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Erotici Racconti

Il giaciglio

By 25 Luglio 2016Gennaio 30th, 2023No Comments

Lui quella volta mi portò nella sua casa al mare dalle pareti bianche, mi diede uno schiaffo, mentre la mascella mi faceva ancora male. Io disprezzavo odiando i suoi momenti d’ira in cui diveniva crudele, malvagio e ostinato, perché sembrava come un essere completamente trasfigurato: un altro uomo, deturpato, imbruttito e irriconoscibile. Una furia così l’avevo vista solamente una volta sul molo, dal momento che il mare si era alzato sotto la spinta del vento, nel tempo in cui quelle grosse ondate s’infrangevano sulla banchina schiaffeggiando sonoramente le barche. Io osservavo lui e rivedevo la tempesta, stavolta però abbattersi su di me con tutta la sua energia e la sua potenza.

Lui era uno che la tempesta se la portava dentro, sempre con sé. Che cosa la provocava e la scatenava esattamente? Non so veramente dirlo, forse bisognerebbe risalire alla sua afflitta e travagliata infanzia, non saprei di preciso, però so soltanto che in seguito lui diventava di nuovo calmo, disteso e persino delicato: una falla di luce era penetrata e aveva attraversato le nuvole, in quanto adesso si poteva distinguere il suo volto sereno e il suo sguardo cristallino e sereno. Era allora che lui m’accarezzava e mi prendeva come per scusarsi discolpandosi: fare l’amore, non poteva che essere più coinvolgente, più intenso e trascinante. Lui aveva chiuso le tende, la stanza era scura, le pale del ventilatore si muovevano adagio, l’aria era ferma e densa. Lui mi volgeva le spalle, non parlava, perché mi sembrava come se potessi realmente afferrarne i suoi pensieri agitarsi rimescolandosi frattanto nella sua mente.

I ricordi del passato, gli attimi da dimenticare, le altre donne di cui essere segretamente gelosa e le emozioni che non avrei in nessun caso condiviso con lui, così asserragliato, chiuso e imprigionato in sé stesso. Lentamente si tolse l’orologio, poiché era come un rituale, forse serviva per scaricarsi. Io guardavo la sua nuca, però non riuscivo a odiarlo, tranne che lo temevo, pensavo e sospettavo che potesse infuriarsi di nuovo o che fosse in grado d’agguantarmi con violenza, sennonché si girò e posò il suo sguardo delicato e minaccioso nel suo insieme su di me, facendolo scivolare sulle curve del mio corpo che s’intravedevano dalla camicia trasparente, nel frattempo che analizzavo quegli occhi profondi e scuri.

Le lenzuola erano piacevolmente fredde, per cui immergersi sotto il peso del suo corpo non mi dispiaceva per nulla, in quanto la forza smorzata di tutta quella sua rabbia lui la poneva nell’amplesso, m’accarezzava, dato che le sue mani erano dappertutto, determinate, forti e robuste. Le labbra le affondava sul collo, sul seno e sul ventre, la lingua si muoveva avveduta ed esperta come un pennello d’un artista sensibile, nell’ombelico, il mio posto inconfessato e segreto, però non per lui. Io rabbrividivo al tatto, mi sentivo passiva, ancora scossa dalle sue urla di un momento prima, giacché ero come dominata, paralizzata e soggiogata dalla sua forza e da un’intima e intrinseca paura. Io non potevo liberamente ribellarmi, eppure mi sembrava di captare la sua energia passare attraverso la pelle e raggiungermi, diffondersi, soffermarsi e spargersi in ogni orifizio, in ogni cellula o meandro della mia mente.

In quel momento avvertivo il suo essere, coglievo nettamente il suo corpo su di me, perché lui si muoveva ritmicamente, dal momento che lo sentivo introdursi nel profondo: le sue dita sembravano incunearsi nella mia pelle, come assorbirsi inglobandosi. Lui non parlava, affondava i denti nella carne, mi stringeva, io ero in suo potere, sempre più soggiogata e sottomessa dalla sua forza, dalla paura. Io non protestavo né reclamavo, in quanto lui era accanto a me, su di me, perché si muoveva grintoso, impetuoso e passionale. Le pareti, il soffitto, tutto mi sembrò repentinamente tingersi di rosso, dato che mi sembrò persino che le pale del ventilatore si muovessero turbinosamente. La testa mi girava, poi si placò, alla fine s’udiva spiccatamente soltanto il rumore del ventilatore e dei nostri respiri. Io m’alzai e andai in bagno, guardai il mio volto, i miei capelli erano scomposti e cominciai a riempire la vasca: l’acqua fresca mi conciliò facilitandomi e rabbonendomi i pensieri. Quel liquido scorreva tranquillamente con un suono ripetitivo, alzai lo sguardo e mi lasciai cadere lentamente abbandonandomi, feci scivolare la testa nell’acqua fino quasi a immergerne il viso.

Restai in tal modo a osservare diligentemente quei pezzi d’intonaco che si staccavano dal soffitto, mentre io m’allontanavo separandomi da lui. Adesso captavo non più la sua emanazione né la sua espressione, ma soltanto il pensiero. Nei miei occhi c’erano le valigie già pronte e lui che dormiva, la porta aperta, fuori la casa pallida dalle pareti bianche che giaceva introversa e taciturna sulla spiaggia, poi l’auto, le ruote che andavano lontano. L’acqua raggiunse le labbra dischiuse penetrandomi in bocca.

In quel preciso istante mi risvegliai, mi risollevai e chiusi meccanicamente il rubinetto. Sotto il soffitto, osservai attentamente l’intonaco pendente, sospeso in bilico come sempre e lui pacificamente nell’altra stanza che beatamente dormiva.

{Idraulico anno 1999}

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