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Erotici Racconti

Come dita nel naso

By 9 Luglio 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

 

 

 

 

Mi vedo seduto con mio fratello sugli scalini davanti alla porta di casa. Siamo in campagna. Il cielo è senza nuvole e galvanizzato, il caldo lievita e il verde dei campi noioso e ininterrotto ha qualcosa di ipnotico. È passato un casino di tempo. Eravamo bambini e ora ho ventinove anni. E ciononostante ho spesso questa immagine davanti agli occhi. Mi spiego meglio. Mi cullo per tanti anni nei progetti più vari, e poiché non possiedo altro che giovinezza e salute, e mi sembra di avere davanti a me tanto tempo, dico di sì a ogni stupidaggine. In ogni occasione, nonostante la mia pigrizia, dico di sì, a un’amicizia, a un amore, a una proposta. Poi, qualcosa muta e avverto in me un importante cambiamento. Prima, neanche per un attimo, temo che il sipario possa alzarsi sul mio ventinovesimo anno, che un bel giorno devo dimostrare ciò che realmente sono capace di pensare e di fare; e magari confessare di che cosa mi importi davvero. Ora, è come se di cento possibilità già novanta siano ormai sfumate e perdute. Ora so di essere fottuto anch’io. Prima, è come vivere tentando ogni giorno qualcosa di nuovo, senza ombra di malizia. Immagini di avere innumerevoli possibilità e credi di poter diventare qualsiasi cosa. Certo, di uno che entra nel suo ventinovesimo anno non si smetterà di dire che è giovane. Ma lui, benché riesca a scoprire in se stesso solo piccoli mutamenti, non ne è più così sicuro: gli sembra di non avere più diritto di farsi passare per giovane. E una necessità dolorosa lo costringe a ricordare tutti i suoi anni, quelli lievi e quelli travagliati. Getta la rete della memoria, la getta attorno a sé e tira su se stesso predatore e insieme preda, oltre la soglia del tempo, oltre la soglia del luogo, per capire chi egli sia stato e chi sia diventato. E tutte le volte che penso a cosa sono stato non riesco a non vedermi seduto con mio fratello sugli scalini davanti alla porta di casa. È sabato, un mattino di fine aprile, e non siamo a scuola. Con nostro grande sollievo. Io ho otto anni, i capelli castano chiari e l’incarnato del rossore più simile a un’infiammazione che a un colorito sano. Sono di una magrezza spettrale e mio fratello ritiene ch’io assomigli a un furetto. Secondo lui ho la faccia da furetto come nostra madre. Lui ha dodici anni, ha i capelli castano scuri e il tipico aspetto del fratello bastardo – senza labbra, occhio spietato. Indossa una maglietta verde spinacio a manica corta che gli invidio. È una maglietta col colletto bianco e la scritta BAD PINGUIN sul retro. Ce l’ha data zia Marisa, sorella di mio padre. Era di nostro cugino Angelo, che ha la stessa età di mio fratello; i suoi vestiti smessi sono sempre all’ultima moda. Nostra madre considera Angelo un bambino viziato. Dice sempre che ha troppo e che se avesse avuto anche lui un fratello non sarebbe cresciuto così capriccioso ed egocentrico. Quando se ne esce con questi discorsi, propongo sempre di cedergli BAD PINGUIN, ma mamma-furetto dice che non si può fare. Io indosso i pantaloncini sportivi di mio fratello, che ormai non gli vanno più bene, e una maglietta gialla a righe rosse.
Siamo seduti sugli scalini d’ingresso, quattro freschi gradini di cemento. Ci siamo sistemati lì ad aspettare Esperanza, che oggi ci farà finalmente vedere una rivista porno, sottratta di nascosto al fratello più grande. Esperanza ha tredici anni e sembra avere un aspetto diverso dalle altre bambine. Io e BAD PINGUIN la chiamiamo La-bambina-scatola. Innanzitutto ha i baffi, degli strani baffetti scuri sopra le labbra carnose. Poi è tarchiata, quadrata come una scatola, coi capelli color catrame tagliati male, le sopracciglia folte e gli occhi gialli incastonati come vetri molati nella pelle olivastra. È lunga di torso e corta di gambe. I nostri genitori dicono che il padre di Esperanza è messicano, ma io non ho la più pallida idea di dove sia il Messico e di come siano veramente questi messicani. Posso solo dire che La-bambina-scatola è clinicamente obesa, golosa da far schifo ed è facile vederla mangiare pastelle dolci fritte o succhiare buffi lecca lecca piatti, variopinti o con sopra delle spirali ipnotiche.
Dietro di noi, all’interno della casa, sentiamo dei rumori: mamma-furetto sta lavorando in cucina. Arriva fino a noi l’odore del soffritto di cipolla. Mio padre, lo sentiamo, sta tagliando il prato sull’altro lato della casa, mezzo nudo e cosparso di fili d’erba. Ma questo non lo vediamo, possiamo solo immaginarcelo. Ogni tanto lo sentiamo imprecare. Questo possiamo invece udirlo bene. Il giardino è ancora calvo, senza tappeto erboso. Nostro padre ha piantato un paio di cespugli e due piccole betulle là dove le altre case di questa strada hanno i pilastri del cancello. Dalla strada agli scalini c’è un sentiero di lastre grigie su cui sono già in movimento delle carovane di formiche. BAD PINGUIN le guarda e pare orgoglioso che siano venute ad abitare con noi. Questa casa infatti esiste solo da un anno, e prima il terreno su cui sorge era solo un campo recintato in cui crescevano papaveri.
Venivamo fin qua al nostro appezzamento ogni fine settimana. Nostra madre si trascinava dietro delle borse piene di cibo: insalata di patate, cotolette impanate e crostate fatte in casa. A me quelle gite piacevano, anche se sudavo sempre in maniera maledetta. BAD PINGUIN invece non sopportava il caldo e poteva accadere che, accalorato dal lungo tragitto, gli mancasse l’aria e fosse costretto a sedersi. Io avevo già imparato a tenerlo d’occhio. Attiravo l’attenzione della famiglia sul suo volto arrossato e annunciavo saccente l’arrivo di un attacco d’affanno. Solo così riuscivo a sopportare le molte cure e le attenzioni trepidanti di cui lui godeva sempre e che gli davano il potere di condizionare l’intera famiglia. Quello era il mio compito; mi faceva sentire bravo e importante. Ed essere bravo conveniva, l’avevo già capito. Se ti davi da fare e ti rendevi indispensabile, infatti, gli occhi di mamma-furetto ti guardavano con quella luce madreperlacea che faceva capolino solo quando qualcuno le era particolarmente caro. E io volevo vedere quella luce. Per mio padre le cose importanti erano altre. Non bisognava picchiarsi o sputarsi addosso in sua presenza o dare fuoco agli oggetti che ci capitavano sotto mano.
Ma torniamo a BAD PINGUIN. Dicevo che ad animarmi era la necessità di difendere il mio posto accanto a un fratello che coi suoi affanni respiratori, con il raffreddore da fieno e gli accessi di starnuti si prendeva una grossa fetta dell’attenzione famigliare. Attirare su di sé tutte le premure di nostra madre per lui era uno scherzo. Si sedeva all’ombra striminzita di un fico e mamma-furetto versava dell’acqua su un fazzoletto, che gli appoggiava sulla fronte. BAD PINGUIN odiava sentirsi male, perché in quei momenti mamma-furetto l’aveva completamente in suo potere.
«No, tu rimani lì seduto. No, tu il maglione non te lo levi», e così via, un vero strazio.
Ora, comunque, eccoci qui seduti sugli scalini, io e BAD PINGUIN, nella fresca ombra della casa; li conosciamo tutti, i cespugli piantati lì intorno: nostro padre li ha bagnati un casino di volte, e tutte le volte a ripetere i loro nomi come un disco rotto. Viburno palla di neve e biancospino rosso, china e forsizia. Siamo seduti sugli scalini, e io faccio ciondolare le mie esili gambe, piene di taglietti e croste, mentre BAD PINGUIN ha un dito nel naso. Sta tentando di estrarre una caccola ubicata in un remoto angolo della narice difficile da raggiungere. La sua espressione è di sofferenza e concentrazione. Ha gli occhi stretti e un po’ arrossati per il raffreddore da fieno. A un certo punto lo sento tirare un sospiro di sollievo. Ha sulla punta dell’indice una caccola dalla quale gocciola del muco. La osserva soddisfatto, come chi è appena riuscito a compiere una grande impresa.
«Guarda», mi dice ridendo.
«Mi fa schifo», gli rispondo io.
«Ora te la devi mangiare», mi ordina facendosi serio.
«Te lo puoi scordare», ribatto mostrandogli i denti, espressione che certamente favorisce la sopramenzionata somiglianza col furetto.
Con la crudeltà tipica dei fratelli maggiori, BAD PINGUIN chiude gli occhi e rimane immobile col dito a qualche centimetro dal mio viso, il sorriso bastardo sulla faccia.
«Se sei mio fratello, te la devi mangiare», dice lui, col tono di chi non ammette repliche.
«No», dico con aria risoluta.
«Sarò allora costretto a dire a Esperanza che ti vuoi fidanzare con lei»
Voglio farlo smettere e sto per chiamare nostra madre, ancora alle prese coi fornelli, quando a un tratto BAD PINGUIN mi colpisce il fianco col gomito, facendosi più vicino. Il solo pensiero che possa arrivare nostra madre lo distoglie dal suo proposito perverso. Si sporge un po’ in avanti e ridacchia. Poi attacca la caccola ai jeans, così calati sui fianchi che si vede l’inizio del solco delle chiappe.
«Alla fine me l’hanno detto», dice lui mentre cerca di trattenere la ridarella.
Si riferisce a ciò che gli hanno spiegato i nostri genitori su come vanno le faccende tra un uomo e una donna.
«Quando?», faccio io capendo subito.
Sto morendo dalla curiosità. Ci guardiamo, e abbiamo negli occhi il deliziato spavento ma anche lo sconcerto per il mondo degli adulti. Io e BAD PINGUIN abbiamo molti sguardi simili, con cui ci intendiamo senza bisogno di parlare. Non conoscerò mai più un essere umano così bene come conosco lui adesso.
«Ieri sera…», mi risponde lui abbassando la voce, «dopo che tu sei andato a letto».
È una cosa che mi interessa mostruosamente, e a scuola ho visto dei libri che affrontavano l’argomento, ma non l’ho mai capito del tutto. Un giorno, mentre si nutriva della solita terribile combinazione di cibi iperlipidici, Esperanza mi ha detto che l’uomo fa la pipì sulla donna: lei l’ha visto in campagna, spiando una coppia tra i cespugli. Ma non le credo del tutto. E poi non penso che mamma-furetto si faccia pisciare addosso da papà.
BAD PINGUIN mi racconta quel che gli hanno spiegato.
«Porca puttana…», mi viene da dire. Non riesco a credere che i miei genitori facciano una cosa del genere tra loro, e domando a BAD PINGUIN se per farlo vanno da un dottore, da uno specialista che li inserisca uno nell’altra. Ma lui sostiene che possono farlo da soli. Gli chiedo se a uno non viene da vergognarsi. BAD PINGUIN ci pensa su a lungo e poi dice che secondo lui dev’essere come infilarsi le dita nel naso assieme: in effetti anche quello sarebbe una cosa schifosa, e a dire il vero si dovrebbe farlo da soli, però se conosci l’altro molto bene e quello è disponibile, be’ allora…

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