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La lunga notte – cap. 4

By 24 Agosto 2021No Comments

Cap. 4

La luce violenta del sole attraverso la finestra mi tormenta da almeno un paio d’ore, ma non voglio uscire dalle lenzuola. Matteo si è già alzato, infilandosi lentamente dentro la doccia.
Io sono tutta indolenzita, vorrei svegliarmi e capire che si è trattato di un incubo. O di un sogno. Ma scoprire che nulla era reale, questo si, lo vorrei con tutte le forze.
“Angela” è la voce di Matteo che mi fa aprire gli occhi. “sono le tre del pomeriggio, prova ad arrivare fino alla doccia, vedrai che dopo stai meglio”.
È vero, ieri sera ci siamo buttati stremati sul letto, sento ancora su di me l’odore di tutti i maschi che hanno goduto dentro il mio corpo. Il sapore di sperma è ancora forte sulle mie labbra. Apro gli occhi, Matteo mi guarda con dolcezza “Scusami”. È l’unica cosa che mi dice, come se il nostro gioco fosse solo un’idea sua.
“Non ti preoccupare, va tutto bene” gli rispondo alzandomi lentamente. Mi siedo sul bordo del letto, poi infilo le pantofole e entro nel bagno.
Faccio scorrere l’acqua, per averla bella calda, mentre Matteo mi passa un asciugamano fresco di bucato. Entro sotto il getto della doccia, il piacere dell’acqua che scorre sul mio corpo è indescrivibile. Guardo le gocce seguire le curve delle mie forme, accumularsi sui capezzoli per poi gocciolare giù dal seno, verso il pavimento. Resto a testa bassa, poi chiudo gli occhi e alzo il volto verso la cascata ristoratrice. Sento la forza del getto sulle guance, apro le labbra e mi riempio la bocca di acqua limpida. Vorrei che quel momento fosse interminabile. Dei flashback attraversano la mia mente. Risento le voci, vedo gli sguardi degli uomini, pieni di desiderio per il mio corpo.
Per pochi minuti padroni assoluti, con il potere di chiedere finalmente quello che vogliono ad una donna, senza il tarlo di un possibile rifiuto. Poco importa se è una finzione, se il potere non è loro, ma dei soldi pagati per avermi. Per loro è già essere oltre le cortine del quotidiano, attimi di rivincita su una vita opaca, vissuta probabilmente a fianco di donne opache come loro. Già, il desiderio di essere padroni senza la capacità di esserlo veramente. Contraltare a chi padrone lo è nell’essenza. Padrone delle vite degli altri, padrone della propria, senza risponderne a nessuno.
I miei pensieri corrono a lui, alle sue spalle voltate, ai suoi occhi. Le mie mani scivolano sul mio corpo, gli occhi non vogliono riaprirsi, non vogliono tornare alla realtà di quelle spalle voltate, all’ultima immagine impressa nella mia mente.
Esco lentamente dalla doccia, il vento caldo dell’asciugacapelli mi avvolge in una carezza, sfiora la mia pelle. Poi esco, rifugiata in un accappatoio morbido, candido, profumato.
Entro in salotto, lo stereo mi accoglie con la musica suadente di Nora Jones.
Matteo sta fumando, seduto su una poltrona.
“Allora amore, cosa vogliamo fare? Dovremmo andare in questura, per fare la denuncia.”
Un brivido mi attraversa la pelle. “Non… non lo so, non credo che sia prudente… Li hai sentiti, non mi sembra gente che prometta a vanvera. Non voglio rischiare.”
“Ma non c’è nessun rischio, cosa credi che possa succedere realmente? Li denunciamo e la polizia li va a prendere ingabbiandoli tutti. Vorresti fargliela passare liscia?” Matteo sembra stupito della mia resistenza.
“Non lo so, vorrei poter dimenticare tutto e basta. Il rischio che lo vengano a sapere, che non li prendano, che possano tornare in giro tra poco tempo c’è, lo sai bene. Sanno dove abitiamo, chi siamo. Se volessero vendicarsi ne hanno tutti i mezzi. Dimenticare, vorrei solo poter dimenticare.” dissi allungandomi sul divano e chiudendo gli occhi.
“Potrei parlarne con Giuseppe, lui è un colonnello della Finanza, potrebbe darci qualche consiglio. O vedere come fare la denuncia senza che compaia il nostro nome.”
“Ti prego, se mi ami lascia perdere, per me è meglio così. Non voglio altro. Solo dimenticare tutto. Tutto.”
Esita un momento, poi abbassa lo sguardo scrollando la testa. “Come vuoi amore, come vuoi. Non ne facciamo nulla.”

Scorrono i giorni, è già passata una settimana.
Con Matteo non abbiamo più affrontato né l’argomento denuncia, né riparlato dell’accaduto.
Cerco di riprendere la normalità quotidiana, mi occupo della casa, mi occupo di me stessa.
Estetista, massaggi, un po’ di shopping. Le giornate scorrono via veloci.
Ma gli occhi di Dasho non riesco ad allontanarli, ricompaiono nella mia mente non appena resto sola con me stessa.
Non passa giorno che non abbia almeno un pensiero che lo coinvolge.
Lo immagino con le sue donne, pronte a soddisfare ogni suo desiderio, ogni sua voglia, come e più di quelle dei clienti. Lo immagino con i suoi uomini, a dare ordini, a controllare i suoi affari. Loschi, certo. Anche se molti affaristi rispettati non sono meglio di lui. Quando è nella mia mente vorrei fare l’amore. Con lui, o con chiunque pur di poter pensare a lui mentre il mio corpo geme di piacere. Sto impazzendo, lo so.
Squilla il cellulare, è Matteo. “Ho incrociato Francesco oggi, mi sono messo d’accordo per una cena la prossima settimana, giovedì potrebbe andare bene?”
Francesco… a Matteo non avevo raccontato quello che era successo quella sera con lui.
“Ci sarà anche Loredana?”
Francesco. Non credo di essere in grado di affrontarlo, e tanto meno Loredana. No.
“Si certo”
“Non ne ho molta voglia… non possiamo rimandare?”
“Si, non c’è problema. Stai bene?”
“Si, sono solo stanca”
“Ok, a dopo allora, a Francesco invento una scusa io”

Già, una scusa. Mi infilo nella doccia, l’acqua che scorre sulle pelle fa scivolar via tutte le tensioni, mi insapono accuratamente, forse solo per concentrarmi su qualcosa.
La schiuma mi accarezza, come il pensiero di Dasho, che torna di nuovo nella mia mente.
L’accappatoio mi accoglie morbido, rassicurante. Entro in camera, mi allungo sul letto, gli occhi sono persi nel soffitto. Poi mi alzo di scatto. Vado verso l’armadio. Dal primo cassetto estraggo un intimo azzurro bordato di nero. Cerco tra i veli mischiati… ecco, trovato il reggicalze coordinato. Lo indosso. Apro una busta con dentro un paio di calze chiare, le divido, ne arrotolo una con attenzione, punto le dita dei piedi e la faccio risalire lungo la gamba. L’aggancio, poi l’altra. Un’occhiata allo specchio, mi volto per prendere il reggiseno, poi è la volta del perizoma di risalire le mie cosce, fino ad accarezzare la mia fica rasata. Chiudo i cassetti, apro le ante. Una camicetta bianca, trasparente, poi una gonna di cotone nera e corta, con una balza a pieghe. Metto un paio di scarpe nere con il tacco, poi guardo allo specchio il risultato.
Una sola occhiata, se mi guardo un’altra volta non troverei il coraggio di uscire. Dalla consolle in ingresso prendo le chiavi e gli occhiali da sole. Esco, percorro il marciapiedi a testa bassa, sperando di non incontrare nessuno che mi riconosca. Il sole sulla pelle è caldo.
Due isolati, poi le scale della metro, scendo verso il buio, devo togliermi gli occhiali scuri. Mi avvicino ad una macchinetta per fare il biglietto. Metto cinque euro e raccolgo dallo sportello quattro biglietti. Era una vita che non viaggiavo in sotterranea, la macchina era un’isola confortevole, comoda nonostante le code, quasi una fortezza inespugnabile per la mia privacy. Proprio quello che non volevo ora. Guardo il ricamo delle linee colorate sul quadro generale, il mio sguardo segue il percorso. Dieci fermate per la Centrale, poi cambio per la linea tre. Altre dodici, per la mia destinazione. Mi specchio nel vetro coperto di scritte a pennarello, cazzi e fiche disegnati qui e là. Con le mani alzo in vita la gonna, così copre a malapena il bordo delle calze. Dasho approverebbe.
Mi volto, devo scendere ancora una rampa di scale per arrivare ai tornelli. Chi sale mi guarda con un sorriso, evidentemente il movimento della gonna fa intravvedere il tipo di calze che indosso. Ma non importa.

Ai tornelli c’è coda. Al mio turno inserisco il biglietto, che la macchina mi restituisce timbrato dall’altra parte. Con la coscia spingo il ferro per farlo ruotare, la sua carezza fredda mi dà un brivido. Alzo gli occhi per capire da che parte andare e mi unisco alla folla, ancora una rampa di scala mobile e sono sul binario. Due minuti al prossimo convoglio, i più smaliziati cercano di conquistare la testa o la coda del treno, lì le carrozze sono meno affollate. Io resto più o meno a centro treno, su tutta la lunghezza del marciapiede ci saranno almeno quattro file di persone, dove sono io anche sei.
Il treno arriva con uno stridio di freni, lo sbuffo dell’aria compressa segnala l’aprirsi delle porte, mentre la gente si accalca verso le salite. Uno dopo l’altro entriamo, il vagone è veramente pieno e gli ultimi devono aspettare che un po’ di gente defluisca verso il centro.
Io conquisto un montante d’angolo nello spazio delle porte, da qui comincia il corridoio che dà verso l’altra carrozza. Qualcuno spinge per passare verso l’altro vagone alla ricerca di spazio. Corpi che strusciano sul mio, mi attacco al palo di alluminio mentre il treno riprende la corsa.
Passano due fermate, gente che spinge, schiaccia, scende e soprattutto sale.

Fa molto caldo, il treno torna a decelerare, piegandosi leggermente per inserirsi in curva entrando in stazione. Le luci dei neon attraverso i finestrini sembrano flash stroboscopici che rallentano la loro frequenza. Si aprono le porte, qualcuno scende ma molti di più salgono. Altri corpi, la pressione aumenta. Una signora carica di sacchetti faticosamente si insinua alle mie spalle per cercare di guadagnare il vagone successivo, sono spinta verso la spalla dell’uomo seduto sul sedile vicino al mio palo, la donna riesce a passare, lasciando un vuoto dietro di se che si riempie subito. Recupero l’equilibrio mentre le luci azzurre riprendono la loro intermittenza sempre più rapida, poi i finestrini si tingono di nero. Il convoglio accelera, mentre un nuovo corpo preme alle mie spalle. Si appoggia con delicatezza, quasi a sfiorarmi, poi si stacca cercando di non far sembrare intenzionale il contatto. Fisso il mio sguardo davanti a me, bagliori di azzurro illuminano il buio della galleria. Gli occhi di Dasho si impadroniscono della mia mente, abbasso la testa tra le braccia, aggrappate con le mani al palo. Finalmente rilassata sporgo leggermente il mio corpo indietro.
Ritrovo immediatamente il corpo alle mie spalle, che questa volta non si ritrae. Contro di me sento crescere l’eccitazione dell’uomo, che si posiziona tra le mie natiche, cominciando a strusciarsi lentamente.

Non voglio voltarmi, non voglio sapere com’è quell’uomo che sta scaldandosi al calore del mio corpo. Muovo lentamente il bacino per agevolare il suo movimento mentre il treno frena in una nuova stazione. Un tizio corpulento vuole passare per scendere e l’uomo si schiaccia contro di me, il suo cazzo è piantato contro il mio culo, duro come una roccia, poi si sposta di lato. L’aria che entra dalle porte aperte mi rinfresca, non ho il coraggio di alzare la testa, l’accelerazione della vettura mi spinge contro di lui, ora quasi di fianco a me, aggrappato con una mano al mio stesso palo. Altri corpi premono su di noi, ogni spazio si riempie subito. La sua gamba aderisce completamente alla mia, mentre un piede si insinua tra i miei, spinge di lato. Abbasso ancora la testa e obbedisco, allargandoli guadagnandomi lo spazio tra due persone. La sua mano sfiora la mia gonna, mentre mi adagio nell’incavo della sua spalla appoggiandomi al braccio che lo sorregge. Sporgo ancora il culo, siamo tutti addossati gli uni agli altri, nessuno può vedere cosa accade così in basso.
Le dita raggiungono il bordo della gonna, e incontrano subito quello della calza aiutate dall’altezza dei tacchi, sento che si ferma per qualche secondo e il suo cazzo si irrigidisce ancora contro di me. Poi la mano riprende l’esplorazione. Raggiunge il solco tra gamba e natica, si fa guidare lentamente verso l’interno delle cosce e approda al mio perizoma. Le dita superano facilmente l’ostacolo e mentre arrivano al lago della mia fica soffoco un rantolo. Nella mia mente due occhi, due pozze di azzurro mi guardano, mentre le mie gambe tremano e mani sconosciute si appropriano del mio corpo.

Prima un dito si fa largo tra le mie labbra, poi un altro, mentre l’indice scivola pieno di umori vischiosi sul clitoride. Vorrei il cazzo di Dasho in bocca, vorrei sentirlo sulla mia lingua, la cappella premere in fondo alla gola mentre quell’uomo entra ed esce da me con le sue dita. Respiro affannata a bocca aperta, mentre lo sconosciuto accelera il suo movimento, per sentirmi godere come una troia nella sua mano, schiacciata tra la folla. In un barlume di ragionevolezza cerco di resistere, una dolcissima agonia, poi sento arrivare inarrestabile l’orgasmo, alzo la testa, le luci intermittenti sono occhi azzurri, il mio bacino si muove ritmicamente mentre la mia fica pulsa sulle dita che continuano a penetrarmi sempre più in profondità. Mordo le labbra per non urlare il mio piacere, le mie gambe cedono e se non fossi schiacciata in mezzo alla gente sicuramente cadrei per terra. Le mani si sfilano da me, sento che un dito afferra il filo del perizoma che corre lungo il solco del sedere, lo tira e lo sposta di lato, poi percorre l’elastico assicurandosi che la mia fica sia libera e la accarezza dolcemente.
Io sono spossata, il fiato corto, le guance rosse, guardo fissa di fronte a me cercando di riprendere il controllo.
“Tranquilla, non si è accorto di niente nessuno” è una voce calda, che infonde sicurezza. Non mi volto, sento ancora la mano che coccola la mia fica. “dove scendi?”
“In Centrale” rispondo in un soffio abbassando la testa.
“Bene” è l’unica risposta, mentre un dito riprende possesso di me.
La mia fermata arriva in un attimo, mentre il treno entra in stazione le dita mi abbandonano.
Cerco di rassettare la gonna, mentre mi avvicino a fatica alla porta.
Sento che mi segue, esco dal vagone e sul binario finalmente un po’ di spazio. Una mano mi prende sottobraccio, non lo guardo, mi lascio guidare. Senza una parola andiamo verso i servizi.
Mi fermo davanti alla porta delle signore, ma mi tira per un braccio verso il bagno degli uomini.
Non c’è nessuno, apre due porte, alla terza mi fa entrare e chiude la porta alle sue spalle.
C’è odore di urina, mi fa sedere sul cesso, poi mi prende per i capelli obbligandomi ad alzare lo sguardo. Ha un volto regolare, castano, due belle labbra sorridenti e gli occhi verdi, chiari.
Con l’altra mano si tira giù la zip. Le mie mani sanno cosa devono cercare, il suo cazzo in un attimo è nella mia bocca, la mia lingua cerca di placare l’incendio che il mio corpo ha acceso sul treno. Mi scopa la bocca, andando avanti e indietro con il bacino. Ha un cazzo grosso e abbastanza lungo, le sue mani mi prendono sotto le ascelle, mi forzano ad alzarmi, a girarmi.
Appoggio un ginocchio sulla tavoletta, le mani sulla vaschetta dell’acqua. La gonna si solleva da sola e con un solo gesto sposta il perizoma liberando la mia fica. Le sue mani sono sui miei fianchi, il suo cazzo trova da solo la via per entrare in me. Mi sento mancare, affonda completamente la sua asta e si pianta lì, le mani sbottonano la mia camicetta e tirano fuori i seni dalle coppe del reggiseno. Poi comincia a scoparmi con forza. Ad ogni affondo un grido mi muore in gola. Fuori della porta si sente gente entrare e uscire, l’acqua che scorre dai rubinetti e gli sciacquoni scaricare nei cessi vicini. Sembra un tempo interminabile, poi sento che accelera aggrappato ai miei fianchi, fino a quando un colpo più forte non lo ferma dentro di me, sento distintamente la cappella pulsare nella mia fica mentre svuota il suo cazzo dentro di me, poi ancora qualche colpo ed è fuori. Sono paralizzata, avrei voluto godere ma non ce l’ho fatta, lui si chiude i pantaloni, si china avvicinandosi al mio orecchio e sussurra “Grazie”. Poi sento la porta aprirsi e lui uscire. Riesco solo a richiudere la porta e a sedermi sul gabinetto. Resto così per qualche minuto, poi le forze cominciano a tornare.
Mi pulisco con la carta igienica, mi rassetto e con circospezione esco dal gabinetto, punto l’uscita ma entra un uomo che mi squadra con uno sguardo interrogativo, poi crede di aver capito “Bella, quanto vuoi?” Lo supero, “Vaffanculo” è il mio saluto, mentre le mie labbra sorridono. Sono perfetta, per Dasho.

Esco dai bagni e mi dirigo verso la linea rossa, quella che porta verso la periferia.
Il treno è molto più vuoto, mi siedo e cerco di chiudere gli occhi. Sono stanca ma eccitata, gli occhi di Dasho tornano varie volte nella mia mente. Alla mia fermata scendo, salgo le rampe di scale e sbuco nel sole.
Cammino lungo il marciapiede. Tutto intorno negozi gestiti da extracomunitari, qualche bar, una ricevitoria di scommesse. Supero un phone center, svolto l’angolo e mi fermo. Dall’altra parte della strada un bar di terz’ordine. Attraverso, entro e ordino un cappuccio e una brioche. Mi siedo ad un tavolino vicino alla vetrina.
Le tempie pulsano, respiro veloce come se avessi corso.
Mentre sto addentando la brioche li vedo.
Dall’altra parte della strada Valjet, cammina imbronciata, strattonata da Ditmir. Si avvicinano al portone, Lui apre con un grosso mazzo di chiavi e spariscono dentro.
Pago ed esco. Il mio sguardo si alza verso quelle finestre. Dasho è lì. Suonerò e che sia quel che sia.
Ho bisogno di quegli occhi, ho bisogno di lui. Voglio che veda che posso essere come lui vuole che sia una donna. Allungo un passo decisa, scendendo dal marciapiede per attraversare la strada.
Il lungo lamento di un clacson mi fa trasalire.
Un taxi si è fermato per far scendere il passeggero, e un negro nella macchina dietro sta bestemmiando contro il tassista perché vuole passare.
Mi guardo intorno e mi sembra di risvegliarmi da un sogno. Cosa sto facendo? Mi mordo il labbro, poi in un secondo decido.
“Taxi!” Mi scaravento nel sedile, rannicchiandomi
“Dove deve andare signora?”
“In via Amendola” dico con un filo di voce. “Mi porti in via Amendola.”

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