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Padrona Elvira si sistemò nella sua sedia di pelle nera, un sorriso soddisfatto sulle labbra mentre severo, affermava la sua posizione di potere. Le “Steppe di Alcyone” e il guerriero Agave erano lontani, ma le lezioni apprese in quel viaggio avventuroso risuonavano ancora dentro di lei, alimentando la sua determinazione e la sua autorità.
Padrona Elvira, con la frusta in mano, si abbandonò a un sorriso malizioso mentre osservava Lia, inginocchiata e tremante davanti a lei. La frusta era un’estensione del suo potere, uno strumento che usava con maestria. Ogni colpo era calibrato per infliggere dolore e sottolineare la sua autorità. “Sei qui per servire, non per dissentire,” pensò, preparandosi a punire Lia. scrutava Lia, inginocchiata davanti a lei. La stanza era avvolta da un’atmosfera di potere e controllo, ogni oggetto ben posizionato a riflettere la sua autorità. Mentre Lia si sottometteva ai suoi comandi, Elvira non poteva fare a meno di tornare con la mente a un tempo in cui tutto questo era solo un sogno, un desiderio di gioventù.
Le tornò in mente un’avventura audace: quando, da giovane Amazzone, aveva deciso di affrontare il temuto guerriero Agave, noto per la sua ferocia e per aver ucciso numerose guerriere nei combattimenti. La sua fama era cresciuta così tanto che le Amazzoni, guidate dalla loro regina Raflesia, avevano messo una taglia di due milioni di dollari su di lui. Negli anni, però, nessuna era riuscita a catturarlo, e la paura si stava diffondendo tra le sue sorelle.
Elvira, la sorella minore di Raflesia, si era sempre sentita in ombra rispetto a lei, consapevole che il trono sarebbe andato alla sua maggiore. Non accettando mai di essere considerata seconda, Elvira era andata a studiare in Italia, lontano dal peso delle aspettative e dalle ombre di sua sorella. Ma quando apprese della morte delle due alfieri di Raflesia per mano di Agave, la paura la colpì come un fulmine. Non poteva permettere che il suo destino e quello della sua famiglia venissero compromessi da quel mostro.
Determinata a proteggere sua sorella e il regno delle Amazzoni, Elvira tornò nelle Steppe di Alcyone per catturare Agave e consegnarlo a Raflesia. La giungla era un luogo ostile, pieno di insidie e pericoli, ma la sua determinazione era ferrea. Ricordava le storie che giravano su Agave: astuto, forte, e abile nel combattimento, ma anche arrogante. Elvira sapeva che avrebbe dovuto usare non solo la forza, ma anche l’astuzia per sconfiggerlo.
Il viaggio attraverso la vegetazione non fu facile, ma ogni passo la avvicinava al suo obiettivo. Finalmente, quando si trovarono faccia a faccia, Elvira si rese conto che questo non era solo un combattimento fisico, ma anche un confronto di volontà. In quel momento, capì che il suo potere non proveniva solo dalla sua forza fisica, ma dalla sua determinazione a non essere vista come un’ombra.
Ora, seduta in quella sedia di pelle nera, il suo sorriso rifletteva non solo la soddisfazione di controllare Lia, ma anche la consapevolezza di essere una donna che aveva affrontato e vinto le proprie battaglie. “Sei mia,” sussurrò a Lia, un brivido di piacere correndo lungo la sua schiena e si diffondeva, risvegliando in lei un desiderio sottile e crescente. “Non dimenticare: qui non esistono diritti per te, solo obbedienza assoluta”
Elvira si rese conto che il suo passato l’aveva preparata per il presente. Con ogni comando dato, ogni sguardo
La sua mente, però, si allontanò per un attimo dal presente, riportandola a un ricordo vivido e potente: la fine di Agave. Non era solo un guerriero, ma un maestro dell’arte del combattimento. Con le sue asce, era in grado di affrontare qualsiasi avversario, lanciandole con una precisione mortale. Ogni colpo che infliggeva era un impatto brutale, la parte tagliente dell’ascia che fracassava i corpi dei suoi nemici.
Nella steppa, Padrona Elvira si trovava su un ripido pianoro, pronta a domare un cobra che si ergeva minaccioso, il corpo teso in segno di sfida. Il suo corpetto di pelle nera, aderente e ben strutturato, esaltava il suo aspetto fiero e dominante, mentre la gonna con spacco, gli stivali alti e i bracciali d’armatura le conferivano un’aura di forza e autorità. Con la frusta stretta nella mano, si sentiva pronta ad affrontare qualsiasi avversità. Il cobra, sibilando e agitando la lingua biforcuta, la fissava con i suoi occhi penetranti, mentre il sole, filtrando tra le fronde, creava un’atmosfera carica di tensione.
Mentre si preparava a colpire, avvertì la presenza di Agave, che stava salendo la montagna. Elvira si voltò per scrutare in basso, dove vide il guerriero a cavallo. La sua figura era imponente, vestita con una tuta di pelliccia di capra e la barba incolta che incorniciava un volto segnato dal tempo e dalle battaglie. Un occhio bendato, simbolo di una ferita inflittagli da un arciere di Raflesia, raccontava storie di scontri e di vendetta.
Elvira capì che era il momento di affrontarlo. Ma prima, per scaricare la tensione accumulata, decise di giocare con il cobra. La frusta si muoveva con grazia e precisione, colpendo l’animale con la punta tagliente. Il cobra, inizialmente indomito, tentò di fuggire, ma ogni tentativo di ritirarsi veniva punito con un colpo secco. La padrona lo stimolava a fuggire, colpendolo ripetutamente, un po’ come una gatta con il suo topo, il suo divertimento si mescolava a un’incredibile efficienza.
Quando il cobra, esausto e ferito, si accasciò a terra, Elvira desiderava assaporare il gusto della sofferenza, prolungando l’agonia del serpente per godere ogni istante. Ma il tempo stringeva e Agave stava arrivando. Così, con un colpo di tacco mortale, inflisse un colpo mirato, progettato per garantire al cobra una lunga agonia prima di morire. Schiacciò la testa dell’animale con il tacco dei suoi stivali, emettendo un suono sordo che riecheggiò nella steppa. Senti l’adrenalina pompare nel suo corpo, mentre si preparava per l’imminente incontro con Agave. Era tempo di mostrare a quel guerriero chi comandava veramente.
Intanto Lia si trovava in ginocchio, implorando perdono. La sua voce tremava mentre le parole le sfuggivano dalle labbra, un mix di paura e desiderio di sottomissione. Le sue mani tremanti si stringevano in segno di supplica, mentre gli occhi cercavano la benevolenza di Padrona Elvira.
Elvira, con la frusta sempre in mano, osservava la scena con un sorriso soddisfatto. Ogni supplica di Lia era un riconoscimento della sua autorità. “Pietà?”, chiese la Padrona, la voce carica di ironia. “Cosa credi di meritare, mentre ti trovi in questo stato?”
Lia, le labbra tremanti, balbettò parole di scuse e promesse di obbedienza. Ogni frase era un atto di umiliazione, ma anche di accettazione. La frusta di Elvira brillava sotto la luce del sole, un simbolo di potere e controllo. Mentre il cobra giaceva morto ai suoi piedi, la Padrona sapeva di aver raggiunto il culmine della sua autorità, e Lia era solo un ulteriore pezzo nel suo gioco.
“Riconosci la tua posizione, Lia, “continuò Elvira, avvicinandosi lentamente, “Perché questa è la tua vita adesso. Sottomissione, umiliazione, obbedienza.” Le parole cadevano come una sentenza, mentre Lia si accasciava ulteriormente, accettando il suo destino.
Ma in quel momento, nella mente di Elvira, riaffioravano i ricordi di Agave e della sua determinazione. La lotta con il cobra e il guerriero la preparavano a un confronto decisivo, e Lia doveva imparare la lezione: la vera forza era nella sottomissione.
Agave, alla vista della Padrona, scese immediatamente dal cavallo e si preparò a lanciare l’ascia. «Non c’è fretta, Agave», sussurrò Elvira con malizia, godendo del suo potere. «La sofferenza è un’arte, e il cobra è il mio capolavoro». Gli occhi del serpente, in preda al dolore, cercavano una via di fuga, mentre il suo respiro diventava sempre più affannoso.
Agave, si preparò a lanciare l’ascia. Elvira sorrise, alzando la sua frusta, mentre il cobra in agonia continuava a sbattere a terra. Agave non si rese conto che la sua fama di guerriero era ormai giunta al termine.
Con un colpo secco, lanciò quattro asce che volteggiavano in aria, ma la Padrona, con abilità e precisione, deviò le direzioni con la sua frusta. Si fermò un momento, confuso, cercando di capire cosa non fosse andato per il verso giusto. Con l’astuzia del predatore, prese la sua penultima ascia, la concentrò e la tirò con precisione verso Elvira, che prontamente schivò.
A questo punto, Agave afferrò la sua ultima ascia e si lanciò verso la Padrona. Ma non appena si avvicinò al raggio d’azione della frusta, Elvira lo colpì al braccio, facendogli cadere l’arma. Agave tentò di raccoglierla, ma la Padrona intervenne subito, colpendolo ripetutamente con la sua frusta.
Agave si lanciò verso l’ascia a terra, ma Elvira, rapida come un fulmine, posò un piede sopra la sua testa. Con il tacco affilato, gli inflisse un colpo in testa e gli avvolse la frusta attorno al collo, strattonandolo lontano dalla sua arma. In un ultimo disperato tentativo, Agave strappò un coltello dal suo stivale e cercò di attaccare la Padrona. Ma Elvira, con la punta della sua frusta e una precisione letale, lo colpì all’unico occhio rimasto. Ciecato, Agave cercava invano di colpirla, urlando in preda alla frustrazione.
Non aveva mai perso un combattimento in vita sua. Ma ormai non aveva più scampo; non conosceva la resa e continuava a cercare di parare i colpi subiti, malgrado le ferite. Questo atteggiamento divertiva l’amazzone, che poteva gustarsi la sua sofferenza a lungo. Colpi dopo colpi, però, il guerriero non indietreggiava, resistendo sotto la frusta della Mistress. La Padrona si divertiva a frustarlo con calma, esortandolo a arrendersi. Ma Agave, con l’orgoglio ferito, ribatté che nessuno lo avrebbe piegato; avrebbe combattuto fino alla morte. Elvira, imperturbabile, dichiarò di non avere intenzione di ucciderlo. «Ho già ucciso il cobra», disse, indicando il serpente morente ai suoi piedi.
Agave, sopraffatto dall’umiliazione, girò il coltello verso se stesso, pronto a porre fine alla sua vita. Ma la Padrona, con un colpo secco di frusta, gli strappò l’arma di mano. Avvicinandosi, gli inflisse un paio di schiaffi, riportandolo brutalmente alla realtà.
La Padrona, ora decisa a imporre la sua autorità, non gli lasciò scampo. Con colpi precisi e decisi, continuò a colpirlo, finché Agave non cadde a terra, impotente. Guardandolo giacere ai suoi piedi, Elvira si sentì in parte dispiaciuta. Era un peccato che, ormai ciecato, non potesse vedere il piacere che si rifletteva sul suo volto mentre lo calpestava.
Con ogni passo, gli dimostrava la sua superiorità, assaporando il potere che aveva su di lui. «È così che un guerriero finisce», mormorò con un sorriso malizioso. «Senza nulla da difendere, solo umiliazione e sconfitta».
Mentre giaceva a terra, Agave si sentiva avvolto da un’oscurità opprimente, il peso dell’umiliazione schiacciava il suo orgoglio. Non avrei mai dovuto lasciarmi sopraffare, pensò, ripensando a ogni colpo ricevuto. Ero un guerriero, un combattente temuto, e ora? La consapevolezza della sua impotenza lo divorava dall’interno.
Immagini di battaglie passate, di gloria e di vittoria, si affollavano nella sua mente, ora vuota e oscura. Elvira non è solo una donna; è il simbolo della mia sconfitta. Non posso più vedere il suo volto, ma posso sentirne la soddisfazione mentre trionfa su di me.
In quel momento, la sua determinazione vacillò. Non posso arrendermi completamente. Anche se cieco, la mia anima lotta ancora. Posso ancora rialzarmi, combattere… trovare un modo per liberarmi. Ma le parole della Padrona risuonavano nella sua mente, come un eco beffardo: “È così che un guerriero finisce.” D’istinto, Agave cercò di rialzarsi, spinto da un impulso di ribellione. Ma Mistress Elvira, avvertendo il suo tentativo, affondò i tacchi sulle sue braccia, immobilizzandolo. Con un gesto di superiorità, si posizionò verticalmente sopra il guerriero ormai privo di forze, godendo della sua totale impotenza.
Le sue scarpe affilate si confondevano con la sua figura imponente, mentre lo guardava dall’alto in basso, un sorriso di trionfo dipinto sul volto. Non c’è via di scampo, pensò Elvira, assaporando la sua vittoria. Agave, schiacciato sotto il peso della sua dominazione, si rese conto che ogni resistenza era inutile; era diventato un mero giocattolo nelle mani della sua padrona.
Mistress Elvira desiderava dominare completamente Agave, sentendo un’ondata di eccitazione per il gusto della vittoria. Il sole picchiava alto nel cielo, inondando la scena di calore e luce, mentre a pochi metri da loro il cobra si contorceva lentamente, una presenza inquietante che sembrava riflettere l’agonia del guerriero.
Con un sorriso malizioso, la Padrona si chinò leggermente, accarezzando il viso di Agave con la punta della frusta. «Arrenditi», sussurrò, la sua voce carica di autorità. «Accetta la tua sconfitta e riconosci la mia superiorità. Solo così potrai liberarti dal peso di questa umiliazione».
Agave, immobile e in preda alla frustrazione, sentiva la pressione di ogni parola. Ogni attimo che passava, la sua determinazione vacillava, mentre l’immagine della Padrona si erigeva sopra di lui come una divinità in trionfo. Cedere significa perdere tutto, pensava, ma l’idea di affrontare ulteriormente la sua sorte lo riempiva di un’angoscia opprimente.
Elvira continuava a osservarlo, divertita dalla sua resistenza. Desiderava vederlo accettare la sua sconfitta, inginocchiarsi e riconoscere il potere che aveva su di lui. L’agonia del cobra si faceva sempre più lenta, un triste riflesso del destino che attendeva anche Agave, se non avesse ceduto. La Padrona attese, bramosa di dominare completamente quel guerriero indomito.
Vedendo che Agave non poteva vedere il suo volto mentre lo dominava, Mistress Elvira decise che doveva fargli sentire la sua gioia. Si avvicinò ulteriormente, il suo corpo si piegava sopra di lui, emettendo un profumo di pelle e sudore mescolato al calore del sole.
«Se non puoi vedere il mio trionfo, allora sentirai il mio potere», dichiarò con voce sensuale, accentuando ogni parola. Con movimenti lenti e misurati, cominciò a graffiare la sua pelle con la punta della frusta, ogni colpo una dichiarazione della sua superiorità.
Agave, anche se privo della vista, sentì il brivido della frusta e l’adrenalina inondarlo. La frustrazione si mescolava all’ira, ma in quel momento non poteva negare l’intensità dell’umiliazione. Elvira continuò, alternando colpi delicati e affettuosi con quelli più duri, creando un contrasto che lo faceva tremare di impotenza.
«Senti il mio piacere», sussurrò, avvicinandosi ancor di più, il suo respiro caldo sul viso di Agave. «Ogni colpo, ogni istante, è una celebrazione della mia vittoria su di te.»
Mistress Elvira, sentendo l’eccitazione crescere dentro di sé mentre dominava il guerriero, si avvicinò ulteriormente ad Agave. Voleva mostrare la sua superiorità in un modo che avrebbe segnato profondamente la sua sconfitta.
«Sei un guerriero fiero, ma ora sei solo un gioco nelle mie mani», dichiarò, il tono della sua voce carico di autorità. Agave, nonostante la sua posizione vulnerabile, non mostrava segni di sottomissione. La sua resistenza alimentava ulteriormente il desiderio di Elvira di piegarlo.
Avvicinandosi, la Padrona decise di dare una lezione che Agave non avrebbe mai dimenticato. Con un gesto audace, si posizionò sopra di lui, lasciando che il suo dominio fosse assoluto. Mentre il guerriero la guardava, un misto di frustrazione e impotenza si leggeva nel suo sguardo.
«Non puoi sfuggire al tuo destino», sussurrò Elvira, prima di piegarsi in avanti e, con un gesto provocatorio, lo colpì con un atto di dominazione che lasciava pochi dubbi sul suo potere. Il suo corpo si trovava sopra di lui, un’affermazione definitiva della sua vittoria.
Agave, pur affrontando l’umiliazione, non cedette mai il suo orgoglio. Ma in quel momento, Elvira sentì la potenza del suo dominio, ogni istante intensificava la sua eccitazione, mentre il guerriero, incapace di reagire, rimaneva intrappolato nella sua vulnerabilità.
«Questo è solo l’inizio», concluse, il suo sguardo fisso in quello di Agave, pronto a continuare la sua danza di potere.
Elvira si sollevò lentamente, gustando ogni istante di quella vittoria conquistata con audacia e forza. I suoi occhi brillavano di un’intensa soddisfazione mentre osservava Agave, ancora fermo a terra, il corpo segnato dai colpi e dall’umiliazione. Nonostante tutto, però, lui continuava a guardarla con uno sguardo fiero, ostinato, come se nulla potesse davvero piegarlo.
Questo accese ulteriormente la determinazione della Padrona. “Ancora resistenza?” sussurrò, quasi divertita, inclinando il capo con un sorrisetto. Ogni fibra del suo corpo fremeva per spingerlo al limite, costringerlo a riconoscere la sua autorità, senza che lui potesse negare il potere che lei aveva imposto.
Si chinò verso di lui, lasciando che il bordo della sua frusta gli sfiorasse il viso con delicatezza, un gesto quasi gentile, ma carico di una sottile minaccia. «Sai, Agave, ammiro il tuo spirito, ma c’è un limite per tutti. Riconoscilo e forse potrai risparmiarti ulteriori sofferenze.»
Agave, con un filo di voce spezzata ma ferma, replicò, «Mi spezzerai il corpo, ma il mio spirito è fatto di ferro. Non piegherò il capo a nessuno, nemmeno a te.»
Elvira si lasciò sfuggire una risata bassa e soddisfatta. «Oh, vedremo, guerriero. Vedremo fino a dove riuscirai a resistere.» Avanzò di nuovo, posizionandosi accanto a lui, un piede sul suo petto per impedirgli di rialzarsi, il peso del suo stivale che rendeva ogni suo movimento un’impresa impossibile. Con una calma glaciale, scoccò un altro colpo di frusta, questa volta mirato a colpirlo non solo nel corpo, ma nell’orgoglio.
Mentre il sole calava e il crepuscolo abbracciava la giungla, Agave, ormai conscio della sua vulnerabilità, percepiva che quella lotta non sarebbe mai stata come le altre. La Padrona, sicura e inesorabile, aveva trasformato il campo di battaglia nel suo dominio personale, e lui, nonostante la sua forza, era intrappolato in quella morsa di potere senza scampo.
Elvira lo sovrastava, impassibile e fiera, il piede fermo sul petto di Agave. Sebbene ormai cieco, il guerriero cercava ancora di reagire, un’ultima scintilla di resistenza che non riusciva a spegnersi del tutto. Elvira percepiva quel suo tentativo disperato, e la consapevolezza della sua vittoria, del controllo totale che ora aveva su di lui, le scatenava una sensazione di puro piacere. Sentiva il cuore battere con forza, l’adrenalina e la supremazia l’avvolgevano in un brivido.
Elvira sentiva un’ondata di eccitazione crescere dentro di lei, alimentata dalla visione di Agave, ormai sconfitto e vulnerabile sotto di lei. Desiderava che lui si arrendesse completamente, che smettesse di lottare e riconoscesse il suo dominio. L’idea di avere il potere assoluto, di vederlo piegarsi e offrirsi per il suo piacere, le scatenava un brivido ancora più forte. Avrebbe voluto che quell’attimo si prolungasse, che Agave accettasse il suo destino e si sottomettesse totalmente a lei, suggellando la sua vittoria con una devozione senza riserve.
Elvira percepì l’inflessibilità di Agave, un ultimo baluardo di ribellione che brillava nei suoi occhi spenti. Sapeva di avere il dominio assoluto sul suo corpo, ma il suo spirito rimaneva intatto. Agave non cedeva, anzi, la sfidava persino con le sue ultime forze. “Finiscimi,” sussurrò, incitandola, la voce ferma nonostante il dolore. “Spezzami, ma io non mi piegherò.” Questa sua ostinazione, il rifiuto a sottomettersi fino alla fine, provocava in lei un misto di irritazione e ammirazione, alimentando quel desiderio oscuro di spegnere la sua resistenza, pur consapevole che la sua vittoria non sarebbe mai stata completa.
«Volevi combattere fino alla fine? Ebbene, così sarà,» sussurrò con voce tagliente e implacabile, vicinissima al suo viso, sapendo che lui poteva solo ascoltare le parole che lo sottomettevano. Ogni frase era una dimostrazione di forza, una catena che andava a spezzare l’ultimo barlume di resistenza che lui tentava di mantenere.
Sentendo il peso della Padrona e il tono deciso delle sue parole, Agave percepì che non c’era possibilità di sfuggire al suo dominio. Anche senza vederla, ogni fibra del suo corpo era consapevole della supremazia di lei, e del piacere che ne traeva. Lei si abbassò, colmando la distanza tra loro, intrappolando la sua testa tra le sue cosce, in un gesto che traduceva il suo potere in modo irrevocabile, sposto con un dito i suoi slip da sopra la pelle, rivelando la fica ed il suo flusso caldo iniziò a fuoriuscire. Questo era il segno definitivo che lui era stato domato, un guerriero piegato al suo volere.
Sollevandosi infine, Elvira lo guardò con compiacimento, pur sapendo che lui non avrebbe mai visto il sorriso trionfante sul suo viso.
“Alzati,” ordinò, “non posso perdere tempo con te e le tue fissazioni. Devo consegnarti a mia sorella, incassare la taglia e andarmene. Ti rispetto perché so che sei un vero guerriero e non ti piegherò, perché tu non ti pieghi, ma ti fai spezzare. Oggi hai perso.”
Le legò il collo con la frusta e lo strattonò verso il cavallo. Una volta in sella, con una mano teneva la frusta come una corda, tirando Agave che inizialmente opponeva resistenza. Ma, rendendosi conto che quella era la sua sorte, cominciò a seguire il passo deciso della Padrona, lasciandosi trascinare verso Raflesia.
Mentre si avvicinavano, Padrona Elvira rispettosamente disse: “Nessuno ti piegherà, Agave. Tu sei un guerriero, e se mia sorella Raflesia non ha intenzione di ucciderti come un guerriero, sarò io a finirti con un pugnale.” Agave, con un misto di rispetto e gratitudine, rispose: “Ti ringrazio per questo.”
Mentre Padrona Elvira ricordava con grande rispetto Agave, il grande guerriero che si era fatto spezzare pur di non piegarsi, si passava il manico della frusta da una mano all’altra, sentendo il potere di quel gesto. Lia, inginocchiata sotto il suo dominio, implorava perdono. I suoi occhi si muovevano nervosamente, cercando di trovare conforto nella vastità del mondo esterno, mentre la Padrona rifletteva sull’immagine del cobra velenoso che strisciava e moriva sotto i suoi piedi, un simbolo del potere e del controllo che Elvira esercitava su tutto ciò che la circondava.
La Padrona, con un sorriso di complicità e autorità, osservava Lia. La giovane, pur di evitare una punizione, si prendeva cura con devozione dei preziosi piedi della sua proprietaria, accarezzandoli delicatamente, come se potesse placare la furia di Elvira con la sua sottomissione. Ma la Padrona non era lì per mostrare clemenza.
Con un movimento felino, si alzò di scatto e afferrò Lia per i capelli, costringendola a sollevarsi. “Guarda che posti occupi,” disse, mentre metteva la testa della giovane sopra la sedia e si sedeva sulla sua faccia, schiacciandola sotto il suo peso. “Resterai qui, sotto di me, fino a quando non decido diversamente.”
Lia, intrappolata sotto il corpo di Elvira, sentiva il calore e il potere della Padrona sopra di sé. Ogni respiro era un richiamo al rispetto e alla sottomissione, ogni battito del cuore un ricordo di quanto fosse insignificante in confronto a quell’essere dominatore. E mentre il mondo esterno continuava a girare, nella giungla e oltre, Lia si ritrovava a riflettere su come fosse profondo e vasto il regno della Padrona, un luogo dove ogni creatura, grande o piccola, doveva piegarsi o soccombere.
La Padrona Elvira, comodamente sistemata sulla faccia di Lia, si sentiva invincibile. Il suo sorriso si ampliava mentre osservava la giovane dibattersi, il viso rosso di imbarazzo e umiliazione. “Questo è ciò che significa servire, Lia,” disse con un tono di voce fermo e autoritario. “Non è solo una questione di piacere, ma di accettazione del proprio posto nel mondo.”
Mentre Lia cercava di adattarsi alla situazione, il suo cuore batteva forte. Si sentiva oppressa, ma una parte di lei trovava una strana forma di conforto in quella sottomissione. Era come se, in quel momento, tutto il peso delle aspettative e delle responsabilità si fosse dissolto, lasciando solo il desiderio di compiacere la Padrona.
Elvira si alzò lentamente, lasciando Lia gasping e impotente sul pavimento. “Non dimenticare mai il tuo posto,” sussurrò, accarezzando la sua frusta con affetto, come un amante appassionato. “Oggi hai avuto una lezione, ma non è finita qui.”
Con un gesto deciso, la Padrona afferrò Lia per il mento e la costrinse a guardarla negli occhi. “Ogni tua resistenza è una sfida, e io non tollererò sfide,” continuò, la voce bassa e carica di minaccia. “Il tuo corpo e la tua mente mi appartengono. Non ci sarà pietà.”
Mentre Lia annuiva, consapevole della sua vulnerabilità, Elvira la liberò e la costrinse a inginocchiarsi di fronte a lei. “Ora, mostrami quanto sei disposta a servire,” ordinò. “Toglimi la mia scarpa.”
Lia si avvicinò, le mani tremanti mentre afferrava il tacco della scarpa di pelle nera. Ogni movimento era una dichiarazione di sottomissione, e mentre la scarpa scivolava via, si sentì come se stesse svestendo un pezzo del potere di Elvira. Ma sapeva che quel potere era incolmabile; per ogni passo avanti, ce ne sarebbe stato uno indietro.
Elvira guardò con soddisfazione mentre Lia si dedicava a quei gesti, il suo cuore colmo di orgoglio e controllo. Era tornata a pensare a Agave, il guerriero indomito, e si chiedeva se mai avrebbe dovuto affrontare una sconfitta simile. Ma in quel momento, non c’era spazio per il passato; solo il presente, e Lia, pronta a servirla con ogni fibra del suo essere.
Mentre Lia si piegava in avanti per togliere la scarpa, il silenzio della stanza era carico di un’intensità palpabile. Ogni gesto, ogni sussurro sembrava amplificato, come se il mondo esterno fosse svanito, lasciando solo il legame tra la Padrona e la sua serva. Quando Lia posò la scarpa sul pavimento, Elvira si sentì soddisfatta; quella era una piccola vittoria, ma anche un segno di totale sottomissione.
“Brava,” disse Elvira, la voce che mescolava approvazione e autorità. “Ma non è abbastanza. Il tuo compito non è solo servire, ma imparare a comprendere il vero significato della sottomissione.”
Lia sollevò lo sguardo, i suoi occhi pieni di una misto di paura e desiderio. “Cosa devo fare, Padrona?” chiese, la voce tremante.
“Devi capire che ogni tuo movimento ha un significato. Devi imparare a leggere i miei desideri senza che io debba pronunciarli,” rispose Elvira, camminando lentamente attorno a Lia. “Ogni volta che mi deludi, ci saranno conseguenze.”
Con un gesto fluido, Elvira afferrò di nuovo la frusta e la scosse delicatamente. “Oggi ti mostrerò la differenza tra piacere e dolore.”
Lia si sentì gelare. Non aveva mai visto la Padrona così determinata. “Sì, Padrona,” mormorò, mentre il cuore le batteva forte nel petto.
Elvira si fermò davanti a Lia, osservandola come un falco che scruta la sua preda. “Inginocchiati e allunga le mani,” ordinò, e Lia obbedì immediatamente. Le sue mani tremavano mentre si preparava a ricevere il colpo, ma c’era anche una piccola scintilla di anticipazione in fondo al suo cuore.
“Ricorda,” disse Elvira, “ogni colpo è un’opportunità per crescere. Non lamentarti. Sii grata per l’insegnamento.” Con un movimento deciso, colpì Lia con la frusta, il suono netto riecheggiò nella stanza.
Lia trattenne un respiro, sentendo il dolore che si mescolava a una strana forma di piacere. Era come se ogni colpo le insegnasse qualcosa di nuovo, qualcosa di profondo e trasformativo. “Grazie, Padrona,” sussurrò, mentre si riprendeva dall’impatto.
Elvira sorrideva, soddisfatta della risposta. “Molto bene. Ora che hai assaporato il dolore, passiamo al piacere. Ma prima, voglio che tu ti concentri. In questo gioco, è fondamentale che tu comprenda le tue emozioni.”
E mentre Elvira continuava a guidare Lia attraverso questo complesso intreccio di emozioni, il pensiero di Agave si affacciò di nuovo nella sua mente. “Se solo tu potessi vedere come si piega il potere,” pensò, un sorriso malizioso sul volto, “potresti capire che non è mai finita finché non lo decido io.”
Con un gesto fluido, la Padrona abbandonò la frusta e si avvicinò a Lia, le dita che accarezzavano delicatamente il suo viso. “Ora, voglio che tu impari a rispondere ai miei desideri. Iniziamo.”
Lia si trovava ancora inginocchiata, il cuore in tumulto mentre il tocco di Elvira le percorreva la pelle. La Padrona si piegò leggermente in avanti, i suoi occhi che scintillavano di un’intensa determinazione. “Devi imparare a lasciarti andare, Lia. La sottomissione non è solo obbedienza, è una forma di libertà. Solo chi è pronto a cedere il controllo può veramente conoscere se stesso.”
Le parole di Elvira risuonavano nella mente di Lia come un mantra. Era una verità che l’attraversava, penetrando nel suo essere. “Sì, Padrona,” mormorò, gli occhi pieni di ammirazione e un po’ di timore. Ogni momento sotto il suo dominio sembrava un’opportunità per scoprire nuovi lati di sé.
Elvira si allontanò per un attimo, il suo sguardo severo, mentre si dirigeva verso la scrivania. Aprì un cassetto e ne tirò fuori un piccolo cofanetto di legno intagliato. Con un gesto solenne, lo posò davanti a Lia. “Questa è la chiave del tuo prossimo passo. In questo cofanetto ci sono gli strumenti che ti aiuteranno a comprendere il vero significato della sottomissione.”
Lia, curiosa, si avvicinò e aprì il coperchio. All’interno, trovò una serie di oggetti: corde, bende, e una maschera di pelle. Ogni pezzo sembrava raccontare una storia, un invito a esplorare territori inediti. “Scegli ciò che desideri utilizzare, ma ricorda: ogni scelta ha le sue conseguenze,” avvertì Elvira, il tono serio ma con un accenno di divertimento.
“Posso provare la maschera?” chiese Lia, un misto di trepidazione e desiderio nei suoi occhi.
“Assolutamente,” rispose Elvira, incrociando le braccia mentre osservava Lia indossare la maschera. “Ricorda, non puoi vedere tutto. Ma in questo buio, dovrai imparare a sentire e a fidarti di me.”
Con la maschera che le copriva il volto, Lia si sentì vulnerabile eppure incredibilmente viva. Ogni suono era amplificato, ogni battito del cuore risuonava come un tamburo nel suo petto. “Che devo fare ora, Padrona?”
Elvira sorrise, un sorriso che nascondeva un mistero. “Devi ascoltare. Ora chiudi gli occhi e lascia che i tuoi sensi ti guidino. Sentirai la mia voce, le mie indicazioni, e dovrai seguirle.”
Lia chiuse gli occhi, il cuore che pulsava mentre si sforzava di concentrarsi solo sul suono della voce della Padrona. “Bene. Alzati lentamente e fai un passo avanti.”
Lia obbedì, i suoi sensi acuiti dalla maschera. Ogni movimento era un atto di fiducia, una danza delicata tra sottomissione e scoperta. “Adesso gira a sinistra,” ordinò Elvira. Lia si girò, il suo respiro diventava più profondo, quasi come se ogni passo fosse un nuovo inizio.
“Ottimo,” commentò Elvira, la soddisfazione nelle parole. “Adesso, solleva una mano e tocca il mio braccio. Devi imparare a sentire la mia presenza.”
Il contatto con la pelle di Elvira fu elettrizzante per Lia. Ogni attimo di contatto sembrava infonderle forza e coraggio. “Mi fido di te,” sussurrò.
Elvira sorrise, colpita dalla risposta. “Questo è solo l’inizio, Lia. Ogni passo che fai è un segno di crescita. Ma ora, preparati: voglio che tu senta il potere della mia frusta. Non per punirti, ma per guidarti.”
Con un colpo fluido, Elvira colpì delicatamente Lia con la frusta, l’impatto era deciso ma non doloroso. Lia sobbalzò, sentendo una miscela di emozioni: paura, ma anche una strana forma di liberazione. “Senti questo? È un segno del tuo progresso,” disse Elvira. “È la tua evoluzione.”
Mentre Lia cercava di assimilare l’esperienza, la Padrona continuava a incoraggiarla, la sua voce melodiosa che si intrecciava con il suono della frusta che colpiva la pelle. “Ogni colpo ti avvicina alla comprensione di te stessa, Lia. Questo è il tuo viaggio, e io sono qui per guidarti.”
Lia sentì l’adrenalina scorrere nelle sue vene mentre i colpi della frusta di Elvira si facevano più frequenti, ogni tocco un promemoria della sua esistenza nel momento presente. Ogni volta che la frusta si posava sulla sua pelle, un brivido di paura e piacere la attraversava, come un’onda che si infrange sulla riva. “Senti il potere che fluisce in te,” esortò Elvira, la sua voce calma e ferma. “Ogni colpo è un passo verso la libertà.”
Con ogni colpo, Lia scopriva una nuova dimensione di sé. La frusta non era solo uno strumento di punizione, ma un mezzo per liberare emozioni represse, un canale per esplorare la sua sottomissione. “Questo è solo l’inizio,” continuò Elvira. “La sottomissione richiede coraggio. Devi affrontare le tue paure.”
Le parole di Elvira risuonavano in Lia mentre si sforzava di rimanere concentrata. Non c’era nulla di più liberatorio che abbandonarsi a quel momento, lasciando andare il controllo. “Mi fido di te, Padrona,” ripeté Lia, sentendo un’ondata di gratitudine.
“Bene, Lia,” rispose Elvira, la sua voce morbida come il velluto. “Ora voglio che tu ti immerga completamente in questa esperienza. Lascia che il tuo corpo reagisca. Non pensare a nulla, solo senti.”
Elvira continuò a colpirla con delicatezza, ogni colpo progettato per stimolarla e incoraggiarla. Lia si lasciò andare, abbandonando ogni pensiero razionale, mentre il mondo esterno svaniva. Si concentrava solo sul suono della frusta e sul battito del suo cuore, che ora sembrava sincronizzato con ogni colpo.
“Ecco, ora siamo unite in questo momento,” disse Elvira, osservando Lia con uno sguardo approvante. “Siamo in simbiosi. Ogni azione ha una reazione, e oggi tu imparerai a essere forte attraverso la tua vulnerabilità.”
In quel momento di intensa connessione, Lia si sentì avvolta da una sorta di estasi. Ogni colpo era come un abbraccio, ogni movimento della frusta era una danza. “Questo è il tuo potere, Lia,” continuò Elvira. “Impara a danzare con esso. Non avere paura di essere vulnerabile, perché è lì che troverai la tua vera forza.”
A poco a poco, Lia si rese conto che il dolore non era altro che un’espressione della sua libertà. La sua mente si svuotò, e il suo corpo rispose in modo naturale a ogni colpo. “Grazie, Padrona,” sussurrò, il suo cuore gonfio di gratitudine e rispetto.
Elvira, visibilmente soddisfatta, si avvicinò e sollevò delicatamente la maschera di Lia, rivelando il suo viso luminoso e le lacrime di gioia che scorrevano lungo le sue guance. “Vedi, Lia? Ogni lacrima è una testimonianza della tua crescita. Non c’è vergogna in esse.”
Ora, con gli occhi liberi dalla maschera, Lia poteva vedere il mondo con nuova chiarezza. Ogni piccolo dettaglio brillava di una luce diversa, e la presenza di Elvira era una costante rassicurante. “Preparati, perché la tua formazione non finisce qui,” avvertì la Padrona, con un sorriso enigmatico. “Abbiamo ancora molte cose da esplorare insieme.”
Mentre la frusta di Elvira si appoggiava dolcemente sulla spalla di Lia, quest’ultima si rese conto che il loro legame stava crescendo. Non era più solo una questione di dominio e sottomissione, ma un profondo rispetto reciproco e un’unione di spiriti. Lia si sentiva pronta ad affrontare qualsiasi sfida, insieme alla sua Padrona.
Padrona Elvira si alzò, il suo sguardo fisso su Lia, mentre il ricordo di Agave risuonava nella sua mente come un’eco di potere e sfida. Con un gesto deciso, afferrò i capelli di Lia, costringendola a inginocchiarsi di fronte a lei. La frusta scattò come un serpente, colpendo il pavimento con un suono secco e autoritario.
“Tu non sei niente in confronto a lui,” dichiarò Elvira, il tono freddo e imperioso. “Agave ha combattuto e ha resistito, ma tu, mia cara, sei qui per servire.”
Un pensiero tormentoso attraversò la mente di Elvira: la fine di Agave. La Padrona si rese conto di quanto quel guerriero, pur essendo considerato un perdente, meritasse rispetto. Non si era piegato al suo potere, e il suo sacrificio richiedeva onore, non disprezzo.
Con una smorfia di disprezzo, Elvira si voltò verso il cavallo dove Agave giaceva, ancora prigioniero. Un guerriero in catene, ma mai domo. Si era fatto ammazzare pur di non cedere, mantenendo la sua dignità fino all’ultimo respiro. Quella ferrea determinazione meritava rispetto, e la Padrona sapeva che non poteva trattarlo come un comune prigioniero.
Quando finalmente si presentò davanti a sua sorella, la Regina delle Amazzoni, nota tra i suoi come “Raflesia” per la sua bellezza letale e l’aura irresistibile che emanava, Elvira avvertì il peso della sua decisione. Raflesia si ergeva come una visione di potenza e fascino oscuro. Indossava una lunga veste scarlatta, realizzata con tessuti leggeri che ondeggiavano a ogni suo movimento, avvolgendo il suo corpo come il petalo di un fiore velenoso. I ricami dorati si snodavano in motivi sinuosi che evocavano serpenti arrotolati, richiamando il potere ipnotico che esercitava su chiunque la guardasse. Le spalle erano scoperte, rivelando una pelle abbronzata e segnata da tatuaggi tribali, simboli antichi che raccontavano le sue vittorie.
Cinturoni in cuoio nero, borchiati d’argento, le cingevano la vita sottile, delineando le curve del suo corpo con sensualità pericolosa. Da uno di questi pendeva una frusta lunga e decorata con perline scure, un’arma che era al tempo stesso ornamento e promemoria delle sue abilità di guerriera. Le gambe, forti e snelle, erano parzialmente coperte da stivali alti, finemente intagliati con motivi geometrici, che risalivano sopra le ginocchia, aderendo perfettamente alla sua figura e conferendole l’aspetto di una dea della guerra. A completare il tutto, un copricapo elegante e imponente: una corona intessuta con piume nere e scarlatte, che si innalzavano alte e conferivano al suo volto un’aura di regalità indiscussa.
Raflesia fissò Elvira con uno sguardo tagliente, capace di piegare l’acciaio. Anche nella sua calma, ogni movimento di lei emanava una forza indomabile, un fascino che avvolgeva come una trappola da cui nessuno poteva uscire illeso. Elvira percepì la potenza della sorella, un fascino letale che pochi uomini avevano saputo tollerare e dal quale nessuno era mai uscito indenne.
Elvira, aveva attraversato il vasto salone, il suono dei suoi passi risuonava contro le pareti ornate di arazzi e armi antiche. Dietro di lei, trascinato in catene, c’era Agave, il guerriero fiero e indomabile, ora ridotto alla sua umana vulnerabilità, ma con lo sguardo ancora colmo di orgoglio e sfida.
La Regina, avvolta in un’aura di autorità e freddezza, scrutava Elvira con uno sguardo penetrante e calcolatore. Intorno a lei, l’aria sembrava fermarsi, come se persino l’ambiente si piegasse al suo volere. Elvira si fermò a pochi passi da Raflesia, mantenendo una posizione fiera e imperturbabile, sentendo il peso della decisione che gravava su di lei.
“Lo consegno a te, sorella,” disse Elvira, con una voce fredda ma ferma. “Io l’ho sconfitto, ma non sono riuscita a piegarlo.” Mentre lo diceva, due serve avanzarono e, sotto lo sguardo vigile della Regina, legarono i polsi e le caviglie di Agave con catene, costringendolo a inginocchiarsi. Nonostante il suo corpo fosse piegato, nei suoi occhi rimaneva una scintilla di sfida.
La Regina rise, un suono carico di disprezzo e soddisfazione, fissando la sorella con occhi brillanti di divertimento e superiorità. “E quindi cosa intendi fare, Elvira?” le domandò, il suo tono intriso di ironia.
Elvira non rispose subito. Guardò invece Agave, e in quel momento capì davvero cosa significasse per lui il rispetto: non la sottomissione, ma la libertà di essere sé stesso fino alla fine.
Con uno sguardo fermo, Elvira rispose: “Ho giurato ad Agave di rispettarlo, e non posso lasciarlo vivere come un uomo spezzato.” La tensione nell’aria si fece palpabile mentre la Padrona, per mantenere il suo giuramento e onorare la determinazione di Agave, alzò il pugnale.
Con un colpo deciso, lo infilzò davanti agli occhi della regina, il gesto un tributo al guerriero che aveva resistito. La vita di Agave si spense in un attimo, mentre Elvira lo guardava con ferma determinazione. “In questo modo, tu non sarai mai un uomo in catene,” sussurrò, un misto di tristezza e rispetto per la sua scelta.
Mentre la Regina osservava, stupita e silenziosa, Elvira capì che la vera vittoria non si trovava nel dominio, ma nel rispetto e nella libertà che si era guadagnata attraverso la scelta di Agave di non piegarsi mai.
Padrona Elvira si trova a riflettere sulla natura dell’autorità e sulla forza interiore, riconoscendo una verità fondamentale: nel mondo esistono persone destinate a essere piegate, come Lia, e altre, come Agave, che non si arrenderanno mai. Questo pensiero la colpisce profondamente, poiché comprende che la vita di Agave, finita tragicamente per la sua fermezza, è un riflesso della nobiltà che lei stessa ammirava. Se fosse stata al suo posto, avrebbe agito allo stesso modo, rifiutando di piegarsi anche di fronte alla morte.
Questa consapevolezza, tuttavia, la riempie di una nuova eccitazione. Elvira realizza che la vera sfida è quella di opporsi al suo potere, e che il guerriero capace di farlo deve ancora nascere. In quel momento, il suo desiderio di dominio si intensifica. Si rivolge a Lia con uno sguardo ardente, la frusta in mano, decisa a mantenere il suo controllo assoluto.
“Tu hai osato sfidarmi,” dichiara, la voce carica di autorità. “E per questo, dovrai imparare cosa significa servire davvero.” Elvira sente il brivido del potere che scorre in lei, consapevole che la sua posizione è sicura solo se riesce a mantenere il controllo su chi è destinato a piegarsi.
Con questo pensiero, la Padrona si prepara a infliggere la sua volontà su Lia, riconoscendo nel suo atto di dominio la necessità di riaffermare la sua superiorità. La sfida di Lia diventa quindi il terreno su cui Elvira esercita la sua autorità, trasformando ogni gesto in un monito a chiunque osi metterla in discussione.
In questo modo, la dinamica di potere tra le due donne si fa sempre più intensa, con Elvira che cerca di plasmare Lia non solo come un servitore, ma come un esempio vivente di ciò che significa piegarsi davanti alla vera forza.
Lia tremò, il suo cuore batteva forte. Elvira la costrinse a sollevare lo sguardo, il suo volto era un misto di paura e desiderio. “Sarai la mia umile servitrice, e ogni resistenza sarà punita severamente.”
Con un movimento rapido, Elvira spinse Lia sul pavimento, sedendosi sopra di lei con un peso che non ammetteva ribellione. “Sei stata avvisata. Ora, accetta il tuo destino.”
La Padrona afferrò la frusta con un gesto deciso, posandola delicatamente sulla pelle di Lia, un tocco sottile che portava con sé il peso di una promessa inquietante. “Impara a obbedire,” sussurrò, il suo tono carico di un’autorità indiscutibile. “Impara a servire. Solo allora potrai scoprire la vera liberazione che deriva dal tuo sottomettere. La libertà non è assenza di legami, ma il riconoscimento del tuo posto in questo mondo.”
Lia, ormai rassegnata, chiuse gli occhi, accettando il suo ruolo, mentre Elvira, con un sorriso di soddisfazione, abbandonava il pensiero di Agave, il guerriero che non si era mai piegato, ma che ora sembrava un lontano ricordo, oscurato dal suo dominio.
E così, il capitolo si chiuse, con la Padrona Elvira in trono, avvolta dalla potenza della sua autorità, mentre Lia si trovava ai suoi piedi, pronta a a servire i suoi bisogni
Questo racconto è tratto dal romanzo Dea Elvira, di prossima uscita. Per commenti, critiche e suggerimenti, potete scrivere a questa email: errygranduca@gmail.com

Granduca

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