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Oltre il vetro buio della cucina le luci del quartiere scintillano come costellazioni. Si accendono ogni sera, via via più numerose, alle quali si aggiunge quella della nostra piccola cucina.
Sfaccendo accanto al lavello per preparare la cena mentre mio figlio siede a tavolino in attesa. Finalmente parliamo, noi due: anche se rimane una certa distanza, e lui ritiene di non potermi dire tutto, e forse nemmeno io mi sento di parlare con lui del tutto liberamente, nondimeno qualche breccia nel muro di silenzio e di reticenza si è aperta. Questa sera mi sta dicendo delle sue vicissitudini con gli amici, gli aspetti semi-delinquenziali della sua vita di quartiere, mentre io ho potuto esprimere con una certa serenità le mie preoccupazioni, le mie perplessità in merito.
Il bello è che lui mi dà ragione. Non è soddisfatto. Sente, pur giovane com’è, di dibattersi nel vuoto, sente di non avere una direzione. E io, mi chiedo, ce l’ho una direzione? Che farei, se non avessi mio figlio? Glielo dico tranquillamente, e lui sorride. Bella la nostra vita passata ad ottenere il necessario per la vita senza un motivo vero che la giustifichi!
Mangiamo. “Resti a casa stasera?”
“Non so, forse esco un poco” risponde lui.

Dopo un’ora sono sola di fronte alla luce azzurrognola del televisore. Ora mio figlio è là fuori, tra quelle costellazioni di luci, sotto la luce fredda di qualche lampione che si riverbera sul cemento, assieme ai suoi amici disperati e fanfaroni. Come è possibile avere ragione di questo quartiere, penso poco dopo mentre mi corico, mentre quelle stesse luci filtrano sul soffitto della stanza da letto. Ho voglia di dormire. Mi abbandono ad un silenzio venato dal rombo lontano di motori, da qualche grido che si perde chissà dove. A poco a poco, la testa sul cuscino, una confusione di rumori sale in me, sono le voci e i discorsi che la mia mente ha registrato durante la giornata, e che si fa sempre più chiaro e reale a mano a mano che sprofondo in me stessa, in un oscurità dove mi abbaglia la luce di un sole che ho visto parecchie ore prima, tra la gente, per la strada.
“Mamma.” Una voce si distingue dalle altre.
“Mamma.” La voce è reale, proviene dall’oscurità della stanza, mi alita vicino. E’ la voce di mio figlio.
Mi accorgo di essermi addormentata, di non averlo sentito rincasare, come al solito invece succede. E’ entrato nella mia stanza senza che io lo sentissi. Che ora era?
“È mezzanotte” mi sussurra, quasi come se mi avesse letto nel pensiero. L’ora delle streghe, mi dico, o di Cenerentola.
“Che vuoi?” gli chiedo in un sospiro ancora addormentato. Per tutta risposta sento il suo peso affondare nel materasso accanto a me. Appoggia la testa sulla mia spalla. Sento un vago odore di birra.
“Hai bevuto” sussurro, non so se è una domanda o una constatazione.
“Non solo.” risponde lui. Mi sveglio del tutto. Nel buio della stanza mi giro dalla sua parte, interrogativa.
Ora il mio viso è di fronte al suo, anche se distinguo solo la fronte al tenue riverbero delle luci notturne, e il resto è una pozza di oscurità. Sento il suo alito sul volto: “poca roba, una pasticca”.
” Non voglio” rispondo io, altrettanto piano.
Un lieve spostamento della testa, la sua bocca è vicino alla mia, la cerca, la incontra. Non posso, non voglio, non riesco a sottrarmi. Le sue labbra aderiscono alle mie. Contemporaneamente divento consapevole del mio corpo, della mia posizione a tre quarti supina sul materasso, delle mie gambe un poco rannicchiate, dei miei piedi confusi nelle lenzuola.
Le sue mani timorosamente scivolano sotto le coperte, mi sfiorano. Io lo abbraccio attorno ai fianchi. Lo stringo. Allora anche lui mi stringe, mi stringe a sé. Sfioro col mio viso la sua maglietta. Il suo corpo è caldo, magro, aspro di un odore che solo i ragazzi hanno così. Così selvaggio. Sento che armeggia con le gambe e qualcosa cade sul pavimento. Si è tolto le scarpe da ginnastica. Adesso può sdraiarsi accanto a me per intero. La sua testa affonda tra la mia spalla e il collo. Mentre sento il suo respiro sulla mia pelle, sono invasa da una tenerezza lancinante. La sua solitudine, di una intensità devastante, la sua disperazione, sono anche mie, e la richiesta di aiuto che solo a me può fare. I sentimenti lasciano spazio ad altre sensazioni. Sotto i blue jeans che ancora indossa il rigonfiamento si è già formato. Ed io, mi chiedo?
“Io ti salverò a qualunque costo, figlio mio” urlo dentro di me, “a costo di perderti, a costo di farti del male. A costo di superare le barriere dell’ipocrisia.”
Sotto le linee di luce del soffitto riflesse della strada, il letto è immerso nell’oscurità. In quell’oscurità due le sagome oscure si stringono. Gli accarezzo dolcemente la ruvida patta, gli slaccio i bottoni dei pantaloni, lui se li sfila. Lo lascio entrare sotto le coperte, si stringe e aderisce a me come una creatura marina. O forse sono io ad essere diventata una medusa. Mi bacia ancora sul collo, sulle spalle. Il suo desiderio si è fatto da tenero via via più impetuoso, bramoso, avido. So che mi desidera, che non cerca solo protezione. Di nuovo la sua testa si ficca sul mio seno. Mi abbassa le spalline della sottoveste. Glielo lascio fare. Mi snuda il seno, ora esposto alla sua bocca. Il passaggio fuggevole delle sue labbra sui miei capezzoli suscita sensazioni che si dilatano nel mio corpo, vi riecheggiano, corrono dappertutto fino a scaldare il ventre, che si bagna. Le sue mani diventano più rapaci, come l’altra volta scendono più in basso, mi accarezzano i fianchi, quindi le cosce. Cercano di insinuarsi nella mia carne. So che devo prendere una decisione. Porto le mani all’elastico delle sue mutande e lo aiuto a sfilarsele, poi scosto le lenzuola e mi alzo a sedere. Nell’oscurità passo una mano tra le sue gambe in cerca del pene. Ristò un momento ad osservare la sagoma indistinta del suo corpo ansimante, cado sul pube per baciarglielo. Odore misto di urina, desiderio. Aspro, bruciante. Glielo prendo in bocca, facendolo entrare fino a che posso, gli accarezzo i testicoli.
Pensai: “Non prenderai tua madre, questa sera, piccolo Edipo.” E questo pensiero mi sorse nella mente accompagnato da un’ironia antica, maliziosa, giunta da chissà da quali sconosciute profondità di me stessa.
Sentii le sue cosce irrigidirsi mentre una bolla liquida mi esplose dentro la bocca e un gemito sommesso e straziato attraversava il suo corpo.
Mi discostai un poco da lui.
Dal buio: “Non mandare giù, mamma”. Quasi una supplica. Passò una breve pausa, prima che potessi rispondere. Una pausa larga come l’oceano fra l’Europa e l’America.
“Perché?” pronunciai infine.
Dando per sottinteso che lo avevo appena fatto.

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