Parla Amsio Calus, Imperator in esilio.
Fu così che al mattino, prima dell’alba, le armate si disposero.
-Osserva, o Imperator! Le magnifiche coorti di Avasio Graviano, la Legio Ferox. I nobili e selvaggi guerrieri di Lodhbork dai lidi della lontana Valkenheim! Ed ecco gli Auxilia di Pterov Mikhailovich, dal Rus! Ed ancora le Coorti Variaghe e i veterani di Ausiria Minoris!-, la voce di Liriaco, cortigiano e uno dei miei comandanti, nonché membro della Stirpe, vibrava di aspettativa e feroce gioia mentre elencava le schiere che andavano dispiegandosi sulla piana.
-Invero, il nostro numero è legione. E questo giorno sarà morte per Aristarda Nera!-, disse.
-Liriaco Saviraio, solo un folle scende in guerra con tanta sicurezza. Agripatus mi ha insegnato ciò nella maniera più dura.-, lo ripresi, il tono vibrante d’ira e fastidio.
-Nondimeno, mio signore, dobbiamo gioire! Superiamo le forze di Aristarda di tre a uno.-, esclamò lui.
-Invero, dimmi. Non fu anche ad Agripatus così? Non superavamo noi le forze della traditrice? Non le superavamo anche al suo sbarco in Italica? Non fummo noi forse superiori a lei per lungo tempo? Eppure, il nostro vantaggio più volte si rivelò vano. Gli Dèi non si curano dell’agire degli uomini. Né del loro numero.-, risposi con il tono più calmo che riuscii a evocare.
-Gli Dèi bruciano.-, la voce fu appena un sussurro, -Ardono sui loro troni, ignorati dagli uomini.-.
-Eria.-, dissi a mo’ di saluto. Mi voltai a fissare la donna-demone. Non portava elmi o cappucci. Nessun manto per lei. La corazza era di foggia antica e primitiva. Lasciava libere le braccia e le gambe, dipinte con motivi crudi e primitivi. Non pareva licanea o romanea. Semplicement era altro.
E le due lame che impugnava non erano da meno, attrezzi grezzi atti all’efficacia e al massacro.
Nessuna di esse era l’Abraxes, ma ciò non contava. La letalità di quella donna era assoluta. Totale.
-Imperator.-, il viso di lei si aprì in un sorriso che sapevo irridente e beffardo.
-Mia signora.-, Liriaco si genuflesse, -Oggi splende su di noi la luce della nuova alba. La Stirpe prevale.-.
-Lo stesso pensarono altri prima di te, Liriaco. Serba l’ottimismo nel cuore, sii vigile. Oggi cadranno in molti e il giorno non ci vedrà vincitori sottovalutando il nemico.-, disse. Io annuii.
Oltre, lungo la piana vedevo le forze di Aristarda disporsi. Conscia del numero inferiore, aveva disposto i suoi in una formazione difensiva.
-Mia signora…-, iniziò Liriaco. Eria fece appena un cenno.
-Oggi altri giungeranno. Uno scontro mi attende. Aprirò un varco tra le loro fila, che voi sfrutterete. E abbatterete Aristarda.-, disse. Non era un ordine, ma suonò come tale.
-Sì.-, riuscì a dire Liriaco.
-Io chiuderò i conti che da tempo debbo chiudere. Entro la fine del giorno, l’Abraxes sarà nuovamente nostro. E così l’Impero.-, il tono di Eria vibrava di fredda determinazione.
-Così sia.-, dissi. Non intendevo contraddirla. Eria mi fissò, gli occhi che parvero scavarmi nell’anima.
-Non temi, Imperator. Sorprendente. Credevo che il seme del coraggio non sarebbe mai germogliato nel tuo pallido e pavido cuore.-, mi afferrò la nuca, attirandomi a sé, premendo le sue labbra sulle mie.
Era passato molto tempo da quella notte nel Tempio, a Roma, tra i resti della venerazione della Dea Madre, io ero cambiato, molto. Non mi ritrassi, non insistetti. La lingua della donna entrò nella mia bocca. Non reagii. La fissai. Lei si staccò.
-Cosa ti ha dato questa nuova forza?-, chiese. Io feci cenno a Liriaco di andarsene. Non lo fece.
-Lasciaci.-, ordinò Eria. L’uomo eseguì. Lei attese, paziente.
-Il Trono è lordo di sangue. Mi ripugna tanto quanto mi attira.-, dissi, -Combatterò per esso, Eria. Ma non per te. Lo farò per dare pace all’Impero. Questo, solo questo è il mandato che scelgo. Non esiste il Mandato del Cielo, mi fu detto. Era vero. Ovunque siano, gli Dèi non si curano degli uomini. Sono stato folle a credere il contrario. Septimo ha lordato l’Impero in modo irrimediabile. Forse meritiamo di perire.-, dissi. Lei attese. Io ripresi a parlare.
-Migliaia, milioni di morti! Per cosa, Eria?-, chiesi, -Tu lo sai. Lo hai sempre saputo. Sin da…-, mi avvicinai alla guerriera mentre la vidi stirare le labbra in un sorriso feroce.
-Sin da Licanes.-, disse. Il peso della verità mi franò addosso.
-E dunque le leggende sono vere. Sei davvero Layla.-, dissi. Non ero stupito.
-Janus mi ha rinnegata. Ha dissacrato tutto ciò che ho sacrificato per lui!-, la furia della donna era percettibile, -E oggi, il suo erede spirituale perirà per mano mia.-.
-È questo che vuoi, Layla?-, chiesi, -Vendetta? È solo questo che vuoi essere?-.
-Io sono il frutto di ciò che mi è stato fatto. Licanes ci fece mostri. E noi imparammo tanto bene ad esserlo… Vedi Cimanei tra le tue forze, nobile Imperator? Io no. A dispetto delle parole di Janus la mia gente si è estinta. Condannata dal suo retaggio.-, sul viso della guerriera passò un’emozione. Tristezza?
Forse fu ira. O forse rimpianto per ciò che era stato. Non capii.
-Io sono rimasta l’ultima. E prima di perire darò a tutti ciò che meritano. La mia ira.-, sibilò.
-Allora sei morta davvero.-, risposi, chiamando a me il coraggio, -La guerriera che eri conservava qualcosa. Amore per i suoi compagni, un cuore nobile…-.
-Cuore?-, chiese lei, -Ho riempito il mio di odio e ira. Ed oggi sarò vendicata. Puoi disapprovare, Imperator, ma non tentare di fermarmi. Non basteranno tutti i figli d’uomo di questo mondo a serbarti dalla mia furia.-. Io tacqui. Non c’era altro da dire.
Eria, la guerriera del Mito, mi lasciò ed io indossai la corazza e la panoplia da guerra.
Parla Aristarda Nera, Imperatrix in Roma.
Vidi le mie forze dispiegarsi. “Quanti di loro ancora moriranno oggi?”, mi chiesi.
Conoscevo la risposta. Molti. Moltissimi. Sia che vincessi o che perdessi, altro sangue sarebbe caduto sul Trono. Sulle mie mani. Troppo da tollerare. L’Impero non meritava questo.
Eppure, cos’avrebbe ottenuto, se non mi fossi battuta? Tirannia. Orrore. Caos.
Roma non era e non sarebbe dovuta divenire questo. Un’Impero che si estenderà sino a occidente del tramonto, questo aveva promesso Janus. Ma tale promessa era stata forse fraintesa.
Il dubbio aveva funestato la mia notte, come la mia veglia. Eppure non era più tempo per esso.
Era il tempo della battaglia. L’ultima. Volsi lo sguardo verso Alexander Varus. Lui e Maghera attendevano la battaglia, su un cocchio non diverso dal mio.
-Desidero verificare lo schieramento nemico.-, dissi. Era consuetudine. Anche Calus avrebbe potuto richiederlo. Loro annuirono. Montai sulla loro quadriga e spronati i cavalli, ci avvicinammo all’esercito di Calus. Fu lì che cedetti. Vidi tra quegli uomini, tra i Romanei quantomeno,lo stesso sentimento, la stessa stanchezza, eppure anche una scintilla di pura volontà. L’anelito a rispondere ancora alla chiamata del dovere. Nessuno di loro voleva esser lì, ma parimenti, nessuno di loro aveva saputo farne a meno.
Il fatto di dover portare alla morte uomini simili mi riempì il cuore di dolore.
-Come posso…?-, chiesi a nessuno in particolare.
-Come posso io dare quest’ordine?-, chiesi di nuovo. L’arco mi cadde dalle mani.
-Come posso chiedere che questi uomini, figli valorosi di Roma, combattano e muoiano ancora? Non ha l’Impero sofferto abbastanza? Quale regno risorgerà da questo? Quale Impero può dirsi tale divorando i suoi stessi figli?-, chiesi, il cuore stretto dal dolore e le lacrime prossime a tracimare.
-Mia signora…-, iniziò Alexander. Mi volsi a guardarlo. Lui ricambiò il mio sguardo.
Era ancora solo Alexander, lo vedevo. Non c’era in lui il carisma di Janus. Solo la misericordia di un uomo che ben comprendeva il mio tormento.
-Quale regnante condanna il suo popolo così? Come potrà Roma resistere ai barbari?-, chiesi.
Nei miei occhi, davanti ad essi, e nel mio animo, sentivo di star assistendo alla fine.
Ero l’ultima. L’ultima Imperatrix. Condannata a vedere la fine di Roma.
Combattere lì e vincere non sarebbe servito a nulla, lo sapevo bene.
-Aristarda.-, mi volsi. Alexander mi fissava. I suoi occhi ora erano cambiati. C’era qualcosa. Un sacro fuoco in essi. Una vestigia di una passata identità.
-Pensi forse che esisterà un momento simile, nei millenni a venire? Pensi forse che le mie promesse furono vane? Un’Impero che si estende sino a occidente del tramonto, ricordi? Questo promisi a Cthea e a coloro che dubitavano. Gloria imperitura. Così è stato. A loro non mentii e neppure a te.-, le parole di Janus dalla bocca di Alexander, mi travolsero come un’onda di marea. Crollai in ginocchio.-
-Invero, ti struggi invano, Imperatrix.-, disse Maghera. Una mano mi si posò sulla spalla. Conforto.
-Certa è la morte, per chi nasce. E certa la nascita per chi muore. Tutti gli esseri, senza eccezione, seguono questo ciclo. Ma ve n’é un secondo, dimenticato. Il dovere. Tutti hanno il proprio. La trama del fato si spande su di noi e lungo tutto l’arco del tempo. Questo momento non fa eccezione. Se tu non combatterai, verrai meno ai tuoi doveri, allo scopo della tua nascita e della tua vita. Pensi forse che questo sia onorevole e giusto? Altri direbbero che è la loro scelta, ma il fato non si può negare o trascurare.-, le parole dell’amazzone mi portarono ad annuire appena.
-E se è la morte di questi valenti guerrieri a rattristarti, o figlia di Simone, sappi che la morte non è la fine del viaggio, solo un’ulteriore tappa. Anche le anime, invero, hanno il loro. Questo luogo e questo tempo sono il luogo in cui io, Maghera e Layla ci riuniremo, un’ultima volta.-, disse Janus.
-Questo luogo e questo tempo sono il tuo dovere, Imperatrix. Non verso gli Dei, ma vero gli uomini. Se diserterai il campo, inevitabile calerà la rovina. I sacrifici cui siamo chiamati sono gli ultimi prima di una nuova era. Oppure i primi dell’oscurità che calerà se non combatti.-, aggiunse Maghera.
-Che differenza fa? L’Impero è condannato sia che io vinca sia che io perda…-, sospirai.
-Sì. Ma la differenza sta nel come cadrà. Se vinci tu, potrà transitare verso una forma più lieta, senz’altri spargimenti di sangue. Se invece vincerà Calus, o meglio, la Stirpe…-, Janus s’interruppe, -Il sangue versato quaggiù sarà una minima parte dell’ecatombe che traghetterà l’Impero nell’oblio e i popoli del mondo malediranno l’Impero, Roma e Licanes.-.
Io annuii. Capivo cosa mi veniva chiesto. Potevo odiare me stessa e il Trono, ma non sfuggire al destino.
-Combatterò, o Fondatori.-, dissi infine alzandomi e stringendo l’arco. Visto lo schieramento nemico, tornammo al nostro. Risalita che fui sulla mia biga, la mia mano corse alla corda al mio collo che legava la buccina imperiale. Vi suonai dentro.
Al suono della mia, fecero eco le conchiglie trascendentali delle discendenti del Kelreas, di Maghera e delle Virageae. Le buccine delle legioni diffusero il suono lungo ambo gli schieramenti. I bassi suoni dei corni bellici dei barbari e delle grida di guerra fecero tremare la terra.
Poi lo scontro ebbe inizio.
Parla Layla, nota come Eria.
Mi gettai nella mischia con la punta dei guerrieri di Calus. La Stirpe aveva fatto affluire molti uomini, ma al numero non equivaleva la loro perizia. Ero lì per porvi rimedio con la mia capacità, fendendo a destra e a sinistra.
Nugoli di frecce piovevano dal cielo, fendenti e lame tagliavano e squarciavano.
Quella era la guerra. La sopravvivenza era dei più forti, non dei miti.
Le mie lame, mai immobili, non perdevano il ritmo, era come una danza, nella quale eccellevo. I miei goffi e grotteschi avversari, per nobili che fossero, non potevano nulla. Deviai un gladium con la sinistra mentre la lama nella destra affondava. Sferrai un calcio che centrò un ginocchio. Qualcuno cadde. Continuai ad avanzare tra loro. Urlando, ridendo. Era una catarsi.
Quella era una battaglia come tutte le altre. Come la Battaglia di Klurathia, dove trovò la morte Arinistaio, signore della guerra inviso a Licanes, come gli scontri sotto le mura della mia perduta patria, come mille altri luoghi. Vidi l’aquila della legione avversaria venire strappata al suo portatore, le urla di vittoria dei barbari a me alleati grottesche.
-Recuperatela!-, urlò un comandante. Lo vidi. Avanzai. Un altro uomo mi si fece dappresso. Lo scannai.
Non mi fermai a capire, non mi fermai a guardare il mio dovere era aprire un varco.
Dietro di me, le forze di Calus. Una freccia trapassò l’uomo dietro di me. La mischia si stemperò in scontri più piccoli, sempre più imprevedibili.
-LICANES!-, urlavano ambo gli schieramenti. Intonavano il Moripatres. Erano morti che camminavano.
Così non io, né i miei veri nemici. Ma dei Justicarii non c’era traccia. Salvo di uno. Una figura in nero.
Sorrisi attaccandolo. Parò e scartò. Lo riconobbi.
-Mateus Shrike. Troppo tempo dal giorno in cui scappasti dal vostro tempio in fiamme.-, sibilai con un ghigno. Lui attaccò, rapido. Brandiva due lame, come me. Un barbaro tentò di approfittare della sua distrazione, Mateus lo falciò. Io attaccai, ma i riflessi di quell’uomo erano notevoli. Schivò.
-Non sono più un neofita, Layla.-, sibilò lui.
-E non sei neppure una pecora. Eppure ti batti per difendere questo ignobile gregge. Patetico.-, sputai con disprezzo.
-Combatto per altri. Perché i forti devono proteggere i deboli. Non siamo bestie.-, rispose lui parando un mio attacco.
Attorno a noi si era fatto il vuoto. La mischia concedeva spazio.
-Non è vero e lo sai. Sesso e potere. Solo questo muove l’uomo. E uccidere è potere.-, sibilai. Lo odiavo. Odiavo ciò che rappresentava.
-Forse muove te. Ma non me. Io sono un Justicar. Ho fatto un voto.-, ribatté lui, -Morirò adempiendolo.-. Vibrò una serie di fendenti che avrebbe abbattuto avversari minori.
-Nobile, ma vano. Questo giorno è nostro.-, risposi attaccando. Era vero: le nostre forze avevano agevolmente circondato quelle di Aristarda. Urla di furia e incitamenti a non cedere erano la sola costante di quello scontro. Shrike parò. Fintai. Colpii di sorpresa. Una delle lame cadde, insieme alla mano di Shrike.
-E ora, nobile Justicar, abbraccia la fine.-, dissi puntando le lame. Mateus rimase in piedi. Attaccò ancora, spavaldo. Disperato? No. Rassegnato? Neanche. Determinato.
Vano quanto valoroso. Lo abbattei. Cadde nella polvere. Un campione morto eroicamente.
Di cui solo io serberò ricordo.
Parla Janus-Alexander, custode dell’Ultima Lama.
-Sfondano all’Ala Destra!-, urlò un tribuno nella calca. Impossibile dire chi o se fosse ancora vivo.
Mirai e scagliai. La freccia trapassò quello che pareva un capo.
I suoi non esitarono: continuarono a lanciarsi contro le forze di Aristarda. Eravamo circondati.
-Non cedete!-, urlai, -Non temete!-.
-Ci travolgono! Arrivano da ogni parte!-, fece eco qualcuno. Panico. Si diffondeva come un morbo.
Era così che le battaglie venivano perse. I morti erano pochi, ma il numero pesava.
-Figli di Roma, figlie del Kelreas! È così che volete morire? Come pavidi? La morte non è la fine!-, urlai.
Feci appello a tutta la mia forza. Da qualche parte, da un altrove, qualcosa rispose.
Sapevo cosa dire. Sapevo come dirlo e sapevo cosa fare.
-Non cederete terreno ai barbari. Non perirete dimenticati! Non è il vostro destino! Il fato vi chiama! Risponderete?-, chiesi a voce alta. Incoccai e scagliai. La freccia abbatté un ennesimo nemico.
-Licanes!-, urlai.
-Licanes!-, urlò Maghera, accanto a me, l’arco lungo maneggiato con perizia notevole. Ogni suo colpo fendeva un nemico. Ogni sua freccia arrivava a bersaglio.
-LICANES!-, gridarono tutti. La mischia era selvaggia.
Ci dirigemmo verso il nemico. Smontammo dalla quadriga quando i cavalli furono abbattuti.
Non mi rimasero più frecce dopo altri sei tiri. Sguainai l’Ultima Lama. Parai un fendente entrando nella guardia del nemico. La nemica, una guerriera seminuda e urlante, cercò di riguadagnare distanza. Colpii.
-Avanti!-, urlai. Parai con il bracciale in ferro un fendente e affondai ancora. Un legionario di Calus crollò a terra travolto dalla calca. Maghera sferrò un colpo con l’arco. Trapassò un nemico con una freccia senza aver tempo di tirarla.
-Caricare!-, ordinai. Ero quasi alla prima linea.
-Spingere!-, fece eco qualcuno. I lealisti cedettero terreno, solo per sferrare colpi più coordinati. Le Virageae ancora vive sull’Ala scagliarono nugoli di frecce sulla mischia. Calus, da qualche parte, urlava ordini. Maghera scagliò una freccia. Non so se colpì.
-Licario è a terra!-, gridò qualcuno dopo diversi minuti.
-Legio Salix, intorno a me! Pressare l’attacco! Un ultimo sforzo!-, incitò una voce.
-Scagliare!-, urlò qualcuno. Frecce. Un diluvio di frecce. Due legionari lealisti davanti a me furono travolti dai dardi. Prendemmo il loro posto. Maghera sguainò i coltelli.
-Sfondano a sinistra!-, urlò qualcuno. Non potevamo aiutarli.
-L’Imperatrix è là! Dobbiamo aiutarla!-, urlò un’altra voce.
-No! Nessuno abbandoni il posto! Tenere la posizione!-, ringhiai.
-L’Imperatrix!-, esclamò un legionario. Si fece largo a spallate verso la seconda linea. Lo afferrai ributtandolo in prima.
-Soldato! Hai un dovere. Tenere. Eseguilo!-, gli urlai. Lui parve scuotersi. Annuì.
Sapeva che avevo ragione. Salvare l’Ala Sinistra avrebbe implicato perdere la Destra.
E così, il Centro sarebbe stato veramente circondato. E a quel punto avremmo davvero, totalmente e definitivamente perso.
Parla Amsio Calus.
Vedevo le mie forze circondare quelle di Aristarda. Nonostante le perdite fossero sicuramente alte, eravamo ancora in palese vantaggio. Sorrisi. Incitai i cavalli sulla biga al trotto.
-Soldati! Combattete! Combattete per l’Impero! Per Licanes e gli avi!-, urlai.
Mi fecero eco, a stento ma lo fecero.
La domanda che mi ponevo era dove fosse Eria, ma non importava: l’Ala Destra di Aristarda era una mischia immane e la sinistra era in procinto di cedere. Solo il Centro pareva serbare la propria integrità.
Tra le fila dell’Imperatrix vidi un cambio di ranghi. Poco male. Segnalai di eseguirlo a nostra volta.
Avremmo prevalso? Avremmo perso? La tensione di quella domanda mi stritolava.
Il non avere risposta era un tarlo. Urlai altri ordini, pur consapevole che non servivano.
Ormai nessuno avrebbe veramente ascoltato o eseguito.
La battaglia era degenerata in una mischia immane.
Provai disgusto per tutto ciò: dov’erano le gesta ordinate del Mito. Dove?
Forse non c’erano mai state? O forse eravamo solo noi il frutto del nostro tempo atroce?
Non trovai una risposta. Non lì.
Parla Aristarda.
La Guardia Victrix vide l’ultimo suo componente perire circondato da nemici morti.
Io, appiedata e con la faretra vuota, brandivo il Tantō di Socrax con l’identica ira che mi aveva animata dall’inizio della battaglia. Il caos della mischia rendeva la visione confusa e portava la mente oltre il presente. Schivai per mero istinto un’ascia impugnata da un grosso barbaro biondo e contrattaccai atterrandolo. Altri lo finirono.
Non importava, lo vedevo: stavamo venendo decimati. Travolti.
Una freccia passò oltre la mia testa, conficcandosi nel collo di un mio fante.
-Raggrupparsi!-, ordinai, -Raggrupparsi all’Aquila!-.
Era costumanza: le Aquile delle Legioni erano quasi sacre. Una Legione privata della propria Aquila raramente veniva ricostruita dopo una battaglia e i suoi membri provavano in ogni caso scoramento e disonore. Per questo, quando vidi l’alfiere della Legio Nearcus venire trafitto e l’Aquila strappatagli di mano, reagii.
-Con me! Riprendiamola!-, urlai. Qualcuno sentì. Qualcuno tentò di seguirmi.
Avanzai noncurante. Qualcuno tentò di fermarmi. Non ci riuscì.
Quando arrivai dinnanzi al nemico usurpatore di quel simbolo, dovevo essere una visione orribile. L’elmo crestato era perso nella mischia, la mia corazza era ammaccata e non brillava più, sporca di fango e sangue. E il mio viso… sapevo bene di avere un’espressione feroce, l’espressione irata di una guerriera. Spacciai quell’uomo con pochi colpi e strinsi l’Aquila nella mia mano, innalzandola.
-A me!-, urlai, -A me!-. Accorsero. Prima pochi uomini. Fecero cerchio attorno a me e allo stendardo. Cantavano. Tutti loro. Cantavano il Moripatres.
Sapevano che non saremmo sopravvissuti: il nemico era tre volte il nostro numero.
La calca era solo che impressionante. Io strinsi i pugni sui manici di arma e bandiera.
Non sarei caduta senza combattere. Non avrei implorato.
L’orgoglio, vano e ultimo, mi sosteneva ancora.
Incominciai a cantare, la mia voce arrochita dagli ordini.
Conoscevo il Moripatres e conoscevo assai bene la verità: sarei perita cantandolo.
Il mio pensiero volò verso Hortensia, verso la Justicar che fu mia protettrice e amante.
Una muta lacrima cadde dal mio occhio. Poi, come in un sogno, l’orda nemica, legionari e barbari in un incongruo insieme, ci caricò.
Parla Calus.
Avevo perso traccia di dove fosse la mia guardia. Eravamo avanzati nell’Ala Destra tanto a fondo da averli visti ripiegare. Vidi due figure sul fronte, una giovane amazzone con due coltelli in pugno e un giovane con una lama dalla foggia bizzarra.
Fu una rivelazione. Le voci erano vere. Quell’uomo era Alexander Varus!
La Lama, l’Abraxes era lì! Se l’avessi preso, mi sarebbe stato oltremodo impossibile venir estromesso come sospettavo dal potere. Avevo ben visto che la Stirpe ed Eria non rispondevano a me. Combattevano su quel campo perché loro conveniva.
Ma con quell’arma, le cose sarebbero cambiate!
-Varus!-, urlai. Schioccai le fruste. I cavalli partirono al galoppo. Caricai, lancia in pugno.
Un fante di Aristarda mi si parò davanti. Lo alzai dal suolo, l’impeto del colpo di lancia centuplicato dalla mole della biga in corsa.
-Varus!-, urlai riprendendo la postura. Si voltò Mi vide.
-Calus!-, esclamò un’altra voce. L’amazzone. L’arco teso.
La freccia impattò contro la corazza pettorale. Una ragnatela di dolore mi s’impresse nei nervi mentre il contraccolpo mi sbalzava a terra. Per istinto, cercai di irrigidire il collo, di evitare a tutti i costi che l’impatto col terreno mi portasse a subire una frattura delle vertebre cervicali. Sarebbe stata la mia fine.
Riuscii ad alzarmi. Fui superato da numerosi soldati. Ausiliari barbari, legionari romanei, Virageae con lame corte. Un’orda. Quello era il mio esercito. Un’orda.
Fui spinto in avanti dalla mera mole di corpi. Mi trovai davanti avversari. La lancia era inutile. Parai un fendente con essa poi la scagliai estraendo la lama.
Non ero un codardo: non sarei morto, se così avesse dovuto essere, da codardo.
-Varus!-, urlai, -Io ti sfido!-. E lo vidi. Arrivò, calmo occhio del ciclone furente tutt’attorno.
-Io ti sfido, Alexander Varus!-, esclamai.
-E io, Amsio Calus, accetto la tua sfida.-, rispose lui. Vidi l’amazzone che aveva accanto farsi indietro, rispettosamente, ma non senza timore. Come a voler suggellare la sfida, la mischia parve scemare di violenza. Il campo fu lasciato a noi, contendenti.
Sorrisi. Quello era Alexander Varus. Dubitavo fortemente fosse in grado di battermi.
Ma, sin dai primi colpi, notai qualcosa. Varus non era… normale.
Il suo modo di muoversi, di battersi, non era quello di un neofita, e neppure di uno che applicava nozioni apprese dai maestri di lama. Né vi ravvedevo qualcosa di barbarico.
Eppure il modo di muoversi, di attaccare e difendersi…
Com’era possibile che quel giovane, che aveva lasciato Roma dietro consiglio di quel suo precettore, Socrax, avesse invero maturato una simile arte?
Parla Maghera.
Quando il mio amato avanzò per la sfida, sapevo che qualcosa di nuovo era accaduto.
Ho vissuto molte vite. In questa, per la prima volta, non sono campionessa, ma testimone.
Una novità che proporrebbe la fine del ciclo. È forse possibile?
Osservai quell’uomo affrontare il mio compagno, il viso sempre più pervaso da fatica, stupore e panico mentre intuiva che il suo avversario non era una vittima, né un comune milite del suo popolo. Guardando gli astanti, notai che anch’essi erano sorpresi.
La mischia attorno alla sfida si era del tutto tacitata. Solo in lontananza ci si batteva ancora. Lungo l’Ala Sinistra di Aristarda, la pugna continuava.
Osservavo quel duello e comprendevo che anticamente ne avevo visto un secondo.
Cassius. Era stato quell’uomo, il secondo traditore di Janus, a misurarsi contro di lui lama contro lama e lì, ancora stava accadendo? Mi guardai attorno.
A suo tempo, qualcuno aveva cercato d’interferire, ed aveva assaggiato le mie frecce.
“Oggi invece?”, chiesi al cielo. Ma la Dea Madre rimase silente.
Trovai una freccia e incoccai. Non tesi. Non ancora.
-Nessun interferenza, straniera.-, disse un guerriero con la livrea di Calus.
-No. Ma sappiamo bene che chiunque vinca, la strage non si fermerà.-, risposi.
L’uomo parve colpito dalla mia risposta. Annuì appena. Continuai a guardare i duellanti.
Parla Janus-Alexander.
Non mi pareva di star combattendo Amsio Calus. Passato e presente avevano rotto gli argini. Percepivo aria di salsedine, mare. Sentivo sulla pelle il caldo di un sole assente.
I colpi del mio avversario erano buoni, ma per qualche ragione mi sentivo… superiore.
“Tutto qui? Ho affrontato i campioni Cimanei sotto le mura della sacra Licanes…”, mi sorpresi a pensare. Colpii. La mia lama tagliò con un fendente il nulla prima di affondare.
Il fianco di Calus rimasto scoperto, si aprì. La lama trovò il pertugio.
Mi fermai. Estrassi. Urlando di dolore, di perdita, l’avversario cadde in ginocchio.
E per un istante fui sul ponte di una galea, di una nobile nave licanea, circondato da esuli stanchi del peregrinare, ai miei piedi un nemico vinto… Che implorava per il colpo finale.
“Dimostrandomi così non diverso da coloro che consegnarono Licanes al mito…”, pensai.
Lottai contro il passato. Ero su un diverso campo di battaglia. E il mio avversario non era più un amico divenuto traditore, bensì un tiranno piangente. La mia pietà avrebbe condannato l’Impero ad altre guerre? O avrebbe illuminato le menti ai più.
-Amsio Calus…-, quelle parole mi uscirono con ira e stanchezza. Il sole non c’era ma, ci fosse stato, sarebbe stato alto nel cielo. Era mezzogiorno? No. Ma poco mancava.
-Chi sei…?-, osò chiedere Calus, cercando di rialzarsi. A fatica, ci riuscì.
-Io sono Janus. E sono colui che chiami Alexander Varus. E risparmio la tua vita, ma concederai alle nostre forze di soccorrere i feriti su quest’ala. Così vogliono le leggi di Licanes.-, dissi. Il viso di Calus era stupore puro. Maghera avanzò, al mio fianco.
-Sei stato risparmiato. L’onore t’impone di ottemperare a tale condizione.-, disse.
-Anche volendo non potrei. I barbari vogliono il sangue… e anche i miei generali.-, nel viso di Calus si fece largo la tristezza, il dolore più profondo.
Attorno a loro, la mischia stava riprendendo, lentamente ma inesorabilmente.
-Sono stato una mera pedina di uomini e donne assetati di potere. Di tutti coloro che mi hanno seguito o attorniato…-, sussurrò, quasi inudibile, -Liberami da quest’onta!-, esclamò afferrandomi il polso armato. Mi divincolai.
-No.-, risposi, -Il suicidio è facile. È vivere che è difficile. Rimediare.-.
Voltai le spalle ad Amsio Calus, abbattendo due nemici con fendenti precisi mentre un legionario impediva che un barbaro del nord mi conficcasse un pugnale nel collo.
Ripresi il mio posto tra i ranghi. Vidi Calus fendere la calca in senso contrario.
Ciò che avrebbe fatto non m’importava: il confronto veramente importante, il mio vero compito e la mia ultima prova doveva ancora arrivare.
Parla Layla
I soldati di Aristarda si battevano con il coraggio di chi sa che la fine è vicina. Sulle labbra di vivi e morenti le parole del Moripatres e tra le mani armi maneggiate con perizia in sprezzo della sempre maggiore stanchezza.
Valorosi, dei veri eroi degni di lodi e sicuramente meritevoli di canti e onori eterni.
Purtroppo però, quest’oggi, nessuno rimarrà a ricordarli.
Ne abbattei altri due, facendomi largo, incurante delle ferite che occasionalmente infliggevano. Avanzavo senza ostacoli. D’altronde, come avrebbe potuto essere altrimenti?
I migliori di Aristarda guerreggiavano da dieci, o forse vent’anni al massimo. Alcuni forse erano veterani delle campagne di suo padre. Io? Io combattevo da ben prima che Licanes stessa cadesse! Al confronto, quelli erano dei bambini.
Non potevo però negarne il coraggio. Anche circondati e dinnanzi al mio viso che sapevo terrificante, mantenevano la linea. Pur tremando, osavano intralciarmi!
-Un giorno da lupi.-, mormorai, inudita nel caos generale.
Abbattei altri due nemici e ne spinsi a terra un terzo. E la vidi.
Aristarda Nera. In una mano il Tantō, arma iconica dei miei nemici, nell’altra reggeva l’Aquila di una delle sue Legioni. Notevole esempio di guida e ardore.
-Aristarda Nera!-, esclamai con rispetto e ira, -Lieta di vedere che non ti nascondi come una codarda dietro ai tuoi soldati!-.
-Credevo di averlo reso ben chiaro: io non mi nascondo.-, rispose l’Imperatrix.
Era regale e altezzosa anche in quello stato, persino in quel momento. Sorrisi.
-È quasi un dispiacere doverti uccidere.-, dissi. Attaccai.
Parla Amsio Calus.
Raggiunsi le retrovie, sofferente. Qui numerosi feriti attendevano cure. Comandanti meno intraprendenti o più intenzionati a raggiungere la gloria da vivi supervisionavano l’andamento della battaglia con espressioni compiaciute.
-Richiamate gli uomini.-, ordinai. I due Comes Imperatoris, miei consiglieri, Licinius e Rufus a malapena mi guardarono.
-Mio signore…-, iniziò Rufus con deferenza appena accennata.
-… È impossibile.-, completò Licinius. I due si scambiarono uno sguardo d’intesa.
Erano pappa e ciccia. Lo erano sempre stati. Anche più che alleati, se bisognava dar retta a numerose e implacabili voci di corridoio.
-Ho dato la mia parola. Esco sconfitto da un duello. Richiamate le truppe. Il nemico merita una tregua. Anche solo per il valore dimostrato.-, insistetti. I due si guardarono, apparentemente disinteressati.
-Non è possibile, signore.-, fece Licinius. Rufus fece per aprire la bocca ma lo fermai con un gesto. Non avrei tollerato altre vane parole da lui.
-Sono ancora l’Imperator. Finché Eria non mi affonderà una lama in petto sono e rimango colui cui avete giurato fedeltà. IO sono il potere in Roma, non la vostra confraternita né un defunto ideale, e voi non farete di me un infame!-, la mia voce sovrastò le urla in lontananza. Rufus e Licinius mi guardarono, entrambi.
-Imperator. Sappiamo bene la verità.-, disse Licinius.
-Sei dove sei perché altri ti hanno elevato.-, sogghignò Rufus.
-La tua porpora non fu presa con le tue sole forze.-, disse un terzo uomo. Lo riconobbi.
-Anisandro.-, dissi. Era uno dei congiurati che mi aveva aiutato a uccidere Septimo Nero.
-È la Stirpe che ti ha dato il Trono. Ed è la Stirpe a decidere.-, decretò Rufus.
-Lo vedremo!-, ero tutt’altro che domo. Chiamai a me i soldati, urlai di arrestare quei tre.
Nessuno fece una mossa. In molti mi guardarono come fossi folle.
-Imperator.-, sogghignò Anisandro, -È chiaro che s’impone una linea d’azione.-.
-Sì. Riteniamo tu sia provato. La battaglia è lunga. Occorrerebbe che tu riposassi.-, belò Licinio. Lo guardai. Quei suoi capelli ricci, il viso incipriato come un attore, o un efebo…
-Traditori.-, sibilai, -Avete cospirato sino a qui… Ma morirò prima di lasciarvi l’Impero.-.
-I traditori di oggi sono gli eroi di domani.-, Rufus mi rise in faccia. Notai le mani del terzetto. Erano tutte in prossimità delle lame che portavano alle cintole.
-Uccidereste l’Imperator?!-, esclamai. Ero basito.
-Già lo facemmo. Che ci vorrebbe?-, chiese Anisandro con un sogghigno.
-Aristarda è condannata. Le sue forze non vedranno la fine del giorno. E neppure lei. La Stirpe ha vinto, e lo sai bene, Calus.-, dichiarò Licinius.
“Calus”, non “Imperator”. L’onta mi travolse. Incendiò la mia rabbia.
-Voi… voi siete indegni del retaggio di Licanes.-, sibilai. Cercai la mia arma ma non la trovai. L’avevo perduta, in un momento ignoto. I tre sogghignarono nuovamente, malignamente. Estrassero le proprie lame. Nessuno parve badarvi.
-Voi…-, esclamai. Non avevo più parole. Né salvezza: altri due legionari si ersero alle mie spalle, chiudendomi ogni via di fuga.
-Voi che per padre avete il Male e bramate di fare i desideri del padre vostro.-, disse una voce. Mi volsi nella direzione della voce, una voce tanto nota quanto, in quel momento, totalmente aliena. BLAM!
Uno dei Legionari crollò, centrato da un proiettile ad alto impatto. Clack-Clack.
-Il male imperversa tra gli uomini.-, la voce giungeva dall’imponente sagoma di Variato, la mia ultima e più fedele guardia. Ammantato in una cappa nera come quella dei Justicarii che, come incubi, ancora tormentavano il mio animo. BLAM!
L’altro Legionario crollò all’indietro, morto. I congiurati si avventarono.
-Ed io farò scatenerò la mia giusta furia su di esso, affinché tu che vi è ancora speranza.-, anche Variato si avventò, brandendo il falcione. Io rotolai, ruzzolai all’indietro.
Licinius fu trafitto al petto dall’arma di Variato. Rufus e Anisandro affondarono le lame, impietosi e feroci, urlando di terrore e di furia. Anche io urlai, vedendo Variato trafitto.
-E tu saprai che il mio nome…-, Variato sputò qualcosa di rossastro mentre sfilava l’arma e colpiva, -È araldo del tuo giudizio quando la mia giustizia calerà su di te.-, proferì.
Colpì con il calcio dell’arma e con la lama. Rufus e Anisandro colpirono a loro volta, ma Variato resistette. Li guardò cadere esanimi, trafitti e pesti, ai suoi piedi. Morti.
Poi crollò. In ginocchio sui talloni. Si estrasse una lama dal fianco.
-Variato!-, esclamai. Improvvisamente sentii il cuore stretto da dita gelide, consapevole che quell’uomo, quell’uomo incredibile, aveva dato la sua vita per me.
Sanguinava da numerose ferite. Mi guardò. -Ave, Imperator.-, disse.
-Non morirai. Non oggi! Apotecarii!!-, urlai a squarciagola. Qualcuno accorse.
-Mio signore…-, sussurrò Variato, -Vi è un tempo per tutto. Il mio giunge oggi.-.
-No…-, mormorai, -Non anche tu!-. L’Apotecario scosse il capo, sconsolato. Nulla da fare.
-Dovevo essere io, mio signore. Per espiare. Forse non esiste perdono… ma può esistere… redenzione.-, mormorò, -Redenzione per ciò che feci… ai miei fratelli e alle mie sorelle.-.
-Esiste.-, dissi. Sentivo lacrime di sofferenza bagnarmi il viso, -Esiste sicuramente.-.
-Se esiste per me…-, Variato raccolse il fiato, -Esisterà anche per voi.-. Tacqui.
-Non credo sia possibile…-, mormorai. Variato sorrise. Indicò qualcosa. Lontano.
Io seguii il suo sguardo immobile, pregno della fissità della morte. Rimasi estasiato.
Parla Aristarda Nera.
Avevo già combattuto. Il nobile Plisio Antario aveva curato la mia istruzione nel combattimento sin da quando avevo nove anni. Lithea, una delle guardie di mio padre mi aveva insegnato a tirare con l’arco, ma Plisio aveva impresso in me la conoscenza della scherma con tale capacità da avermi definito la più capace delle sue allieve.
Anche dopo tale tappa nella mia crescita, c’erano giorni in cui mi esercitavo, da sola o con qualcuno, rinfrescando le nozioni. Quando scelsi l’esilio e l’Hiberia si sollevò con me contro Septimo, tali esercizi non furono più per diletto o diversione.
Non temevo di battermi: dopo la cattura di Proximo, diressi la ritirata delle mie forze, rifiutando caparbiamente di cedere la retroguardia.
Durante la successiva Battaglia di Agripatus, e contro il volere dei miei ufficiali, fui in prima linea, e così ancora durante lo sbarco in Italica.
Avevo già affrontato altri in combattimento, ma mai nessuno come quella guerriera uscita dal Mito di Licanes. Tutta la mia tecnica, tutte le mie energie, servivano solo a garantire che essa non mi colpisse. E anche così, occasionalmente qualche fendente andava a segno.
Un taglio sul braccio, uno su una gamba, un calcio basso… Eria mi stava vincendo.
Le forze lentamente venivano meno. Una stilla di sangue alla volta.
Il peggio era che avrebbe potuto concluderla in fretta ma non voleva.
Stava giocando con me come un paziente gatto con il topo chiuso all’angolo.
Nessuno mi avrebbe aiutato: subito dietro di lei, i suoi uomini avevano aggredito i miei legionari con furia omicida, con il preciso obiettivo di isolarmi. Ero la sua preda.
-Dov’è ora il tuo dio?-, chiese la guerriera nera, -Dov’è il tuo campione?-.
Sferrava attacchi rapidi, ma senza forza, intenta a godersi la mia crescente disperazione.
-Dove sono ora i tuoi soldati, Imperatrix?-, chiese la guerriera uscita letteralmente dalla Storia stessa, partorita da incubi. I suoi fendenti erano rapidi, un arabesco di colpi tanto mirabile da farla apparire come due avversari distinti. Le lame che brandiva erano rosse di sangue. Il mio e quello dei miei soldati. Un ennesimo tagli si disegnò sul mio braccio destro. Una ferita dappoco, ma insieme alle altre… Strinsi la lama, cercando di contrattaccare. La guerriera. Eria, o Layla, comunque si chiamasse, rise. Sprezzante.
-La verità è che ti stimo, Aristarda Nera. Per stima ti concedo di attaccarmi. Di nuovo.-.
Dette quelle parole, Layla aprì le braccia a croce, esponendo il petto.
Io la guardai. Era davvero tanto sicura?
-Perché?-, chiesi, -Perché questa follia? Perché tutta questa morte?-.
-Perché? Per mondare l’Impero dalla debolezza. Per assicurare che giustizia fosse fatta.-, rispose lei, come se lo stesse spiegando a un’infante.
-Sei folle… Tutta questa ira… Tutto questo dolore… per cosa? Per un tradimento? Fu davvero tanto orribile il crimine di Janus?-, chiesi.
-Più o meno della guerra con tuo fratello? Dimmi, Imperatrix, ti fu tanto difficile scegliere la guerra?-, chiese lei in rimando. Gli occhi verdi della guerriera parevano trapassarmi l’anima, scrutare nei suoi più profondi recessi, alla ricerca delle radici del male.
-No.-, ammisi con vergogna che non celai.
-Infatti! Affoghiamo tutti nell’oscurità. Lussuria, rabbia, paura… Siamo animali. La sola scelta è tra l’essere lupi o pecore.-, continuò Layla. La rabbia mi spinse ad attaccare.
Come in un sogno, la vidi immobile, ad attendere il mio colpo.
Urlai sferrando quell’affondo che speravo capace di aver ragione di una leggenda.
Poi, in un istante, la vidi muovere appena il braccio destro. Mi oltrepassò con un passo quasi danzante, mentre dal mio polso destro s’irradiava l’atroce dolore del taglio.
-Non brandirai alcun’altra lama con quella mano, Imperatrix.-, dichiarò Layla.
Il Tantō mi scivolò dalla mano, lesa. Strinsi il polso ferito, crollando in ginocchio.
Non ce l’avrei fatta a rialzarmi. Era finita. Fissai la mia avversaria con ira impotente.
E improvvisamente, udimmo qualcosa. Altre buccine. Altri suoni. Da est.
Parla Layla.
Guardai Aristarda. A dispetto dell’ira, nutrivo rispetto per lei.
A differenza di suo fratello, non si era nascosta, non aveva ricorso a inganni o mezzucci.
Era degna d’onore. A differenza di Calus e di tanti altri pretendenti, lei si era sporcata le mani, ma non era solo quello a portarmi a rispettarla.
Aristarda era una combattente, e una donna d’onore, ma non solo. Era una bella donna, nessun dubbio su quello. L’incarnato del Kelreas sposava i tratti nobili in un’unione armoniosa e decisamente volitiva. Mi piaceva d’aspetto.
Avevo avuto sia uomini che donne. Avevo giaciuto con molti per mero piacere e con pochi per necessità. Con lei sarebbe stato solo un piacere poter condividere l’estasi del piacere.
Ma non sarebbe accaduto. Un rimpianto sottile, che sfumò nel nulla nel giro di un respiro.
Sentivo dei rumori. Altri contingenti in arrivo. Poco importava. Lo scontro era deciso.
Aristarda era in mio potere. L’Aquila della Legione che aveva difeso giaceva a terra, abbattuta. I suoi uomini perivano poco distante, impossibilitati ad aiutarla.
-È finita.-, dissi. Afferrai l’Imperatrix per il collo sollevandola. Lei cercò di divincolarsi ma la mia forza era centuplicata dall’odio, dall’elisir di cui mi ero sostentata sin da quando i Licanei mi avevano trasformata insieme ai miei camerati e dalla consapevolezza di essere prossimi all’obiettivo finale.
-La Lama, Aristarda. Se me la darai ti risparmierò la vita.-, dissi.
-Mai!-, riuscì a proferire lei, sprezzante sino in fondo. Sorrisi.
-E sia, Imperatrix.-, dissi. Udii qualcuno urlare. Lasciai cadere l’Imperatrix a terra e trafissi il giovane soldato che era riuscito ad aprirsi un varco tra i miei uomini.
Rivolsi la mia attenzione alla donna che ora strisciava sul ventre verso un’arma.
La rivoltai col piede. Il viso di Aristarda Nera esprimeva disprezzo e risolutezza.
-È quasi un dispiacere ucciderti.-, sussurrai. Alzai il piede. E mi fermai.
Udivo suoni. Non le buccine delle legioni. Non solo. Conchiglie e corni.
Rinforzi di Calus? Improbabile. Mi volsi verso est.
-Non è possibile…-, mormorai. Lo sgomento sul mio viso dovette essere evidente, ma soprattutto diede modo all’Imperatrix di allontanarmi alla meno peggio. Riconquistai l’equilibrio mentre lei si rialzava. E anche lei vide.
-Dea… Grazie.-, sussurrò. Io risi. Di cuore.
-Bene! Anche i Justicarii si sono uniti a noi, infine! Mi risparmiano la fatica di doverli andare a cercare. Che vengano pure!-, esclamai.
-Ognuno di loro vale otto dei tuoi cosiddetti soldati.-, sputò Aristarda.
Era vero, ma la consapevolezza che il loro arrivo fosse tardivo e ininfluente rese quell’osservazione una mera nota a margine.
-Nondimeno, Imperatrix, è finita. I tuoi uomini non ti salveranno.-, dissi.
“E con la tua morte, questa farsa avrà fine.”, pensai. Impugnai le lame. Aristarda sorrise appena. I Justicarii caricarono la linea di Calus dal fianco. Chi a cavallo di strani destrieri metallici e chi su cavalcature più note come equini, spazzarono la futile resistenza nemica.
La loro carica si arenò frammentandosi in centinaia di scontri. Io rivolsi la mia attenzione alla mia avversaria. Aristarda impugnava un corto pugnale nella sinistra.
“Tenace sino alla fine.”, pensai con un’ombra di orgoglio. Alla fine i discendenti di Licanes mostravano la loro tempra e non avevano nulla da invidiare agli eroi del Mito.
La disarmai dopo pochi fendenti. E fu proprio prima che il colpo finale giungesse a bersaglio che un’ombra nera mi travolse.
-Muori!-, urlò una voce di donna. Una lama curva e un’altra che pareva curvata all’opposto mi comparvero davanti. Colpirono in sequenza, ascendente destro, discendente sinistro, poi l’opposto. Schivai ma non del tutto: sulla mia coscia sinistra si disegnò un taglio cremisi. Mi allontanai appena mentre la mischia riprendeva, più cruenta che mai.
La guerriera era una giovane donna, capelli neri riuniti in trecce, carnagione scura, tipica delle regioni dell’Africa… quando ancora veniva conosciuta con quel nome dai savi di Licanes. Indossava le vesti di pelle dei Justicarii.
-Oh. Una nuova sfidante! Lieta di non doverti cercare nella mischia.-, dissi con un ghigno deliziato. Aristarda emise un singulto da terra. Alzò una mano, come a voler impedire quel confronto. Il movimento non mi sfuggi.
-Stai lontana da lei, mostro!-, la guerriera parlò, l’accento che distorceva appena la pronuncia della lingua di Roma. Io sorrisi, sapendomi già vincitrice.
-E tu chi sei? Dì il tuo nome affinché Yneas possa chiamarti a sé.-, chiesi secondo formula.
-Hortensia Buenariva. Tu hai osato colpire chi amo e proteggo. Lascerò le tue ossa in pasto alle fiere.-, ribatté lei. Io ghignai. Lessi, sul viso di Aristarda ancora visibile dietro la sua protettrice, l’ombra dell’apprensione.
-Oh. Un tale amore tra donne! Immagino che l’Imperatrix sia stata un banchetto per i tuoi sensi, nevvero? Una simile baldoria estatica da lasciar senza parole poeti e musici!-, esclamai. Hortensia non rispose. Gli occhi si muovevano appena, cercando brecce nella mia difesa, errori da sfruttare. Ridacchiai.
-E quanto dev’essere stato piacevole, Imperatrix! Hortensia non pare certo ripugnante. Sicuramente dev’essere stata una variazione notevole! Proximo Lario avrebbe apprezzato la sua compagnia?-, chiesi. Hortensia non cambiò espressione.
Male. Ma non mi aspettavo funzionasse. I Justicarii erano capaci di entrare in un una forma mentis di impressionante concentrazione. Una distrazione da parte di Hortensia mi avrebbe delusa, significava che l’addestramento di quei guerrieri era venuto meno.
-Hortensia… va via!-, esclamò Aristarda. Fu ignorata.
-Ascolta la tua amata, Justicar.-, la incitai, -Da me avrai solo il bacio freddo dei miei pugnali.-. Hortensia non rispose. Il suo sguardo era fisso nel mio. Occhi verdi contro i baratri dei suoi occhi, che parevano infinitamente profondi.
Buenariva… Il nome non mi era nuovo. Perché?
-Di chi sei figlia?-, chiesi infine.
-Lo sai, demone.-, rispose lei, sprezzante, -Discendo da Maria e Isa Buenariva, a loro volta discendenti di colei che fu compagna del Fondatore, primo del nostro Ordine.-.
-Un illustre retaggio che si conclude qui ed ora.-, sibilai attaccando.
Nel suo modo di combattere non c’era tecnica. Non nel senso che non fosse addestrata: non seguiva alcuno schema, era imprevedibile. Urlava e colpiva con attacchi che più che i duelli dell’antico mito di Licanes facevano ricordare zuffe tra selvaggi.
Mandò a segno un jab ascendente che mi costrinse ad allontanarmi, poi un fendente che incise la carne del mio fianco e infine un calcio basso al ginocchio.
-Selvaggia!-, ringhiai, il divertimento dissipato dall’ira. Le sferrai un fendente che divenne un pugno in corso d’opera. La sentii irrigidire i muscoli ma fu comunque tardi. La gomitata che le centrò il mento la stordì abbastanza da colpire. Le trapassai una spalla con una delle lame, proiettandola contro Aristarda Nera, in procinto di rialzarsi.
Crollarono entrambe a terra. Io sputai un fiotto di sangue dal labbro rotto.
-Una vera guerriera, Hortensia. Hai il mio rispetto. E come promesso…-, alzai l’arma al cielo, -Il bacio delle mie lame!-. Abbassai la lama sui corpi riversi a terra.
Clang! Il suono di metallo contro metallo. Un’altra lama aveva fermato la mia. Al di sotto dei ferri incrociati, il viso di Hortensia e quello di Aristarda si riempirono di stupore.
Riconobbi la lama prima ancora del suo proprietario.
-Come ai vecchi tempi.-, mormorò la voce di Alexander Varus.
-Janus.-, sibilai con odio, -Dov’è Maghera? Trovo sbagliato che quella meretrice fedifraga non sia qui.-.
-Oh, ma io sono qui, Layla.-, la voce dell’amazzone fece capolino, come la sua figura.
Attorno a noi, la rissa si era quietata. Justicarii e lealisti di Aristarda dividevano il campo con i barbari alleati dei soldati di Calus. E tutti fissavano noi tre.
Fissai i miei avversari. Alexander Varus pareva fiero, finanche spavaldo nella corazza anonima datagli. Maghera invece, nelle vesti leggere delle Amazzoni del Kelreas pareva uguale a come la ricordavo. Come se il tempo non fosse mai trascorso.
-Siete venuti a salvare l’Imperatrix.-, dissi con un ghigno, -Commovente.-.
-Siamo venuti a salvare te. Da te stessa.-, rispose Maghera. Io la fissai, con rabbia.
-Io non voglio essere salvata. Sarà la vostra morte a liberarmi da questa prigione.-, risposi.
-L’hai creata tu, Layla.-, disse Alexander-Janus, -L’hai creata nel momento in cui affondasti la tua lama trovando il mio cuore.-.
Strinsi i denti sino a sentirli scricchiolare. Ricordavo quella notte. Ricordavo di aver visto lui e Maghera… Amanti… in un modo in cui non avrei mai potuto essere. Lei madre…
-Lei ti ha rubato a me!-, ringhiai. L’ira stringeva il mio cuore, mi strozzava il respiro.
Bramava rilascio. Bramava sollievo. Bramava morte.
-Sei stata tu ad allontanarmi. Eravamo in tre. Un patto costruito sull’idea di unione, ricordi? La possibilità di rendere a Licanes un futuro. -, mi rammentò Janus.
-Bugiardo!-, ringhiai, -Io so che la preferivi. Era lei che amavi. Era lei che cercavi! Era a lei che concedevi il tuo seme perché portasse frutto! Io ero una concubina! Un mero rimpiazzo per quando lei non poteva esserci!-. Janus mi guardò. In quegli occhi vidi qualcosa.
Dolore. Lo stesso che forse aveva provato morendo? No. Diverso. “Si pente?”.
La rabbia mosse la mia mano. Attaccai. Janus parò. Ristabilì la distanza.
-Io non potevo darti figli e lo sai! Lei sì! Ma quanto conveniente, questo! Quanto grande dev’essere stato il tuo piacere al sapere che avresti avuto lei e non me! Non avresti mai tollerato un Cimaneo come figlio, nevvero, Janus?-, chiesi sputando veleno.
-Non l’avreste mai accettato, un simile mostro, nevvero? Com’è vero che non accettavate me!-, mi rivolsi a Maghera, osservandola con ira, -Mi guardavi con disprezzo tale da non riuscire a sostenere il mio sguardo! Non mentire!-. L’amazzone mi fissò.
-Il mio sguardo trema, ora?-, chiese. Non risposi. Non le avrei dato quella soddisfazione.
-Il tuo cuore?-, chiesi attaccandola. Maghera parò. Uno dei suoi coltelli fu scheggiato dall’impatto con la mia lama. La vidi indietreggiare. Colsi Janus muoversi con la coda dell’occhio. Puntai l’altra lama alla sua gola mentre minacciavo la sua donna.
-Non osare. Non osare dirmi che non provi nulla. Non osare dirmi che mento e mi sbaglio.-, sibilai, -Ricordo bene i vostri sguardi. I suoi erano di disgusto e paura.-, dissi indicando Maghera, -Ma i tuoi, o ultimo dei Licanei, erano di pietà! Mi erano intollerabili!-.
Guardai negli occhi Janus sperando di trovarvi qualcosa. Negazione. Ira. Nulla.
“Patetico. Ecco cosa ti ha fatto questo mondo e questa nuova vita e il vagare tra i reami di Yneas. Ti ha reso un patetico simulacro di ciò che fosti.”, pensai.
-Mai, mai nella mia vita, ho voluto la tua pietà, Janus! Non l’ho voluta sotto le mura di Licanes, non l’ho voluta quando ci ritrovammo e mi fu intollerabile quando mi prendevi tra le tue braccia, tra le coltri del nostro letto! Lì soprattutto!-, lacrime di furore abbandonarono i miei occhi, un’ira che non credevo possibile esprimere senza morirne.
-Quando mi abbracciavi e baciavi, i tuoi occhi erano colmi di pietà. Di commiserazione.-, sussurrai, -Mi vedevi come una vittima! Di Licanes, del Fato, finanche del tuo amore!-.
-Layla…-, iniziò lui. Allungai appena il braccio. La mia lama ora sfiorava la sua gola.
-Zitto…-, soffiai, -Ero un trastullo piacevole, no? La selvaggia Cimanea domata…-.
-Non sei mai stata un trastullo. Non per lui.-, mormorò Maghera.
-Oh, certo! Dopo un po’ probabilmente sono stata solo un rimpiazzo. Il trastullo, l’amata, eri tu. Come ci si sente, o Erede del Kelreas, a spodestare un’Imperatrice?-, chiesi.
-Non era ciò che volevamo e non era ciò che abbiamo fatto!-, esclamò l’amazzone.
-NO?!-, esplosi io. Piantai il mio sguardo in quello della guerriera.
-Non era ciò che volevi, il suo seme nel tuo ventre? Non bramavi forse questo, Maghera? Non hai forse tu voluto il suo frutto nel tuo utero? E quando è nata…-, mi fermai, presi fiato, -Quando nacque non hai forse tu benedetto la tua dea per il dono concessoti?-.
-Io non ti ho spodestata. Tantomeno ho voluto defraudarti.-, ribatté l’amazzone.
Fu la goccia. Attaccai. Sia Janus che Maghera si difesero. La lunghezza delle mie lame mi garantiva sicurezza dai pugnali di lei e l’abilità mi permetteva di sapermi al sicuro dall’Ultima Lama. Non riuscivo ad avanzare, ma neppure loro avevano modo di prevalere.
-Hai pervertito la mia Lama. L’hai resa debole, come te!-, esclamai.
-L’ho cambiata. Ora ha un diverso destino. Puoi fare lo stesso, Layla. Non è troppo tardi per la redenzione.-, rispose Janus. Un mio fendente incise il suo bicipite.
Sangue versato. Allora come oggi. La scena mi galleggiò davanti agli occhi.
La sala del palazzo… Janus riverso a terra, il petto squarciato. Maghera in lacrime, in fuga.
Passi. I Justicarii! Gli alleati del Trono. Impossibile combatterli. Mai arrendersi!
Non ero colpevole. Ero una vittima. E avrei avuto vendetta e giustizia!
Un dolore, come se le carni straziate e il sangue versato fossero miei.
Fuggire. Nascondersi. Svanire nell’ombra della Storia.
E riprendere ciò che mi era stato tolto.
Nessuna redenzione, Janus. Distruggimi o sii distrutto e lo stesso vale per la tua sgualdrina.-, sibilai, -Non vi sono alternative. Non ve ne sono mai state.-.
-Ti sbagli.-, replicò lui, -Hai sempre una scelta. Puoi ancora fare un passo indietro. Possiamo ancora essere migliori.-.
-E quanto ci vorrà perché si ripeta tutto?-, chiesi. No: non volevo un simile tormento. Meglio la morte, loro o mia. Era più rapido e pulito che soffrire ancora.
E comunque, non vi era più motivo di soffrire.
-Vuoi veramente questo?-, chiese Janus, -Morte e distruzione? Dov’è finita la guerriera capace di vedere oltre? Di intravedere una vita tra tutto il sangue e la devastazione? Dov’è finita la donna che mi ha convinto a non cedere alla paura, all’odio, allo scoramento dopo un’odissea in mare? Dov’è colei che mi convinse a calpestare la mia lama?-.
-È morta! Uccisa dalla tua noncuranza, massacrata da voi!-, urlai.
Ricordi, affluirono ancora. Maghera su Janus, impalata dal suo sesso… io a spiare, a osservare, da un pertugio. Il pianto fu silente. Come in un incubo, vedevo quell’amplesso come la conferma di tutto ciò che avevo sospettato. Tornare a letto fu doloroso, i giorni dopo furono terribili. Il fatto di trovarmi con loro due… di parlare con loro due… Mi era intollerabile. Ma infine, la mia ira trovò un bersaglio. Maghera.
Lei che mi guardava con riverente timore ma che non si faceva scrupolo a farsi scudo della notte e della mia fiducia per esser presa dal mio uomo…
Lei che mentre il ventre le si ingrandiva continuava a tirare con l’arco nei cortili, sorridendomi come a sfottermi mentre parlavamo. Pregustando una gioia negatami.
Lei che aveva osato dirsi mia amica!
-Noi non volevamo questo!-, urlò Maghera, -E mi sarei strappata le vesti e rasata il capo se avessi saputo!-. Attaccò rischiando. Le sue lame erano più corte delle mie. Janus mi sbilanciò, facendomi perdere un’occasione di colpirla. L’amazzone indietreggiò, intuendo il pericolo. Evitai il fendente di Janus, sferrandogli un calcio che lo costrinse a distanza.
-Bugiarda! Mi detestavi! Odiavi il mio aspetto, lo so bene! Per te ero e sono un mostro!-, ringhiai. Nella mente rivedevo tutto. Pasti, giornate liete, decisioni e cerimonie e sempre, Maghera mi aveva guardata con quello sguardo. Timore… odio? Sicuramente disgusto.
-Ti strapperesti le vesti ora, figlia del Kelreas? Lo faresti per me qui e ora?-, chiesi.
-Servirebbe a placare l’odio?-, chiese Maghera. Ci pensai. No. Era tardi. Scossi il capo.
-Lo farei.-, rispose lei, -Lo farebbe Janus come me.-.
-Siete patetici. Mi odiate tanto da essere così misericordiosi e sperate nel mio perdono come s’invoca dell’acqua nel deserto! Siete così arrendevoli che non osate attaccare per uccidermi.-, dissi. Il sole batteva pesante. Mezzogiorno era giunto e passato.
-Lo faremmo perché vogliamo che tu ritorni, Layla. Non sei questo. Non sei una macchina di morte, non solo.-, Janus osò fare un passo verso di me, la lama rivolta al terreno, -C’è stato altro e non osare dirmi che mento! In quel tempio non vi era disgusto nel mio sguardo, o figlia di Licanes. E tu questo lo sai bene!-, esclamò.
Tacqui. Non era falso e lo sapevo. Ci eravamo amati su quell’altare dimenticato dagli Déi.
Tutto ciò che Eria, tutto ciò che ciò che ero stata avrebbe voluto diventare lo ero divenuta là, amata da un nemico che non sarei mai riuscita a uccidere.
Ma questo, ricordai, era stato prima. Prima dell’Unione. Prima di Maghera e della vita in tre. Prima degli sguardi, dell’odio strisciante, della lenta caduta, dello scivolare sullo sfondo come una patetica comparsa quando l’evidente protagonista dello spettacolo si palesava. Come potevo, come avrei mai potuto fingere che non fosse accaduto nulla?
-Come pensate che io possa anche solo lontanamente perdonare…?-, sibilai con odio.
-Ucciderci non cambierà nulla. Continuerai a odiare. Sino alla tua morte.-, rispose Janus.
-E invocherai che essa giunga su rapide ali affinché Yneas ti porti nel suo cielo, o laddove potrai trovare finalmente sollievo.-, concluse Maghera.
Io tacqui. Tacqui perché non volevo parlare. Non volevo sentir tremare la mia voce sapendo che per certi versi era già così. Odiavo loro e tutto ciò che in loro nome perdurava. Odiavo l’Impero di Licanes fondato dalle menzogne dei cortigiani di Janus. Odiavo i Justicarii per aver accettato cotanta viltà. E odiavo me stessa per aver permesso ciò.
Avevo odiato Licanes, la patria che mi aveva resa un demone ed avevo odiato Maktor, l’uomo e il guerriero che aveva con me combattuto sino a vincere quella guerra orribile che fu quella contro la nostra terra natia traditrice.
Avevo odiato come i Cimanei erano divenuti ed avevo odiato ed odiavo ancora il ricordo.
Odio, odio e odio. Non c’era stato altro nella mia vita. I fugaci sprazzi di speme e amore erano stati annientati, affogati dalle tenebre. La verità era che ero viva a metà. Da molto.
-Vi odio…-, gemetti, -Vi odio tutti!-, ringhiai. Una lama! Volevo una lama su cui abbattermi, affinché quell’odio finalmente sollevasse il suo giogo dal mio collo.
Puntai le lame su Maghera e Janus.
-Vi uccido… vi ucciderò.-, promisi. L’amazzone scosse il capo. Lasciò a terra il coltelli.
-E sia, Layla dei Cimanei, ultima della tua stirpe.-, disse avanzando a braccia aperte.
Janus fissava la scena, le labbra si muovevano in muta preghiera, una supplica agli Dèi.
-Uccidimi, se lo ritieni giusto. Ne hai il diritto.-, disse ancora Maghera.
Puntai le lame al petto dell’amazzone. Lei avanzò. La punta di un mio coltello lambiva il petto, esattamente tra i seni. I nostri sguardi s’incrociarono.
Improvvisamente vidi qualcosa. Non disgusto, né paura. Neppure pietà.
Accettazione. Comprensione. Un sentimento così potente che non ricordavo di averlo mai veramente vissuto o percepito, mai. Mai? “Mai?”, mi chiesi. No. Non era vero.
-Io…-, balbettai. Sapevo che avrebbe potuto disarmarmi, ma restava immobile, in attesa.
Janus fissava la scena, me e Maghera, unite in un letale duello di volontà, o così dovevamo apparire. In realtà io sentivo qualcosa. Un ricordo che lento, lentissimo pareva emergere dalle nebbie del tempo. E l’amazzone parlò.
-Ricordi le prime sere? Io te e Janus. Il vino scorreva e così il cibo. Non fu difficile per te smettere di mangiar carne, ricordo.-, raccontò.
Io seguivo quel racconto. Ricordavo. Ero stata lieta di riassaporare il cibo preparato alla maniera di Licanes. Un ennesimo legame col passato. Fiori sulla tomba della mia innocenza perduta, un passato da riassaporare…
-Ricordo…-, mormorai. Ricordavo il vino. Speziato. Un lusso che mi era mancato.
-Ricordi anche ciò che accadde dopo?-, chiese Janus. Io lo guardai. La Lama era bassa.
Non avrebbe attaccato. Non con quella, almeno.
-Io…-, ci provai, mi sforzai, -No.-, ammisi infine. Non riuscivo.
-Davvero?-, chiese Janus. M’innervosì quel suo dubitare.
-No. Non ricordo, va bene?-, chiesi.
-Bevesti. Bevesti quasi un’intera anfora di vino con noi. E parlasti. Di Licanes, di come vi cambiarono. Del tuo inferno personale. Di Eria, che era chi tu fosti prima dell’Elisir.-, raccontò Maghera, -Mi parlasti di tutto ciò. E piangesti. Dicesti che nessun altro avrebbe mai dovuto soffrire ciò che patiste voi Cimanei.-.
Non ricordavo, ma volevo capire dove voleva andare a parare, volevo capire cos’avevo dimenticato. Soprattutto, volevo mettere a tacere un sospetto che si radicava in me..
-Ricordo quella sera. Bevemmo molto. Ricordo che parlammo di te, di Licanes, del Kelreas.-, chiosò Janus, -Concordavamo su molti punti. E infine… Infine parlammo di noi…-. A quelle parole avvertii un senso di disagio. Il mio sospetto s’ingigantì.
-Di noi?-, chiesi. Fui certa di star gracchiando quelle parole.
-Sì. Di noi. Del nostro rapporto.-, chiarì Janus.
-Vivevamo tutti sotto lo stesso tetto. Due donne e un uomo.-, riassunse Maghera.
-Ho visto, e vissuto, situazioni ben più strane.-, ribattei.
-Magari presso i Cimanei. Per noi Licanei, come tu ben sai, era una novità. E anche presso le Amazzoni del Kelreas non era uso.-, mi disse Janus.
-Dunque….-, cercai di portare aria ai polmoni, di prepararmi a ciò che sarebbe potuto arrivare, -Vi parlai di me… di noi… del mio popolo.-. Era logico l’avessi fatto.
-Fu questo a spingermi alla pietà, Layla. Questo più di tutto il resto.-, s’inserì Maghera.
-Pietà…-, mormorai. “Ecco il perché di quegli sguardi. Possibile che sia davvero così? O è un inganno. Un’ennesima manipolazione….”, non sapevo a cosa credere.
Avrei solo voluto urlare, piangere, cedere. Ma non mi era dato.
-Ordunque parlammo quella notte. Molto bene!-, dissi con sollievo evidente.
-Non solo.-, ammise Janus, -Non furono solo parole.-.
Il mio sguardo passò da lui all’amazzone. Ancora e ancora.
-Noi fummo amanti, quella notte.-, chiarì definitivamente Maghera, -Tu fosti con noi. Con me e Janus. E ci amasti entrambi.-.
-Me lo ricorderei! Stai cercando di ingannarmi!-, ringhiai. Spinsi appena la lama. Una goccia di sangue scaturì dalla pelle ambrata dell’Amazzone. Lei non desistette.
-Io non mento.-, rispose, -Lo dovresti sapere.-.
Mi volsi verso Janus. -È così?-, chiesi soltanto.
Parla Janus-Alexander.
La guardai. Ricordavo bene Layla, come dimenticarla? L’avevo amata profondamente, anche dopo aver saputo che mai avrebbe partorito figli miei.
Impossibile arrivare a detestarla, finanche in quel momento.
-Fu così.-, dissi. Il ricordo mi sovvenne mentre narravo. Al presente si sostituì il passato.
Un talamo illuminato dalle candele, nessuna luce artificiale. Sentivo sul viso e sul petto la bocca di Maghera, e quella di Layla. Si spartivano il mio corpo, la mia attenzione.
Poteva un uomo avere una simile felicità? Mi sentivo indegno di tale grazia.
Mentre entravamo in quella camera, regale e magnifica, mi sovvennero le parole di Layla, poco prima. Ebbra di vino, aveva ammesso di aver spesso fatto sesso, ma così raro le era giunto l’amore. Maghera aveva dunque pragmaticamente sostenuto che l’amore romantico non esisteva, presso le Amazzoni del Kelreas ed allora la nera guerriera aveva obiettato sostenendo che tale sentimento fosse palese tra noialtri.
Noialtri. Aveva usato proprio quella parola. Una chiusura, un gruppo definito.
Da cui lei, Layla, si sentiva evidentemente esclusa.
-Abbiamo diviso tutto.-, ricordai di aver detto alle donne, -Non vi sia divisione tra noi.-.
Loro avevano annuito, poi, improvvisamente, Maghera era esplosa in una risata fragorosa che aveva portato anche noi a ridere a nostra volta. Una volta finita l’ilarità, l’amazzone aveva espresso il proprio pensiero, con incredibile chiarezza e una schiettezza tipica della sua gente. La proposta mi avrebbe scioccato, se non l’avessi conosciuta, ma di certo lasciò di stucco Layla. Però, complice forse anche il vino, infine la guerriera aveva accettato.
L’aveva fatto con titubanza che contraddiceva la sua tipica baldanza, ma anche con un entusiasmo atipico, quello di chi si appresta a lasciare l’usuale per l’ignoto.
Per lei doveva essere una novità assoluta. Non così per Maghera: l’amazzone aveva già lasciato trasparire che in Kelreas i rapporti tra donne non erano malvisti né rari.
Nessuna sorpresa dunque che la più intraprendente tra noi fosse proprio Maghera.
Fu l’amazzone a baciarmi per prima, mentre passava un braccio attorno alle spalle di Layla e, staccandosi da me, la osservava, in paziente attesa.
-Se hai ripensamenti, o dubbi, o altro…-, avevo sussurrato all’indirizzo della guerriera.
-No…-, aveva mormorato lei. Il suo viso si era avvicinato di qualche millimetro a quello di Maghera, -Nessun rimpianto. Nessun ripensamento.-.
Le loro labbra si erano sfiorate, esitanti all’inizio. La mano di Layla mi aveva accarezzato il petto. La mia bocca era scivolata lungo il collo della guerriera per poi vezzeggiare la gola dell’amazzone, l’una e poi l’altra. Eravamo vicinissimi. Ci toccavamo da sopra gli abiti.
Forse fu il vino, ma Layla fremette quando Maghera le baciò il collo. Le mie mani andarono ad afferrare e togliere veli, a sciogliere nodi.
Il chitone di Layla cadde. La Cimanea non indossava nulla sotto di esso.
Nuda, era uno spettacolo da mozzare il fiato. Il corpo color pece pareva scolpito nel marmo nero. Maghera alzò una mano percorrendo le cicatrici su quel corpo. Anche Layla alzò le proprie, per spogliare l’amazzone e carezzare me che, nel mentre, mi dedicavo a liberarmi del vestiario che sapevo esser solo d’impaccio.
-Anche tu porti medaglie nella carne.-, aveva sussurrato Layla all’indirizzo di Maghera.
Questa, completamente nuda, aveva afferrato il mio sesso accarezzandolo piano, mentre con l’altra mano pareva esplorare piano il corpo della Cimanea, senza scendere oltre l’ombelico. Improvvisamente, Layla mi guardò. Nudo, sapevo di avere a mia volta numerose cicatrici. Nessuno di noi era illeso, e forse era proprio quello ad accomunarci.
La mano di Layla sfiorò le mie cicatrici, spalle, petto, gambe…
-I ricordi di un passato doloroso.-, mormorò.
-Pegni.-, contraddissi io, -Promesse di un futuro glorioso.-.
-Conferme…-, bisbigliò Maghera, -Di un’esistenza vissuta.-.
Baciai l’amazzone mentre sentivo due mani alternarsi sul mio sesso, sul mio petto e sui miei testicoli. Le mie mani carezzavano seni e natiche. Improvvisamente una mano afferrò il mio polso sinistro guidandomi tra cosce lisce e muscolose, sino a un sesso umido e in lenta apertura, pregustante le delizie dell’amplesso.
Percorsi le grandi labbra di quella vulva ignota mentre da Maghera passavo a baciare Layla. Percepii un movimento. Poi il mio membro fu fagocitato da una bocca la cui avida lingua pareva dotata di vita e intelletto propri.
Sentii sotto le mie dita contrazioni vulvari che portarono a un gemito prolungato.
Il suono morì tra le nostre bocche. Layla si staccò, ansimante.
-Janus…-, mormorò, stravolta. Ritrassi la mano dalle cosce della guerriera. Maghera, inginocchiata tra noi, suggeva il mio membro toccandosi e toccando Layla.
-Sssssiiiiiì!-, mugolò la nera guerriera. L’amazzone sostituì la bocca alla mano.
Layla spinse la testa dell’altra verso la sua intimità, gemendo forte. Io percorsi la schiena della Cimanea sino alle reni e ne baciai i seni. Lei mi afferrò il sesso con rapacità.
-Ahhh… Ahhh!-, i versi di Layla si spezzettarono in un urlo roco quando Maghera la fece venire una seconda volta. L’amazzone si rialzò, il viso bagnato dei succhi dell’altra.
-Mi piace il tuo sapore…-, sussurrò a Layla prima di ficcarle aggressivamente la lingua in bocca. La guerriera rispose con uguale ardore. Maghera s’inclinò appena verso il vuoto, le natiche offerte. Io sorrisi. Accarezzai Layla e mi posizionai.
Penetrai l’amazzone. Non ci volle nulla: era bagnatissima. I gemiti di Maghera morivano nella bocca di Layla, che si spostò a destra e mi afferrò i testicoli.
Maghera urlò il suo piacere mentre veniva. Le contrazioni della sua vulva mi strinsero. Fulminea, Layla mi strinse le gonadi, stringendo con le dita sui dotti testicolari.
-Non osare! Non godrai tanto presto, stanotte. Stanotte sei nostro.-, sibilò con un’ombra di ferocia che mi riportò alla mente i tempi di Licanes.
-Non oserei mai…-, dissi. Contrassi lo sfintere e respirai a fondo, sfilandomi quasi interamente da Maghera. L’amazzone si girò, sfilandosi del tutto.
-Ha ragione.-, disse, -Sono stata egoista. Presso la nostra gente il sesso è visto come un bisogno alla stregua di cibo o riposo. Alcune finiscono col sentirne un tale richiamo da non riuscire più a pensare alla felicità di altri…-.
-Entrambe possiamo dire che Janus ha questo effetto…-, la voce di Layla pareva divertita oltre che eccitata. Io sorrisi, lusingato.
-Ora… per quanto riguarda la spartizione…-, Layla sorrise inginocchiandosi.
Maghera mi abbracciò, il suo pube vicino al mio. La lingua di Layla andò a solleticare il mio sesso, dalle gonadi al membro. Poi sparì. E Maghera gemette.
Layla la stava leccando, con abilità crescente, avevo modo di notare. L’amazzone si lasciava baciare i seni piani, lentamente, scossa da brividi di piacere.
Poi la bocca di Layla tornò al mio sesso, rapida e famelica. Succhiò con lenta, lentissima e diabolica bravura. Si tolse il sesso di bocca con un rumore umido e un ringhio ferale.
-Il letto sarebbe ancora in attesa.-, mormorai io. Layla sorrise, lei e Maghera si scambiarono uno sguardo e un bacio. Poi crollammo sul talamo, avvinghiati mentre la nera guerriera s’inerpicava su di me e ghermiva il mio sesso guidandolo dentro sé, e Maghera sedeva sul mio viso per farsi vezzeggiare e scambiarsi baci con Layla finché non la sentii stringersi nello spasmo di un altro orgasmo e le mani dell’amazzone mi impedirono di eiaculare. La nera guerriera si sfilò, lasciando il mio sesso alla compagna.
Quella notte sarebbe stata lunga e memorabile.
Parla Maghera.
Avrei dovuto sentirmi in pericolo. Avrei dovuto lottare per la mia vita, allontanare quella lama dal mio petto, ma non lo feci. Quando Janus finì di narrare della nostra notte assieme con l’ultimo atto, in cui aveva posseduto la nera guerriera sino a godere dentro di lei poco prima dell’alba, Layla mi fissò. La guardai. Nei suoi occhi c’era confusione, rabbia e altro.
Altro che, capii era un turbamento fondamentale.
-Non fece differenza per me, il tuo essere fertile o sterile. Capisci questo, Layla. Io ti amavo, vi amavo. Entrambe.-, concluse Janus.
-Ma alla fine hai preferito lei!-, eruppe Layla, -La andavi a trovare. Da solo! Non dirmi che mi offristi mai la possibilità di ripetere quel nostro fantastico amplesso di cui mi hai raccontato e di cui solo ora rivivo il ricordo!-.
-Non te lo dirò.-, ammise Janus, -Poiché la verità fu che sarebbe stato problematico. Molti già dubitavano della mia condotta. Dovevo apparire, o Layla. È tutto ciò che posso dire a mia discolpa. Ma se vuoi un nemico da abbattere, è me che devi colpire. Sono sempre stato io. Maghera non ha colpe poiché in Kelreas le cose funzionano diversamente da Licanes e un simile comportamento non sarebbe stato di biasimo. Ma noi… non eravamo il Kelreas.-.
-E neppure Licanes!-, sbraitò Layla. La lama si allontanò dal mio petto, con l’altra puntando al collo di Janus, -Che fantastica ironia, nevvero Janus? Licanes risorta a nuova vita, con tutti i suoi difetti e le sue tare! Un Impero che si estendeva sino a Occidente del tramonto, promettesti a tutti noi. Fosti falso. Il tuo impero affoga nel suo sangue!-.
-Sì. Ma ora possiamo porvi fine. Qui, su questo campo di battaglia. Possiamo mettere fine alla strage. E conoscere pace.-, disse Janus.
Trattenni il fiato. Sapevo che Layla stava seriamente ponderando quelle parole.
-Come?-, chiese infine.
-Mettendo fine all’ostilità, qui e ora. Io pongo il mio piede sulla mia lama, o Layla di Cimanes. Tu farai lo stesso?-, chiese l’uomo. Bloccò a terra la sua lama con il piede.
-Io pongo il mio piede sulla mia lama.-, dissi facendo lo stesso, -Tra noi sia pace.-.
Aristarda Nera, nonostante le ferite, si avvicinò, accanto a lei la Justicar dall’incarnato scuro. L’Imperatrix fissava la scena, con totale stupore.
Infine, dalle fila di Calus, una figura emerse.
Amsio Calus, la corazza smessa, quella che capii essere un’arma ad asta usata come stampella, avanzò.
-Aristarda Nera…-, disse. Tutti si volsero verso di lui, -Fratelli miei. Miei signori…-.
La voce di Calus parve tremare mentre si sforzava di parlare. Era esausto, come tutti su quel campo.
-Basta così. Finisce e finisce ora. Il Trono è lordo di sangue e troppi uomini e donne avidi di potere e incapaci di concepire l’idea di moderatezza si son indaffarati a lordarlo ancora. Io non voglio quel Trono, l’ho capito solo oggi, con la morte di un amico che ha dato la sua vita perché l’Impero non morisse. Variato Antiparo, mia prima guarda, avrebbe voluto la pace.-, disse.
-E così anche noi.-, rispose Aristarda Nera, -Abbiamo versato sangue a sufficienza e sofferto abbastanza per intere vite. Non è forse così?-, chiese agli astanti.
-Basta! Basta!-, urlarono alcuni. Armi furono gettate a terra, dall’una e dall’altra parte.
-Che ne è dell’onore?-, domandò un legionario di Calus.
-Quale onore? I morti son morti onorevolmente ma morti restano. Nessun onore, nessuna gloria vale questo scempio!-, esclamò una Viragea.
-Mateus Shrike avrebbe voluto sicuramente questo.-, mormorò la guerriera al fianco di Aristarda.
Gli occhi si volsero su Layla.
Parla Layla.
Ordunque pareva di rivivere un passato mai morto davvero.
Pace, ancora veniva cercata, offerta. E ora, pace poteva essere. Per quanto, mi chiesi, sarebbe però durata tale pace acquistata a un prezzo tanto caro?
Potevo dire di aver visto quanto futile e fragile fosse la pace: dopo la Caduta di Licanes non avevo avuto che doppi giochi, purghe e stragi, esilio e ricerca. Poi ancora e ancora.
Sarebbe mai finita? Lì, su quel campo, pareva tutto così sbagliato.
Pecore, tutti loro. Barattavano la forza per la pace, così cercavo di convincermi.
Ma non era vero: c’era forza nel loro modo di fare. Ci voleva forza a rifiutare il Trono. La subdola promessa della gloria aveva condotto molti su sentieri oscuri culminanti in dolori e morti.
Un peccato che tale forza fosse giunta tanto tardi e un’ulteriore scempio la verità: finché il Trono fosse rimasto tale, vi sarebbero state altre guerre, altre morti.
-Io, Layla di Cimanes, nata Eria di Licanes…-, alzai le mie lame. Tutti seguivano il mio gesto, rapiti e terrorizzati. Cos’avrei fatto? I Justicarii tenevano le armi al fianco, pronti.
-Accolgo la pace.-, dissi deponendo le armi. Infine, il campo esplose in un’ovazione che si propagò come un’onda dall’Ala Destra a tutti gli schieramenti.
-Questa guerra è finita!-, urlai.
Il mio grido fu ripreso, più volte.
Sapevo bene che da lì non sarebbe stata semplice. A giudicare dallo sguardo di Maghera di Janus-Alexander, anche loro lo sapevano assai bene.
Parla Aristarda Nera.
Entrammo in Roma, io e Calus. Mai nessuno aveva visto una simile eventualità.
Mai due pretendenti si erano accordati in simil modo nella storia di Roma. E mai più sarebbe accaduto.
-La Confederatio Asiae ha inviato i suoi messi. Serena Prima e Nimandeo Feral giungeranno presto, così come Cuthbert e gli altri regnanti scissisi dall’Impero di Roma.-, dissi. Calus annuì. La battaglia l’aveva lasciato zoppo. Io avevo il braccio destro appeso al collo con la fasciatura. Cicatrici che non se ne sarebbero andate mai.
-Li accoglieremo. Abbiamo molto da discutere. Il Senato?-, chiese Calus. Sospirai.
-Diviso, in disaccordo. Molti ancora vogliono potere, troppi si opporranno.-, risposi.
-L’idea non piace.-, mormorò Amsio Calus. Pareva rinsavito sotto molti aspetti. La morte di Variato aveva scosso l’uomo da un sogno a occhi aperti.
-Molti hanno abbandonato l’Impero. Si aspettando persecuzioni e assassinii.-, mormorai.
-Aspetteranno invano invecchiando a guardia di torri e periranno attendendo.-, ribatté Calus, -Non sono questi i nostri usi. Non più.-.
-La Stirpe non accetterà questa scelta.-, dissi infine. Calus si fermò.
-La Stirpe non accetta quasi nulla dagli esterni. Ma avranno modo di comprendere la vastità del loro errore. Su molti di loro già pende un mandato di cattura imperiale. Numerosi altri sono in fuga. Ne abbiamo trovati sei al confine. Tendini lacerati, vivi ma disidratati. Ferite da lama. Certosine. Invalidanti, ma non letali.-, disse l’uomo.
-Layla?-, chiesi consapevole che la risposta era palese.
-Non solo. Un settimo era ferito a un ginocchio. Freccia a punta larga. Un tiro quasi impossibile, ha confessato ai miei uomini quando l’abbiamo preso.-, continuò Calus.
-Maghera dunque. Janus, Maghera e Layla.-, dissi. Li avrei voluti con noi.
-Non abbiamo idea di dove siano. La cosa mi turba…-, disse Amsio Calus, -Ma mi consola in pari misura. È normale, Aristarda?-, chiese.
-Ritengo si possa dire di sì. Janus, Maghera e Layla sono lontani. Lasciamo loro la pace che hanno inseguito per tante vite tanto a lungo, e sforziamoci affinché la nostra gente trovi pace a sua volta..-, mormorai infine.
Hortensia mi venne incontro. Zoppicava a sua volta. La caviglia non era ancora guarita del tutto. Gli Apotecarii l’avrebbero preferita coricata, e anche io, ma la mia protettrice era testarda all’inverosimile. Le sorrisi. Al mio fianco in quel momento non avrei voluto nessun’altra. Forse Ilthea, ma era morta. O Vera, morta anche lei.
Eppure, quelle morti erano stati sacrifici obbligati, mi ripetevo, passi necessari per arrivare lì, a fianco di Calus come alleati e cooperanti, non nemici.
Quanti di quei sacrifici, mi chiedevo, si erano rivelati necessari?
Non trovavo risposta, se non la mia determinazione a far sì che quelle morti non fossero vane. Entrammo nella piazza dell’Aula Senatoria. Tutta Roma taceva. I mezzi erano praticamente nulli in città, e lo stesso valeva per i velivoli. Non avevo mai visto la Capitale tanto placida. “Tutto l’Impero trattiene il fiato. Comprensibile.”, pensai.
Calus rivolse un cenno di saluto a suo figlio, avvolto nella Toga Juniores, avviato alla carriera di Edile. Il giovane annuì a sua volta, in risposta.
-Mio figlio non mi ha mai perdonato certe scelte. Almeno ho avuto modo di chiarire con lui. Penso che vada fiero delle mie ultime decisioni.-, ponderò Calus ad alta voce.
-Non è il solo. So di diversi governatori che hanno deposto le armi quando hanno sentito della tua decisione.-, risposi io cercando di suonare confortante.
-Numerosi altri non l’hanno fatto. L’Epiro ha dichiarato la chiusura delle frontiere. Vogliono evitare ogni contatto con Roma, e così anche la Giudecca.-, disse Calus, sconsolato. Io annuii. Era prevedibile ma non mi ero aspettata un simile numero di scismi.
La Ferencia era scissa in tre zone, quella Pirenaica (sotto il mio comando e fedele), quella centrale, scissasi dall’Impero sotto il suo Governatore, Ascano Varitrulio Primo e una massiccia parte di quella orientale sino a Colonia, invasa dai barbari d’oltreconfine.
Un tempo, i nostri predecessori avrebbero lottato per quelle terre e scacciato i selvaggi, rispedendoli spezzati verso le loro dimore. Ma non oggi.
Non era più quello lo spirito ad animare me e Calus. Volevamo dare inizio a un’Era diversa.
Forse era quello che aveva inteso Janus. Forse il nostro Impero non era e non sarebbe dovuto essere una potenza di conquista, ma una mano tesa in aiuto ai popoli.
Un equilibrio difficile da raggiungere, quasi impossibile.
-Bjorn figlio di Radgar ha richiesto di essere presente al nostro incontro con Serena Prima e con gli altri.-, disse Calus dopo una scorsa ad alcuni fogli.
-Lo permetteremo. Notizie dall’Africa?-, chiesi.
-I Popoli del Deserto chiedono giustizia. Per Fez. Chiedono che la donna chiamata Eria e i comandanti delle legioni che rasero al suolo la città siano consegnati loro.-, s’introdusse Ardisio Lavitriano, un diplomatico al servizio di Calus.
-Ciò che possiamo fare è aiutarli a ricostruire, ma consegnare Eria è impossibile, per il solo fatto che non sappiamo dove sia. Quanto ai comandanti…-, Amsio Calus sospirò, un suono profondo che parve varcare il mare, -Molti di essi sono morti e risponderanno dei loro atti dinnanzi agi Dèi. Riferiremo questo alla loro ambasceria.-.
-Il regno di Menelik Quattrordicesimo accetta l’alleanza che proponiamo e così anche la Sudnea. Una loro ambasceria ci raggiungerà a breve.-, riferì Lina Mogriti, diplomatica di Aristarda e abile linguista.
-Ottimo.-, risposi con un sorriso. In realtà il vero problema era un altro. E si sarebbe palesato di lì a poco.
Parla Amsio Calus.
Mai ho visto in vita mia cotanta agitazione. In Senato numerose voci rumoreggiavano.
Non tutte erano contro Aristarda e me, ma nessuna pareva particolarmente entusiasta della situazione. Le antiche usanze erano state stravolte. Mai due pretendenti al Trono Imperiale si erano trovati dinnanzi al Senato di Roma. Mai avevano avanzato la pretesa che ora veniva discussa in quel consesso. Mai e poi mai era accaduta una simile enormità.
Finanche posati dignitari e delegati quali Licio Muciano e Meto Nivurio noti per la loro calma parevano incapaci di mantenere il contegno più basico ed elementare e sovrano regnava il caos tra interruzioni, insinuazioni urlate e ingiurie.
Non pareva più l’Aula del Senato, somigliava più a una riunione tra capi tribali di qualche regno antecedente all’avvento di Roma o di Licanes.
-Venerabili anziani…!-, cercò di imporsi Aristarda. Non fu ascoltata. In diversi le urlarono improperi. Mi passai la mano sul viso stanco. I due giorni successivi la battaglia avevano visto le nostre forze seppellire i morti e curare i feriti, i barbari venire riaccompagnati alle frontiere con un numero sorprendentemente basso di incidenti e i Justicarii spargere la notizia in tutto l’Impero su nostra richiesta.
La marcia di ritorno verso l’Italica era stata lenta e solenne, più una processione funebre che un trionfo ed era stata accolta da voci di dissenso. Come potevano i Romanei abbandonare le fiere antiche usanze, si erano chiesti molti.
La risposta, mia e di Aristarda era semplice: le antiche usanze ci avrebbero distrutto, se le avessimo onorate sino in fondo. Chiunque avesse vinto avrebbe ereditato un’Impero in disfacimento, province in rivolta contro il potere centrale… In una parola, la catastrofe.
C’era un solo modo per impedire che altro sangue e altra morte lordassero il Trono, ed era quello di toglierlo di mezzo. Sospirai. Non avrebbero ascoltato. Non l’avrebbero fatto, a meno che non li avessimo costretti. Scambiai uno sguardo con Hortensia.
La Justicar alzò la pistola, un’arma a proiettili con un tamburo contenente le pallottole e sparò al soffitto tre assordanti colpi. Il silenzio calò sulla sala.
-Ora parlerò, nobili Senatori. Parlerò come Aristarda Nera, Governatrice dell’Hiberia.-, s’impose Aristarda, -Il nostro Impero sta affogando nel sangue. Le antiche usanze ci imporrebbero di schiacciare barbari e ribelli, dissidenti e rivali. Mi imporrebbero di sedermi sul Trono che fu di mio padre, un trono su cui, voi ricorderete, non mi sedetti.-.
-L’Impero non sopravvivrà ad un’altra guerra civile. Già mentre parliamo i barbari hanno invaso la ferencia, sollevazioni avvengono nell’Epiro e così anche in Achea.-.
-E allora schiacceremo i ribelli!-, urlò un senatore dal viso rubicondo, -A partire da Amsio Calus, che noto essere qui in spregio alle convenzioni!-.
-Così dovrebbe essere, nevvero Divus?-, chiese Aristarda, pungente, -Una gloriosa nuova purga dei nemici di Licanes nel nome del passato! Ma sappiamo bene la verità. L’Impero non vedrà la fine di una simile ecatombe! Voi e io non la vedremo. Io non darò inizio a una simile mattanza.-, disse.
-Invero, non è un problema. La porpora imperiale ti è conferita dal Senato e il Senato te la può togliere, Aristarda Nera.-, ribatté un secondo oratore.
-Potreste, certo. E potreste anche convincere i miei soldati? Potreste farlo? Potreste convincere le legioni di Calus a obbedire?-, chiese la donna, senza alcun timore.
Avanzò sino a un punto della sala. Uno scranno non occupato. Quello di Socrax.
-Se chiunque di voi ha tanta fiducia nella vostra linea d’azione io vi sfido, nobili signori, a sferrare il primo colpo contro il barbaro, il ribelle e il nemico!-, esclamò posando uno stiletto corto sullo scranno, -Vi sfido a uccidere me e Calus. A uccidere tutti noi e gli ambasciatori dei popoli che stanno giungendo a Roma. Vi sfido a rinnegare ciò che siamo prima di tutto, ossia uomini di ragione. Se non lo siamo, se non lo siete, allora è vostro pieno diritto abbattermi, ma sappiate che con me cadrà tutto ciò che volete difendere.-.
Silenzio. Nessuno si mosse. Aristarda annuì, con calma.
-Vedo che anche voi, come me, siete nauseati dall’idea di spargere altro sangue. Ma altro sangue sparso sarà proprio ciò che ci aspetta se rimarremo abbarbicati alle antiche usanze.-. I mormorii in sala si fecero più concitati e rumorosi.
-Cosa dicono le Vestali? La Sacra Fiamma della Dea è forse tornata a splendere?-, domandò una senatrice. La rappresentante delle Vestali scosse il capo.
-No. La fiamma è spenta, come è rimasta sino ad ora. Gli Dèi ci hanno davvero abbandonati.-, rispose con voce greve.
-Gli Dèi ci hanno abbandonati.-, disse un Senatore, -Come possiamo aspettarci che tornino se prostituiamo l’Impero?-, chiese. Alcuni gli fecero eco.
-Pensate davvero che approverebbero una condotta tanto simile ai nostri antenati?-, chiesi.
La mia voce generò borbottii stupiti. Nessuno si sarebbe aspettato un mio intervento.
-Amsio Calus, il Senato non ti revocherà il diritto alla parola, poiché non è questo il nostro modo, ma una simile frase è quantomeno blasfema. I nostri avi fondarono l’Impero con gesta di onore e valore e non mercanteggiando o piegandosi.-, disse un anziano senatore.
-Eppure non mancarono scambi e pacifici negoziati. Ma questo è stato prima. Prima della Guerra Civile, prima di Septimo Nero.-, il tono di Aristarda non tradì emozione alcuna.
-Forse gli Dèi vogliono questo. Vogliono la fine della violenza, del massacro.-.
-E se gli Dèi non lo vogliono, onorevoli anziani…-, mi ersi accanto ad Aristarda, -Allora dovremmo essere noi a volerlo.-. Le mie parole suscitarono indignazione.
-E attirarci altra ira? Trasgrediremmo ulteriormente al Mandato del Cielo!-, esclamò qualcuno. Io scossi il capo. Alzai una mano con il palmo al cielo.
-Allora io chiamo il cielo a dirmi che sbaglio! Chiamo i nostri avi a contestarmi. E chiamo gli Dèi ad abbattermi qui dove sono.-, dissi.
Silenzio. Sia dagli uomini che dagli Dèi. Annuii.
-Ancora vivo. Se gli Dèi mi volessero morto, mi avrebbero ucciso. È tempo che gli uomini forgino il proprio destino senza venire manipolati da divinità distanti o assenti.-, dissi.
-Follia! È follia!-, urlò qualcuno. Uno schiocco improvviso tacitò l’assemblea.
-In tempi tanto oscuri, forse è la follia che ci serve.-, disse la rappresentante delle Vestali.
-Come puoi dire questo?-, chiese qualcuno. L’anziana donna si alzò dalla propria sedia.
-Il fuoco non è tornato ad ardere. Gli Dèi non hanno favorito nessuno durante questo scontro finale. È ben palese che allora, forse sia inutile cercare di forzar loro la mano.-, disse con voce chiara a dispetto del gracile fisico ascetico.
-Dobbiamo riconoscere che forse sbagliamo. E dobbiamo almeno tentare di correggere l’errore.-, disse la donna, -Prima che l’errore ci cancelli.-.
-E che ne è del nostro destino?-, osò chiedere qualcuno. Altri fecero eco.
-Il destino non è scritto nella pietra.-, rispose la donna, -A volte il fato va forgiato, non seguito ciecamente. Noi possiamo creare qualcosa. Qualcosa di migliore. Dare vita a questa cosa è un anelito. Voi vedete il nostro mondo. Quelli prima di noi l’hanno devastato, ma noi siamo ancora vivi. E abbiamo il dovere verso chi verrà dopo di essere migliori di così. Non possiamo limitarci ad assecondare i nostri più bassi e peggiori istinti. Abbiamo il diritto e il dovere di essere migliori di questo. Creare qualcosa che ci sopravviva è cosa buona, creare qualcosa che possa essere bene anche per altri è anche meglio. Creare armonia, pace laddove non c’è. Fermare la strage…-, la donna fronteggiò il Senato, -Se gli Dèi non vogliono questo, allora sarò lieta di rinnegare i miei voti qui e ora. Ma io ritengo che gli Dèi non siano così. Penso che siano intrinsecamente buoni. E penso che Aristarda Nera e Amsio Calus abbiano il pieno supporto delle Vestali e del nostro culto.-.
Il silenzio attonito s’infranse quando anche altri parlarono a favore.
-Ma cosa credete di fare? Cambiereste il mondo?-, chiese sprezzante un senatore.
-Forse no, è vero.-, ammisi, -Ma possiamo sempre provare. Non possiamo salvare tutti, ma è nostro dovere almeno provare. E se agli Dèi non piacerà ciò che faremo, tant’è!-.
-Esiste la tesi secondo cui essi non si curano di noi o delle nostre azioni. Io non temo di incorrere nella loro ira, perché so di meritarla. Sono stato molte cose, ma se è l’ultima ora quella che si avvicina, voglio che mi trovi vero e retto, come avrei dovuto essere da tempo.-, continuai, -Un uomo non è fatto di pietra. Possiamo scegliere e abbiamo il dovere di scegliere con coscienza. La mia era addormentata e troppo sangue è stato sparso dal sonno della ragione. Ma ora, questa ipocrisia finisce. Per me non vi sarà che un Mandato. Quello che ho nei confronti del popolo di queste terre. E vi esorto a domandarvi quale sia il vostro.-, dissi, lo sguardo piantato in viso al senatore che aveva parlato.
L’uomo aprì la bocca, ma altri incominciarono a inneggiare. Ad Aristarda, a me, a noi.
“Non sono un eroe. Tu, Variato, lo eri.”, pensai, “Ma posso solo renderti grazie e impegnarmi a fare ciò che tu facesti. Proteggere e servire. Questa è la mia missione.”.
Giunsero dunque i dignitari dai regni limitrofi. Capi barbari, governatori secessionisti, sovrani e regnanti. Tutti giungevano a Roma, spinti dal messaggio dei Justicarii.
Tra loro, riconobbi una giovane.
-Amsio Calus. Ci rivediamo.-, le vesti erano di pelle di leopardus, gli ornamenti tribali, ma il corpo era lo stesso. Sorrisi improvvisamente.
-Efia.-, mormorai salutando. Lei sorrise a sua volta. Notai il ventre della giovane nera.
Era incinta. Un figlio mio? Me lo chiesi, non osai domandare ma lei parve intuire ciò che mi turbava, poiché mi fece cenno di raggiungerla.
-Il figlio è tuo, senz’altro. Quando ho saputo di essere incinta ho dubitato se tenerlo o meno, ma poi… poi mi è giunta voce di un pazzo. Un folle che ha gettato l’occasione di divenire Imperator per inseguire un diverso sogno. Un progetto folle, davvero. Qualcosa che mai, mai nella mia vita, avevo sentito. E sapere che quel pazzo fossi tu, Calus…-, il sorriso di Efia fu come una luce nelle tenebre eterne, -È sorprendente.-.
-Non vado fiero di molte cose. Sono stato un crapulone, un codardo e un vile… Ho permesso a uomini e donne senza cuore di fare il peggio in mio nome. Capirei se fossi odiato. Soprattutto da te. Ti ho usata.-, dissi, gli occhi bassi.
-No. Mi hai voluta, è diverso. Eri l’Imperator e io una cortigiana. Cos’altro poteva accadere tra noi?-, corresse Efia, -Quando Ausper ci fece visita, nelle nostre stanze, ricordi? Gli feci una domanda.-, disse. Io la fissai, in attesa.
-Chiesi se era possibile che un demone acquisisse un’anima. Lui mi disse che poteva accadere solo al prezzo di enormi, immani sofferenze.-, disse lei.
Io annuii. Ero io, il demone. E ora che avevo un’anima, mi sentivo come se l’interezza degli avvenimenti mi pesasse addosso come una cappa di piombo.
-Non sono sicuro di essere degno di ciò, Efia.-, mormorai.
-Io lo sono. Non sei più ciò che eri prima. Hai fatto cose terribili, ma hai capito. La redenzione è un percorso doloroso, ma tu sei riuscito a percorrerlo.-, disse lei. Mi accarezzò appena la mano, -E sappi che presso la mia gente sarai sempre accolto.-.
Svanì tra la folla quando arrivarono altri dignitari. Serena Prima e Nimandeo Feral parlavano con Aristarda. Un incontro intenso. Lo capii. Meglio per me restare nell’ombra.
Sapevo di non essere gradito. Una mano mi sfiorò una spalla. Mi voltai.
Ausper mi fissava, gli occhi ciechi che non vedevano, il viso disteso, forse in un sorriso.
-E così, il tuo ruolo è compiuto. L’hai interpretato magnificamente.-, mormorò il veggente.
-Sapevi tutto, vero? Tutto quanto.-, dissi. Ausper rise, rise di cuore.
-Sapevo molto poco. Ma sapevo quanto basta, e ora… persino gli Dèi assisteranno, interessati.-, disse. La sua mano sulla spalla non si era spostata.
-Addio, Amsio Calus. Vivi tutti i giorni che verranno memore di ciò che ora sei. Non sprecare quest’occasione di rinascita. Gli Dèi potranno non essere in grado di fare nulla contro l’umana stupidità, ma altri uomini, meno indulgenti, quelli potrebbero agire.-.
Detto ciò lo vidi andarsene. Non lo seguii: conoscevo Ausper. Se non voleva essere trovato, neppure io sarei riuscito a scovarlo.
La successiva ora, e quelle dopo di quello e altri giorni, fecero la storia.
L’Impero di Roma era finito, per non risorgere, ma il retaggio di Licanes no.
Furono stipulati patti. Trattati tra regni e regnanti.
Aristarda Nera distrusse personalmente il Trono di Roma prima di andare in esilio volontario, seguita da Hortensia.
Di Janus, Maghera e Layla nessuna traccia.
Forse le voci erano vere, ed erravano nel mondo per continuare a impedire che il male dilagasse. O forse, e questa è una mia personale convinzione, forse sono morti.
In ambo i casi, gli auguro di trovare pace.
l’Impero di Roma si dissolse nella Foederatio Licanea in cui confluì la Confederatio Asiae di Feral, il Kelreas e ciò che restava dell’Impero. Numerosi regni ne facevano parte. Un’alleanza politica di dimensioni notevoli, che travalicava i confini dell’Impero che fu.
Un retaggio che si estendeva sino a Occidente del Tramonto. Finalmente la profezia di Janus si era avverata. La tecnologia di Licanes e le sue innovazioni vennero impartite a tutti i popoli della Foederatio. Molte altre invenzioni furono diffuse e presto tornò il benessere in quelle lande ove la presenza di Licanes mai era giunta.
La Foederatio non aveva un vero governo: i governatori di quelle che un tempo erano le province dell’Impero. L’aumento di cibo e benessere generale scongiurò esodi e migrazioni dannose. Numerose lande inabitabili furono fertilizzate e aiutate a riprendersi. A nessun regno della Foederatio furono imposti l’ideale di Licanes, la filosofia o le religioni.
Ed io, Amsio Calus, potei ritirarmi in Sudnea. Efia, regina di quella terra mi accolse come ospite d’onore e amante. Nostro figlio, Adu Calus, cresce forte ed erediterà il regno di sua madre. Non so se gli Dèi, quali che siano, siano lieti o meno del nostro agire.
Dal canto mio, io lo sono.
Qui termina la storia della dissoluzione dell’Impero di Roma, erede di Licanes, e la sua trasformazione in Foederatio Licanea.
Mamma mia ruben, mamma mia... Ti prego, scrivimi a gioiliad1985[at]gmail.com , mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze…
ciao ruben, mi puoi scrivere a gioiliad1985[at]gmail.com ? mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze...
Davvero incredibilmente eccitante, avrei qualche domanda da farvi..se vi andasse mi trovate a questa email grossgiulio@yahoo.com
certoo, contattami qui Asiadu01er@gmail.com
le tue storie mi eccitano tantissimo ma avrei una curiosità che vorrei chiederti in privato: è possibile scriverti via mail?