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Gaia piroettò su se stessa per un po’, facendoci arrivare velocemente a ridosso del ferragosto.

I giorni passarono in fretta. Io e mia sorella viaggiammo molto, con la fantasia e col desiderio, portando nelle nostre valigie tanta curiosità, un po’ di libidine e un pizzico di rimorso. Replicammo sul mio corpo il sogno africano; visitammo le calde coste caraibiche il dì successivo per poi esplorare le vette del Nepal quello dopo ancora, apprendendo le forme e le particolarità dei nostri corpi, assimilandone gli appetiti, ma costringendo le mani a esplorare solo la superficie esterna.

Urlai “Thálassa! Thálassa! Mare! Mare!” e feci ridere Nami per cinque minuti, la notte in cui replicammo la Catabasi degli antichi greci, quando le peregrinazioni dal deserto dell’Elam alle coste del Ponto Eusino le fecero raggiungere un travolgente orgasmo. Camminammo poi lungo la Via della Seta, seguendo le orme del grande mercante; dalla bocca di Nami, improvvisata Repubblica lagunare, giungemmo alle lontane terre boscose del Catai. Lì perorai a lungo la mia causa e finalmente, dopo un’attesa sfibrante, le mie dita furono ammesse a corte e conobbero il Gran Khan; dovettero inginocchiarsi al suo cospetto, piegarsi al suo volere e soddisfarne brame, capricci e desideri.

Quella mattina mi dovetti svegliare presto, oppressa dalle numerose commissioni da smaltire. La vidi distesa supina, nuda, ancora intenta a sognare. Mi fermai qualche istante ad ammirarla, assaporandone mentalmente il sudore salato e la morbidezza delle labbra. Aveva nascosto un braccio sotto il cuscino, mentre l’altro si divideva tra il materasso e il ventre: il pollice le sfiorava l’ombelico, il mignolo puntava, deciso, all’inguine. La debole luce del sole, che penetrava nella stanza attraverso gli scuri, le pennellava con un sottile strato d’aria la curva dei seni, sulle cui cime riposavano, teneramente, i due frutti della passione. Mi vidi intenta a poggiarci sopra la bocca, schiudere le labbra, riscaldarli con il fiato e gustarne infine il sapore, giocherellando con loro e svegliandoli al contatto con la mia lingua. Decisi di non fare colazione con il suo corpo e rivolsi quindi il mio sguardo alle lunghe estremità inferiori, l’una un po’ scostata dall’altra. I miei occhi atterrarono sulla margherita che, tatuata sulla sua pelle lattea, nasceva dal collo del piede per fiorire rigogliosa poco più in alto. Immaginai di avvicinarmi a quel fiore, allargare le gambe e annaffiarlo con la mia linfa, di alimentarlo con la passione e, infine, accarezzarlo con le labbra. Quella visione mi avviò i sensi, rapendoli al torpore notturno. Lasciai la parte migliore per ultima: con lo sguardo risalii lentamente verso il pube, nella speranza di cogliere l’ispirazione che, nella doccia, mi avrebbe aiutata a iniziare la giornata di buonumore. La vista della nera e corta peluria mi spinse a osare di più. Mi sistemai un po’ meglio, per godere appieno della bellezza del roseo fiore di ciliegio che custodiva gelosamente tra le gambe, ma nel movimento colpii inavvertitamente la bottiglia d’acqua, che cadde a terra. Nami si voltò, si distese su un fianco richiamando a sé le gambe e offrendomi la schiena e la curva dei glutei, sospirò e ripiombò così nel sonno.

E’ la latina Afrodite, che col suo potere m’inganna; le dono la mela e per ringraziarmi m’invita, suadente, a scrutarne il Monte; per poi vietarmi di contemplar l’Olimpo.

Rispedii al mittente il desiderio di far planare i miei baci lungo la pista d’atterraggio disegnata dalla sua spina dorsale – ben in mostra adesso, nella curva che aveva assunto il suo corpo -, di farla voltare e proseguire con la bocca lungo il fianco fino a raggiungere l’ombelico, tropico oltre il quale cominciava la zona interdetta alla mia lingua. Abbandonai la stanza e andai a lavarmi.

L’acqua fresca mi svegliò del tutto. Indugiai qualche minuto in più e portai le dita a far visita alla mia Ornella; le accolse, come spesso era successo in quei giorni, già pronta. Trasudai piacere, avvertii le prime vibrazioni farsi largo dentro di me e mi appoggiai alle mattonelle per assecondare i marosi. Strinsi le palpebre e le gambe, contrassi le dita dei piedi e irrigidii le natiche; aprii la bocca per urlare, ma mi trattenni per non svegliare Nami. Mugolai sommessamente per un paio di secondi, finalmente sazia e appagata delle fantasie che mi avevano aiutata, e stetti lì, immobile, divisa tra la soglia della coscienza e un capitombolo nel più superficiale dei deliqui. Lasciai che il getto d’acqua mi accarezzasse il viso e aspettai che il sopraffiato si stancasse di giocare con me. Finii di lavarmi, mi asciugai, mi vestii, presi un post-it e annotai alcune parole. Rientrai in camera in punta di piedi, facendo attenzione a non colpire la bottiglia maledetta, e poggiai il pezzo di carta sul comodino. Ritornai sui miei passi e lasciai la stanza, con l’intento di dedicarmi finalmente alle commissioni, mentre l’haiku [1] che avevo scritto a mia sorella mi riecheggiava ancora nella mente:

Stelle d’oriente;
guardar quei neri occhi tuoi
m’incendia il cuore.

*​

Nel pomeriggio ci organizzammo con alcuni amici per trascorrere il ferragosto ai giardini pubblici. Il menu prevedeva un quintale d’insalata di riso – si sa che è meglio prepararne in abbondanza, così da ritrovarsela ancora e ancora, nei secoli a venire -, lambrusco dolce a fiumi (“gira, gira, gira, gira, gira, gira, tanto torni qua!”, cantai maliziosa, stonata e sottovoce a Nami, ancheggiando, roteando l’indice e indicandole infine Ornella) e, per accontentare gli astemi, anche un paio di bottiglie di Coca Cola. Terminata la registrazione del messaggio vocale, saltellai e crocchiai allegramente per un altro paio di minuti utilizzando una banana a mo’ di microfono, poi ritornai seria. Prenotammo il viaggio in Spagna per la fine del mese, feci merenda mangiando il microfono, andammo a comprare l’alcool, ci lavammo, cenammo e, dopo aver visto un film, finalmente ci coricammo.

L’indomani, aperto l’armadio e avendone esaminato il contenuto, convenimmo sul fatto che non avessimo nulla da indossare. Demmo inizio così alla lotteria dei vestiti; per diversi minuti osservammo inebetite quell’ammasso di tessuti e colori, eleggendo i vincitori ma scartandoli, poco convinte, subito dopo. Stanca e stufa, afferrai a caso un paio di pantaloncini chiari e un top abbastanza scollato, con bretelle e lacci che, incrociandosi sulla schiena, me la lasciavano scoperta al pari di braccia e addome. Nami invece preferì un comodo prendisole celeste, che le metteva in risalto la pelle chiara e il nero degli occhi e dei capelli. Alle 11:00 incontrammo gli altri all’ingresso dei giardini. Zaini, chitarra e razioni da esercito in spalla, ci addentrammo nel parco e vagammo lungo i vialetti alla ricerca di un posto all’ombra; io e Nami chiudevamo la formazione.

Più di una volta mi avvicinai a lei e le sfiorai il mignolo con la mano, cercando il contatto fisico e sognando un bacio. Il mio desiderio iniziò a brontolare, ma lo zittii repentinamente. Camminammo per qualche minuto, poi, fortunatamente, trovammo posto sotto un fitto gruppetto di alberi. Ci sedemmo e chiesi gentilmente a Nami di spalmarmi la crema solare su schiena e spalle. Il contatto tra la mia pelle, già scaldata dal sole, e le sue mani mi derubò di un assordante sospiro, subito camuffato da colpo di tosse. Le sue dita danzarono come la Fata Confetto sulle mie spalle, mi costrinsero a chiudere gli occhi e a immaginarci da sole, io e lei, nude e intente a disegnare, con i polpastrelli, la mappa che avrebbe raffigurato i nostri corpi. Discese lungo le spalle e le braccia e passò lentamente alla schiena, intuendo, dal movimento che feci con il collo, quanto quella frizione stesse elettrizzando i miei sensi. Rallentò ulteriormente, per quanto gli occhi e l’intuito dei nostri amici le permisero, e arrivò al fondoschiena, sopra l’elastico dei pantaloncini. Poi, con la voce rotta dall’emozione, bisbigliò:

«Vuoi che te la spalmi anche sulla pancia?»

Un “Sì, ti prego!” fu sostituito a malincuore da un “No, lì ci arrivo!”.

Ricambiò il mio sguardo e fece crollare le barriere di carne e sangue che dividevano le nostre anime, poi interruppe quell’intenso contatto visivo e tornò a scambiare qualche battuta con gli amici. Mi guardai intorno intontita, rapita da un bellissimo sogno e riportata bruscamente alla realtà, cercando di capire se qualcuno dei presenti avesse notato qualcosa d’insolito in ciò che era appena successo. Fortunatamente, ognuno sembrava intento alle proprie faccende. Mi alzai, raggiunsi gli altri e blaterammo allegramente, ridendo, scherzando e versandoci da bere, finché l’arrivo delle bionde trecce e degli occhi azzurri anticipò quello del pranzo.

Dopo aver mangiato e una volta superata la sonnolenza dovuta al vino e al riso, il nostro amico chitarrista tornò a suonare, accompagnato stavolta da un complice e da un paio di tamburelli, membri estranei di una comitiva che si era appena aggregata al nostro gruppo.
Nami e un altro paio di amiche si alzarono e iniziarono a ballare, seguendo il ritmo di canzoni quasi improvvisate. Osservai per un po’ la mia margherita; il prendisole, che a malapena riusciva a star dietro ai suoi movimenti, m’ispirava fantasie in cui l’assenza di mutandine mi spingeva a sollevarle la veste, scrutarle l’intimo segreto e, con dita vogliose, tastarne le forme. La ammirai, meravigliata di quanta grazia potesse scaturire dalle sue movenze, fino a quando un ragazzo sconosciuto iniziò a farsi largo tra le danzatrici, diretto verso di lei. Lo vidi approntare un dialogo, modellando il fiato a forma di complimenti che, nella mia mente, erano sicuramente dozzinali, volgari e sgradevoli. La margherita sorrise cortesemente, poi volse il viso a ponente per erigere una barriera intorno a sé. Il marrano non si diede per vinto. Muovendosi a ritmo, circumnavigò il gruppo danzante, sempre più affollato, per tornare nuovamente dirimpettaio di mia sorella.

Chi sei tu, vile, che cerchi con la banalità di addentrarti nel cuore di chi non ti merita?

Percepii un’ondata di furore fluire dal cuore e pervadermi collo, braccia e gambe. Incapace di resistere oltre, mi alzai, mi unii alle danzatrici e, lancia in resta, mi scagliai contro quel mulino a vento per liberare Nami dall’illusoria minaccia. Le afferrai le mani e la trascinai verso di me, allontanandola dall’estraneo, ma mollai la presa una volta al sicuro, incapace di mantenere a lungo quel contatto senza avere la possibilità di farlo germogliare. Ringraziatami per quel nobile e valoroso gesto, la margherita iniziò a danzare con me.

Il ritmo sfrenato della musica mi condusse presto in un parossismo di libidine. Come diapositive erotiche, rapide quasi stessero viaggiando a bordo di un treno invisibile, le visioni del corpo nudo di mia sorella si alternarono alla realtà che mi circondava; mi trasportarono dal parco alla stanza da letto per poi farmi tornare di nuovo al punto di partenza, in un ciclo continuo, in una spirale senza fine.
In quel preciso momento, nel tempo e nello spazio, stavo danzando con lei sopra un manto d’erba verde per poi ritrovarmi, l’istante successivo, ad abbrancare il suo corpo nudo e stuzzicarle i capezzoli con i miei, prima che alberi e amici tornassero nuovamente a intrufolarsi nella scena.
I nostri volti, come magneti, erano attratti l’uno dall’altro; si avvicinavano desiderosi e si allontanavano timorosi, per non destare sospetti. Le mani si cercavano, fingendo di non trovarsi.
M’immaginai nuda e sdraiata accanto alla mia margherita, con le gambe dischiuse. Sognai di farle palpare il calore delle labbra meridionali; di convincere il suo medio ad affacciarsi all’interno, solleticare delicatamente le mucose e di condurlo, umidiccio, verso l’impaziente protuberanza che attendeva il suo turno; d’invitarla infine a suggere il succo della carnosa pesca.
La realtà raschiò via dalla mia mente quella fantasia e mi ritrovai nuovamente nel parco. La mia bocca si aprì, volenterosa di modulare qualsiasi suono potesse far comprendere a Nami quanto la desiderassi, ma si chiuse subito dopo. Domandai nuovamente asilo alla fantasia e innalzai una cattedrale di silenzio, dove poter urlare il mio desiderio a pieni polmoni. Mi sentii bloccata da robuste catene morali, impegnata nell’inutile tentativo di spezzarle mentre mi scagliavo con furore verso di lei, portando i muscoli allo spasmo a causa della tensione e dello sforzo, arrivando a malapena a sfiorarla con il fiato.
È l’Amore che fa male. Quanto vorrei congiungere le nostre labbra e sentir suonare le campane a festa, qui e adesso, indifferente ai giudizi e ai mormorii della gente.

Ci stancammo presto di ballare e tornammo a sederci accanto ai nostri amici (non prima di aver gettato un’occhiataccia al marrano che, pervaso da un’improvvisa e rinnovata ondata di coraggio, stava ritornando da Nami).
Cantammo, bevemmo e ridemmo. I nostri sguardi s’incrociarono e si baciarono, più e più volte, in quei pochi momenti in cui nessuno ci degnava d’attenzione.

Presto il sole si concesse il lusso di tramontare. Molti dei nostri amici ci salutarono e si avviarono per la loro strada; uno di loro invitò me, Nami e il chitarrista a cena. Non avendo voglia di cucinare, accettammo l’invito. Cambiammo idea e, invece di preparare la cena, preferimmo ordinare una pizza. Passammo la serata in allegria, poi il nostro amico ci offrì gentilmente un passaggio. Sull’uscio di casa lo salutammo, ringraziandolo ancora una volta, e finalmente entrammo nel nostro nido.

Dopo aver chiuso il portone, l’ardore che così a lungo si era accumulato durante la giornata, trovò finalmente la sua valvola di sfogo. La pressione eruppe con veemenza, indomabile; scattammo immediatamente l’una verso l’altra, cupide delle nostre labbra, e ci baciammo. Ci separammo solo per pochi secondi, giusto il tempo di togliere un indumento e gettarlo per terra o sul divano – dovunque la sua traiettoria l’avesse fatto atterrare, non ce ne importava granché – per poi ricongiungerci nuovamente, ancora e ancora, finché restammo totalmente nude. Ci guardammo per un attimo, gli occhi e i sensi storditi dalla smania del contatto così a lungo negato, e capimmo subito che non potevamo rimandare oltre. Le afferrai la mano, strinsi le mie dita intorno alle sue e la condussi in camera. Lì ci sdraiammo sul letto e, intrecciando i respiri, sfogammo i nostri desideri e ci masturbammo. Spalla contro spalla, pelle sulla pelle, sudore mescolato con altro sudore, l’odore acre ed eccitante dei nostri corpi madidi e appiccicosi ci imprigionò in un improvviso istinto ferino, facendoci correre all’impazzata e permettendoci di raggiungere l’orgasmo, quasi simultaneamente, poco dopo.

Restammo ferme e in silenzio per un po’, l’una accanto all’altra, con le nostre cosce che ancora condividevano una frontiera. Si rigirò, prona, verso di me, sorrise, inserì una gamba tra le mie e mi baciò dolcemente. Mi sciolsi in quel bacio e strinsi le braccia intorno alla sua schiena, per avvicinarmi a lei. Annodai le mie gambe alle sue, carne e psiche impegnate a percepire e memorizzare ogni particolare di quella fusione, e ricambiai il soffice tocco della sua lingua. Ci guardammo, alla fine del bacio, e ridemmo, un po’ imbarazzate per quel contatto così intimo per cui non ci sentivamo ancora pronte. Con il pollice mi accarezzò affettuosamente le labbra e la fossetta, riemersa sul mio viso in quell’istante come se anche lei desiderasse le attenzioni di mia sorella; si scusò e senza aggiungere altro ritornò a distendersi accanto a me, permettendo ai nostri piedi di giocherellare tra di loro e alle mani di profondersi in carezze.

«Abbiam sogni però, troppo grandi e belli, sai… non è tempo per noi, e forse non lo sarà mai…», canticchiò con un granello d’amarezza le parole del famoso cantautore, recidendo le remiganti ai suoi desideri e facendoli precipitare nel fango.

«Nami, da quando ti conosco, non ho mai visto un ostacolo in grado di fermarti. Hai sfondato qualsiasi muro e realizzato ogni tuo sogno… bè, a parte quello di fare la ballerina classica, ma il tutù non ti si addice, sei troppo pallida per il rosa. Che cosa sono i sogni in fondo, se non la malta che tiene uniti i mattoni della realtà?»

Sorrise. Le incisi il battito del mio cuore sulla pelle e portai a spasso il mio indice, dal suo seno fino all’inguine e ritorno.

«Nami, io sono tua?»

«Sì, baka [2], e allo stesso modo io appartengo a te… e non picchiare nessuno, ok?»

Ridemmo insieme.

«Sara, il sole oggi ti ha fatto spuntare le lentiggini!»

Si voltò verso di me e mi baciò la fronte, le guance, il naso e la bocca; poi, senza bisogno di aggiungere altro, ci addormentammo; sfinite, ma soddisfatte.

— continua

[1] Componimento poetico formato da tre versi (per un totale di diciassette sillabe che seguono lo schema 5/7/5)
[2] Baka = termine giapponese, traducibile con “stupida” o “sciocca”.

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