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Racconti sull'Autoerotismo

La maniglia

By 14 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Sarà che il cameriere ha messo sul mio tavolo dei fiori di campo, sarà che sono gialli ed ha indovinato il colore che amo, che sa di gelosia e d’invidia, dei tanti uomini lasciati ai bordi degli anni. Sarà che ho più del doppio dei suoi anni e mi guarda come se fossi una zia vestita nei giorni di festa, che s’inchina e reclama un bacino, tenendo stretto il filo di perle che non metteva da tempo.

Sarà che questo locale è sempre pieno di gente, ed oggi così vuoto mi fa sentire importante. C’è solo un altro tavolo dall’altra parte del muro, con due anziane signore che aspettano mezzanotte per andare alla messa. Il cameriere m’appoggia lo sguardo e mi chiede ogni volta se manca qualcosa, ma mi sorride come farebbe ad una bimba che non vuole mangiare, ad un cliente qualunque che gli lascia una mancia. Invece della solita minestra, m’ha portato una zuppa bollente di ceci e di farro, perché fuori è Natale, fa freddo ed il pranzo fisso comprende anche una fetta di dolce.

Sarà che questo mezzo bicchiere di vino mi fa sentire più bella, è rosso come il vestito che mi fascia leggero e nasconde d’incanto la carne di troppo. Chissà se è curioso di sapere il colore delle mutande che porto, che mi segano all’inguine perché non mi rassegno a comprare una taglia più grande. Ma sono belle, di marca con i merletti sottili e stasera farebbero figura se solo toccasse, se solo fossero indosso ad una sua coetanea

Vorrei dirgli di fermarsi un momento, di dedicarmi le pause che passa in cucina, invece di impregnarsi di d’odori di fritto e riempirsi di boccate di fumo. Magari sedersi su questa sedia davanti, nonostante lui sia un cameriere ed io una cliente che mangia quello che passa la casa e tutte le sere non manca di lasciargli una mancia. Dovrebbe solo spostare il cappotto e starmi davanti per farsi guardare quella faccia di bimbo che ogni notte nel sogno mi pare reale.

Questa candela che fibrilla ad ogni soffio di vento mi fa sentire signora, come se non avesse per me che occhi, che mani, che ora delicate mi versano acqua da bere. Chissà se ha visto nei miei occhi un lucido strano o qualcosa che assomigli ad una voglia che signora sobria e per bene non lascia mai trasparire.

Sua madre è di là che cucina e ogni volta che chiama lui scappa di corsa, lasciandomi in bocca parole che diventano fiato. E’ bella ed avrà di sicuro meno anni dei miei, se solo si conciasse da sera mi farebbe perlomeno concorrenza, mi toglierebbe questa scena di tavoli e piatti che ogni sera mi fa da contorno.

Quasi avverto un sussulto che lento s’infila dalle parti del cuore, come se tra loro ci fosse un’intesa, un filo sottile che intimo lascia fuori nel mondo qualsiasi estraneo che tenti d’entrare. Li vedo la sera che tornano a casa, che lei madre e padrona non lo lascia un istante e s’adagia sul letto senza parlare, mentre lui a memoria s’infila nel dovuto che freme.

‘Ma che vado a pensare!’ Arrossisco nel timore che quelle signore abbiamo ascoltato le mie indecenze. Ma davvero vorrei rubarlo un attimo a sua madre, almeno sapere il suo nome, se ha finito la scuola o ha una ragazza che vede soltanto di giorno e porta merletti dello stesso colore.

Una bimba slava spalanca la porta e mi porta freddo e una rosa, chissà se sa che davanti non siede nessuno, che sto solo aspettando un secondo di pesce, perché oggi è vigilia e nessun uomo uscirà da quel bagno. Ma lei non vuole dei soldi, mi dice d’accettare perché sono bella, perché i miei capelli di seta le ricordano sua sorella che non vede da tempo, che un uomo cattivo l’ha portata lontano. Mi chiede quanto sia lontana Genova, se è possibile raggiungerla a piedi. La guardo e sorrido. Avessi ancora una figlia non starei qui ad aspettare il cameriere che mi porta un secondo di magro, a fissarlo negli occhi per capire se è cambiato qualcosa, se la mia faccia con un filo di trucco non assomigli per tutto ad una lontana parente.

Mi sento ridicola nel pensare ad un cuore che batte al solo guardarmi, che il mio seno abbondante possa destare attenzione. Mi guardo e penso che poi non è male, che se solo volessi potrei scollare il vestito, come basterebbe un soffio di fiato per spostare le frange e farlo apparire senza imbarazzo.

Non credo che potrebbe resistere, che mi guarderebbe ancora da zia se solo non fosse troppo occupato a servire, perché di sicuro ci farebbe un pensiero, un biglietto che scivola sulla mia stoffa di seta, di nascosto dalle zitelle e da sua madre che chiama. C’è scritto d’aspettarlo di fuori, tra un’ora davanti al bar che fa il turno di notte oppure mi chiede se domani mattina potrei concedergli un’ora o quel tanto che basta per sentirlo fremente tra queste calze che stringo e mi danno prurito.

Tra meno di un niente lo chiamo e accavallo le gambe, per magia il vestito scivola e apre lo spacco. Chissà se questo velo di calze è di suo gradimento, se stasera ho messo le sue preferite. Sono nere, ma m’assale il timore d’aver sbagliato la trama, d’aver ecceduto al desiderio d’essere bella trascurando i gusti d’un bambino appena cresciuto.

Sono nere come la trasgressione che mi prende la sera quando esco da questo locale e faccio due passi per smaltire la cena, per sentire le voci nel buio, che impazienti mi chiamano alla meglio signora. Forse sarà il cappello, i guanti di rete che fanno figura, ma sono uomini e sono grandi e sanno di fregatura. Odorano di masturbazione e di sesso all’inpiedi, di fretta in macchina o dentro ad un portone. Non sanno d’amore, non hanno la grazia di questo mazzo di rose che mi toglie la vista e mi riempie i polmoni. Insistenti mi passano accanto e mi chiamano come se gli fosse dovuto, come se un cappello che cammina di notte dovesse comunque consumare un desiderio che passa, come se fosse lì per mestiere e non sceglie ma aspetta il primo che a caso si faccia coraggio.

Non riesco a capire e lascio che il pensiero defluisca da solo, lasciandomi il sapore di questa sigaretta che fumo, la prima e la meglio di tutta la sera, mentre guardo il cameriere impalato che aspetta un mio cenno. Lo vedo, lo chiamo. Ha la forma dell’ovale adatta al mio seno. Chissà se già gli è spuntato un filo di barba, non riesco ad immaginare quanto potrebbe stare comodo, quanto il mio seno potrebbe far da cuscino e da culla dopo l’amore.

Sarà che questo bicchiere di vino ha fatto già effetto, che questa fetta di dolce fa sentire più vuota la mia astinenza, ma non mi lascio travolgere, resisto e spero che davvero questa vigilia mi faccia nascere in grembo un bambino che scaldo, che cullo e contenga tutto l’amore che ho dentro.

Lui s’avvicina e mi guarda, ha tolto il papillon nero e la giacca: ‘Signora, stiamo chiudendo.’ Mi guarda le calze come se fossero sfilate e non ha in mano un biglietto, non m’aspetta davanti all’unico bar aperto di notte.

Sarà che ora mi alzo e gli chiedo cortese d’aspettare un secondo. Cammino, traballo e m’infilo nel bagno, ma lui non mi segue, punto i tacchi e m’appoggio al muro. Lui è dietro la porta impaziente che aspetta. Sento vicino un rumore di chiavi, un sospiro che intona una melodia che conosco. Lo chiamo dentro lo specchio e lui bussa. Chissà che faccia farebbe vedendo questo collant abbassato, queste mutande che coprono rosse un segreto inviolato.

Se solo sapesse entrerebbe senza nessuna premura, mi bacerebbe dove ora nascondo le mani, dove un fremito più intenso mi farebbe tremare le gambe. ‘Signora, serve aiuto?’ Lui bussa di nuovo e gli chiedo ancora un momento, un solo momento che mi dia la forza di guardarlo negli occhi, per sentirmi appagata proprio dove una notte di festa mi fa sentire più vuota. Slaccio il vestito e lascio che scivoli a terra. Ora sono nuda. Faccio finta d’aprire.

‘Si è bloccata la serratura!’ Lui muove la maniglia e cerca di entrare.

‘Stia calma.’ Ma io sono calma, m’accarezzo il seno con queste dita piene d’anelli, col il dorso della mano che sa di maschio e di cameriere. M’avvicino alla porta e lascio che la maniglia mi sfiori e mi dia quel brivido che vado cercando. E’ lui che mi tocca, che m’accarezza! E’ lui che ora più forte mi cerca e poi rallenta e poi continua leggero.

‘Non riesco ad aprire!’ Mi dice preoccupato. Sono quasi in estasi, lo scongiuro di provare ancora una volta, lo supplico di muovere la maniglia, di non darsi per vinto perché manca che un niente, perché tra un niente soltanto s’aprirà da sola, e d’incanto non resterà che silenzio.

Chiudo gli occhi e stringo le gambe, penso che è quasi mezzanotte, che è Natale, ed io sono chiusa per finta in un bagno, che aspetto il piacere rubato ad un ragazzo che in ansia mi crede davvero in preda all’angoscia.

Penso a sua madre che già l’aspetta nel letto, alle due zitelle che m’hanno vista adocchiare un bambino cresciuto, ai miei seni che gonfi non aspettavano altro. Mi s’intrecciano immagini di stanze d’albergo, di ville piene di camere e lenzuola di seta, di uomini che m’hanno presa senza tregua tra le albe che s’inseguivano in fretta, ma mai, giurerei mai, mi sono sentita più amata, mai abbandonata al piacere come in questo momento, dentro questa furia di sesso che inconsapevole mi cerca.

Ora sono solo brividi che salgono, palpiti di cuore e di labbra che si schiudono senza pudore, sono respiri che si fanno più intensi e scendono dove nulla potrebbe fare più attrito. Lo cerco dentro questa maniglia, dentro questo sussulto di ferro che continua incessante a sfiorarmi, ad avere ragione di questo vizio di donna che per etichetta fa resistenza. Lo imploro di non fermarsi, lo sento sudato, concentrato su quella maniglia che non riesce ad aprire, che è la stessa che da dentro mi tocca, mi dà gioia e ora improvvisa mi scalda le gambe.

Vorrei baciarlo se non ci fosse una porta di troppo, ringraziarlo se ne avessi il coraggio. Assicurarlo che la prossima volta sarà come lui scriverà nel biglietto e senz’altro non mi faccio trovare con il collant calato. ‘Signora, devo forzare la porta!’ Ma ormai è troppo tardi, mi ricompongo i capelli e lascio scorrere l’acqua che lava e dissolve ogni residuo d’amore, ogni vergogna che ripongo segreta dentro questo velo di calza, dentro questa vigilia che un destino contrario m’avrebbe voluta chiusa in un bagno.

‘Signora, mi sente?’ Mi riguardo allo specchio perché tutto sia in ordine, trattengo il respiro e lascio che sul mio viso s’imprima un velo d’angoscia, prima che un sortilegio, al momento opportuno, mi faccia di nuovo riaprire la porta.

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