sorpresi, stupiti dalla magia della notte, ci stringiamo dolcemente, piccoli esseri commossi e oppressi da cotanta maestosità.
Prendo il tuo volto fra le mani. Vorrai, potrai essere tu la tavola a cui posso aggrapparmi, naufrago alla deriva?
Ti bacio ed è vertigine, mi lacero dolorosamente e dolcemente mi ricompongo, sprofondo e riemergo dall’abisso.

Vorrei offrirti ciò che di meglio esiste ma la stanza d’albergo dove la tenera,
l’ incontenibile, straripante passione, ci ha portato è quanto di più dozzinale possa esserci. Con te accanto però tutto si trasforma, si dilata, si spalanca in un’universo di meraviglia.
Sciolti i tuoi capelli, una cascata di riccioli neri che scossi, ricadono sulle tue magre spalle e a pudica protezione dei tuoi teneri seni. Ti spoglio e come una bimba mi assecondi, ubbidiente; ti accarezzo la serica pelle che trema, eccitata al mio tocco leggero. Mi inginocchio davanti alla esile nudità del tuo corpo con rispetto, ti bacio partendo dai tuoi piedi e risalgo fino al boschetto che circonda la mirabile fessura rosa dove mi riempio la bocca del tuo succo, mi abbevero. Le tue mani affusolate afferrano il mio capo per spingerlo ancor più sull’inguine, assecondando l’azione delle mie mani strette sui tuoi tondi glutei che ti attirano a me, e incrementare le tue sensazioni di piacere.
Facciamo l’amore: mi addentro con delicatezza nel mistero del tuo caldo, stillante fiore, ti lasci andare rapita, mi abbracci e mi vuoi più dentro di te. Mi emoziono guardando la bellezza del tuo volto, le lunghe ciglia dei tuoi occhi socchiusi e all’udire il suono dei tuoi sussurri, dei gemiti di passione, estasiata, presa nella dolcezza del tuo segreto universo erotico.
– Ancora, ancora ti prego continua, son tua.
Profumo di gelsomino promana da te.
La luce lunare illumina, come fossero su un palcoscenico, i nostri corpi sfiniti, umidi di sudore, impreziosendoli. Ti guardo e poi ti stringo a me in un abbraccio che nasconde, dietro l’impeto, il timore di perderti, risucchiata dalla tua famiglia, dalla tradizione così importante per te e con cui io poco c’entro.
É l’alba. Tu ed io in silenzio nell’auto: le nuvole appiattite, a formare le pietre di un sentiero là in alto, grigie a ponente e rosa-arancio a levante, dipinte dal sole che nasce; tra le fughe di questo fantastico selciato sopra di noi si intravedono squarci di pallido azzurro. La mia voce é ferma ma intimamente sto tremando.
– Non puoi andartene. Sarebbe un errore perché io ti amo perdutamente.
Non ti voglio dire – non mi pare giusto -, che mi spaccheresti il cuore lasciandomi a terra, distrutto.
Non mi rispondi, guardi fisso oltre il parabrezza fissando visioni fantasmatiche che ti sgomentano. Dai tuoi occhi di stella, inumiditi, sgorga una lacrima che per gravità ti solca la guancia e cade sul pavimento dell’abitacolo.
Fumassi almeno, mi accenderei una sigaretta.
Sono davvero in procinto di perderti, adesso che ti ho appena trovata?
Non lo so, fuori la luce livida del mattino come un sudario di triste incertezza, noi due ancora seduti qui.

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