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Una perversa menzogna – capitolo 3

By 14 Novembre 2025No Comments

Il treno scivolava tra le colline toscane mentre Sara premeva la fronte contro il vetro freddo del finestrino. I campi si succedevano in una sinfonia di verde che la ipnotizzava, ogni chilometro che la allontanava da casa era un passo verso qualcosa che non riusciva ancora a definire completamente.
Tre settimane. Tre settimane erano passate da quando aveva convinto i genitori, da quando aveva visto nei loro occhi quell’orgoglio misto a preoccupazione per la loro “brava bambina” che partiva per il suo primo corso universitario. Avevano insistito per accompagnarla alla stazione, naturalmente. Papà con la sua aria protettiva, mamma con le raccomandazioni infinite su come comportarsi, come vestirsi, come non fidarsi degli sconosciuti.
Se solo sapessero.
Sara si girò a guardare la valigia blu accanto a lei, quella discreta e sobria che sua madre aveva scelto con cura. Dall’esterno sembrava identica a quella che aveva preparato insieme a lei tre giorni prima, piena di magliette larghe, jeans comodi e scarpe da ginnastica. Ma non lo era.
Il sorriso le si allargò sul viso mentre ricordava lo scambio alla stazione. Cinque minuti di confusione apparente nei bagni pubblici, e la trasformazione era già iniziata. Ora, nella valigia blu, c’erano vestiti che sua madre non aveva mai visto, che non avrebbe mai approvato. Tacchi che facevano male solo a guardarli, gonne che lasciavano poco all’immaginazione, reggiseni che spingevano invece di nascondere.
Il controllore passò nel corridoio e Sara raddrizzò automaticamente la schiena, assumendo quella postura composta che aveva perfezionato in diciott’anni di “come si deve comportare una signorina”. Ma era solo un riflesso ormai, un’abitudine che presto avrebbe dismesso come un vestito troppo stretto.
Il vecchietto di fronte aveva finalmente ceduto al dondolio del treno, la testa reclinata contro il finestrino e un leggero russare che si perdeva nel rumore delle rotaie. Sara osservò il vagone quasi vuoto – solo una coppia di turisti tedeschi concentrati sulla loro guida di Firenze e una donna d’affari al telefono tre file più avanti.
Il momento era perfetto.
Sara si alzò dal sedile con un movimento fluido, afferrando il sacchetto di plastica nera che aveva nascosto nel fondo della valigia. Il cuore le batteva forte mentre percorreva il corridoio oscillante del treno, le suole delle scarpe da ginnastica silenziose sul pavimento metallico.
Il bagno era angusto e puzzava di disinfettante industriale, ma a Sara non importava. Girò la chiavetta della porta e si guardò allo specchio fluorescente. L’ultima volta che avrebbe visto quella ragazza.
Si sfilò la felpa grigia che sua madre aveva insistito portasse perché comoda per il viaggio, poi i jeans larghi che nascondevano ogni curva del suo corpo. Il reggiseno bianco di cotone atterrò sul piccolo lavandino insieme alla maglietta della Benetton. Rimase in piedi, nuda tranne per un paio di mutandine minuscole di pizzo nero che aveva comprato online e nascosto per settimane.
Dal sacchetto estrasse i sandali dorati, quelli con i lacci che si avvolgevano sinuosi intorno ai polpacci. Li indossò lentamente, godendosi la sensazione del cuoio contro la pelle, la stabilità precaria dei tacchi a spillo che la obbligavano a cambiare postura.
Il tubino giallo scuro scivolò sul suo corpo come una seconda pelle. Il tessuto aderiva a ogni curva, la scollatura scendeva pericolosamente verso l’ombelico. Senza reggiseno, i capezzoli si indurirono contro il tessuto freddo, creando due piccole protuberanze che non potevano passare inosservate.
Le unghie posticce rosso fuoco si applicarono una per una, trasformando le sue dita da quelle di una studentessa modello a artigli sensuali. Il trucco seguì con precisione chirurgica: ombretto scuro che faceva sembrare gli occhi più grandi e pericolosi, eyeliner che si allungava verso le tempie, rossetto dello stesso rosso delle unghie che rendeva le labbra carnose e invitanti. Due grandi orecchini circolari completarono il quadro.
Si girò davanti al piccolo specchio, studiandosi da ogni angolazione. I capelli biondo-castano che prima le ricadevano docili sulle spalle ora li aveva raccolti in una coda alta che scopriva il collo e accentuava la scollatura.
La ragazza che la guardava dal riflesso non era più Sara D’Alessi, la brava studentessa di liceo linguistico. Era qualcun’altra, qualcuna che non aveva paura di essere guardata, desiderata, giudicata.
Raccolse i vestiti scartati e li infilò nel sacchetto nero. Quando aprì la porta del bagno, i suoi tacchi risuonarono diversamente sul pavimento del treno. Ogni passo era una dichiarazione, ogni movimento una promessa.
Il ritorno al posto fu un’odissea di equilibrio precario. Sara si aggrappò ai braccioli dei sedili mentre il treno dondolava, i tacchi che scivolavano sul pavimento metallico a ogni curva. Le caviglie le dolevano già, non abituate a sostenere il peso del corpo su quelle punte sottili, e ogni passo richiedeva una concentrazione che non aveva mai dovuto usare per camminare.
Il vecchietto si svegliò proprio mentre lei si stava avvicinando al loro settore. Gli occhi grigi si aprirono lentamente, ancora appannati dal sonno, poi si spalancarono di colpo quando la videro. La bocca gli si aprì in una piccola “o” di sorpresa, le rughe intorno agli occhi si fecero più profonde mentre cercava di mettere a fuoco.
Sara si calò nel sedile con movimenti studiati, incrociando le gambe e lasciando che l’orlo del tubino si alzasse pericolosamente. Il tessuto tirava contro i fianchi, ogni respiro faceva ballare la scollatura in modo che catturava inevitabilmente lo sguardo.
«Scusi, signorina…» balbettò il vecchio, passandosi una mano sulla fronte. «Non l’avevo riconosciuta.»
Sara sorrise, un’espressione che aveva provato mille volte davanti allo specchio ma che ora, sotto gli occhi di uno sconosciuto, le sembrava diversa. Più tagliente. Più consapevole.
«Sono sempre io.»
Il cuore le martellava contro le costole mentre sentiva gli occhi dell’uomo scorrere sul suo corpo. Sapeva che stava cercando di essere discreto, fingendo di guardare fuori dal finestrino per poi rubare occhiate furtive. Il collo le bruciava dove la pelle era scoperta, le braccia nude si coprivano di pelle d’oca nonostante il calore del vagone.
Ogni fibra del suo essere gridava di coprirsi, di nascondersi, di tornare nella felpa grigia che ora giaceva sepolta nel sacchetto nero. Ma resistette. Questo era esattamente quello che aveva voluto, l’effetto che aveva pianificato per mesi.
Il treno prese una curva più brusca e Sara dovette afferrarsi al bracciolo, il movimento fece scivolare ulteriormente il tubino. Il vecchietto deglutì rumorosamente, poi si voltò verso il finestrino con determinazione esagerata.
Sara si sistemò i capelli con gesto studiato, facendo tintinnare gli orecchini. Il profumo che aveva spruzzato nel bagno – note pesanti di vaniglia e muschio – si diffondeva intorno a lei come una nuvola territoriale. Non era più l’odore discreto di sempre, quello che si perdeva tra gli altri. Era invasivo, impossibile da ignorare.
Le mancavano ancora quaranta minuti a Firenze. Quaranta minuti per abituarsi a questa nuova pelle, a questo nuovo modo di occupare lo spazio.
Il sole di Firenze la colpì come uno schiaffo quando scese dal treno. L’aria era densa, carica di quel calore umido che si attaccava alla pelle e faceva aderire ancora di più il tubino al corpo. Sara vacillò sui tacchi mentre il piede cercava la solidità del marciapiede dopo ore di oscillazioni ferroviarie.
«Signorina, le porto la valigia?»
Un ragazzo sui trent’anni, maglietta attillata e sorriso troppo sicuro, aveva già allungato la mano verso il suo bagaglio. Gli occhi le scivolavano dal viso al décolleté con una sfacciataggine che la fece arrossire fino alle orecchie.
«Grazie, molto gentile.»
La voce le uscì più rauca del previsto. Sara si schiarì la gola mentre lui sollevava la valigia blu e si avviava verso la scaletta, rallentando vistosamente per camminare al suo passo. Ogni gradino era una sfida – i tacchi scivolavano sul metallo, le caviglie traballanti la costringevano ad aggrapparsi al corrimano.
«Prima volta a Firenze?» Il ragazzo si era voltato, fingendo di controllare che ce la facesse.
«No, conosco bene la città.»
Mentì, ma con una sicurezza che la sorprese. Sul marciapiede della stazione si fermò un attimo, fingendo di cercare qualcosa nella borsa mentre in realtà si stava riabituando alla terraferma. Le gambe le tremavano leggermente, ma non solo per i tacchi. Era l’adrenalina, la consapevolezza che ogni sguardo maschile ora si posava su di lei diversamente.
«Ecco la valigia. Se ha bisogno di indicazioni…»
«Tutto a posto, grazie.»
Sara prese il manico con decisione e si allontanò, sentendo gli occhi dell’uomo seguirla mentre si dirigeva verso l’uscita principale. I passi erano più sicuri ora, aveva trovato il ritmo giusto sui tacchi. Non più la camminata incerta del treno, ma qualcosa di nuovo – fianchi che si muovevano diversamente, spalle diritte, testa alta.
Michele doveva essere vicino alla fontana, come avevano concordato. Sara rallentò quando lo vide, riconoscendo immediatamente la figura atletica e i capelli scuri. Lui invece stava scrutando la folla con aria confusa, cercando evidentemente una ragazza diversa.
Una studentessa timida con la felpa grigia e i jeans larghi.
Sara gli si avvicinò da dietro, i tacchi che battevano un ritmo deciso sul marmo della stazione. «Michele?»
Lui si voltò di scatto e per un secondo il suo volto rimase completamente vuoto. Gli occhi scesero e risalirono lungo il suo corpo, si fermarono sul viso truccato, tornarono al décolleté scoperto.
«Sara? Cristo, non ti avevo… sei…»
Non finì la frase. Sara lasciò cadere la valigia e gli si gettò tra le braccia, premendo il corpo contro il suo, sentendo i muscoli tesi sotto la maglietta. L’abbraccio durò qualche secondo in più del necessario, abbastanza perché lui potesse sentire il profumo pesante, il calore della pelle nuda, la morbidezza del seno contro il petto.
«Mi è mancato vederti» mormorò contro il suo orecchio, le labbra che sfioravano il collo.
Michele rimase rigido per un attimo, poi le mani si posarono sui fianchi, incerte se allontanarla o trattenerla.
Michele si staccò dall’abbraccio con un movimento brusco, le mani che scivolarono via dai fianchi di Sara come se scottassero. Gli occhi continuavano a vagare sul suo corpo, incapaci di trovare un punto sicuro dove posarsi.
«Cristo, Sara… sei cresciuta un po’ dall’ultima volta che ci siamo visti.»
Le parole gli uscirono rauche, cariche di un imbarazzo che cercava di mascherare dietro un sorriso storto. Sara raddrizzò le spalle, facendo aderire ancora di più il tubino alle curve, e gli occhi di Michele seguirono il movimento involontariamente.
«Ti piace come sono cresciuta?»
La domanda lo colse di sorpresa. Non era il tono di voce che ricordava, quella dolcezza sussurrata che Matteo descriveva sempre. C’era qualcosa di diverso, una sicurezza che non si aspettava di trovare nella sorellina timida del suo migliore amico.
Michele emise un fischio lungo e melodioso, il tipo di apprezzamento che riservava alle ragazze al bar o in discoteca. «Madonna santa, sei una figa da paura.»
Le parole gli uscirono con la naturalezza di sempre, il linguaggio crudo che usava con Andrea e Giacomo, ma appena pronunciate si rese conto dell’errore. Questa era Sara D’Alessi, la ragazza che secondo Matteo non aveva mai nemmeno baciato nessuno.
Sara però sorrise, non il rossore imbarazzato che si aspettava. Le labbra rosse si allargarono in un’espressione che aveva qualcosa di predatorio, come se i suoi commenti volgari l’avessero divertita invece che offesa.
«Grazie per il complimento» disse, passandosi la lingua sul labbro inferiore. «Anche se potresti essere un po’ più galante.»
Michele si passò una mano tra i capelli, cercando di rimettere insieme i pezzi. Questa non era la Sara che conosceva. Il trucco pesante, i tacchi altissimi, quel tubino che sembrava dipinto sul corpo… tutto gridava esperienza, sicurezza sessuale. Eppure Matteo gli aveva giurato che sua sorella era ancora vergine.
«Ascolta» Sara si avvicinò di nuovo, abbassando la voce. Il profumo lo investì come un’onda, note dolci e muschiate che non aveva niente a che fare con l’eau de toilette discreta che ricordava. «Potremmo andare da qualche parte più privato? Qui c’è un po’ troppa gente.»
Le dita di Sara si posarono sul suo avambraccio, un tocco leggero ma che riuscì a fargli accelerare il battito. Michele guardò intorno alla stazione affollata, consapevole degli sguardi che seguivano Sara, degli occhi maschili che si attardavano sulle sue gambe nude.
«Sì, certo. C’è un bar vicino, un posto tranquillo.»
Sara sorrise ancora, stringendo leggermente la presa sul suo braccio. «Perfetto. Non vedo l’ora.»

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