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Erotici Racconti

Occhi stanchi

By 23 Agosto 2018Febbraio 11th, 2023No Comments

Sul conto inconfutabile e sul pregio indiscusso della gentile e leggiadra Clelia sapevo pressappoco tutto. Lei essendo fioca, smunta e sommessa durante il tempo in cui la si osservava, però al tempo stesso disponibile, elastica e sciolta io la squadravo assiduamente ogni mattina, mentre s’incanalava al lavoro a piedi attraverso il sottopasso della ferrovia, impugnando l’indistinta borsa stipata di carteggi, infagottata nel paltò di due taglie più ampio, che le copriva con grossolanità e con sgarbatezza un corpo curvilineo e levigato, così come le sue labbra pienotte e armoniose. All’interno del bar, rintanato fra le pagine del rotocalco che sfogliavo, m’incantavo di frequente nel fissare il suo lineamento irriguardoso e a tratti vezzoso, mentre addentava l’abituale cornetto, ambendo lo zucchero che ogni mattina, come un bacio angelico e clandestino, si posava costantemente sullo stesso lato del viso. Padroneggiavo altresì a mente ogni minuzia della sua logora e vetusta autovettura arrugginita dal tempo, che lasciata in sosta per settimane nello stesso posto, ripartiva solamente a seguito d’incalcolabili manovre d’accensione, tutte peraltro abbellite da linguaggi e vocaboli sboccati e scurrili per nulla femminili, accompagnata in conclusione dalla scontata e sicura grattata finale del cambio in prima marcia.

Io la vedevo quando rientrava a casa stanca la sera, cercando alleviamento e consolazione tra un latte macchiato e una sigaretta sul poggiolo del retro, oppure seduta davanti al computer con le cuffie in testa affaccendata a scrivere per ore, nessuno lo sa, che cosa. Io l’accompagnavo con lo sguardo mentre andava a letto, infilandosi assonnata e da sola sotto lenzuola di cotone azzurro con indosso, perfino d’inverno, unicamente un paio di boxer, chissà perché. Quando potevo, la squadravo assopita avvinghiata al guanciale, in verità lo stesso sul quale io una volta, di nascosto, ero riuscito a posare un bacio immaginando che fosse lei. Talvolta, seduto sulla mia poltrona di pelle, sformavo dissipando il concetto del tempo cullandola con lo sguardo, finché i baci dell’albeggiare non la destavano per me, manifestamente amorevole ed esplicitamente attaccabile nel risveglio innocente, tempestiva a ricoprire i panni di un’abile guerriera disposta a tutto. 

Nessuno, invero, la conosceva né aveva dimestichezza meglio di me, questo ero certo, malgrado ciò mi mancava la sua parola, il suo sguardo perso nel mio, la carezzevole e vellutata presenza della sua pelle sotto le dita. La conoscevo, ciò nonostante non le avevo mai riferito niente, non l’avevo giammai frequentata né l’avevo mai toccata, in realtà astratta, celestiale e inabbordabile, faceva curiosamente e in modo assai bizzarro parte di me pur non appartenendomi. Io non potevo vivere senza di lei, le giornate lavorative quando non potevo o non riuscivo a vederla, s’allungavano riempiendomi inverosimilmente l’anima d’un malumore e d’una mestizia che mi sopraffaceva il cuore in moltissime stilettate dolenti e infelici, tra lacrime che spesso versavo involontariamente, cercandola fra le ombre del suo appartamento vuoto. Amore? Sì, certo, per me era amore.

E’ incongruo, inspiegabile e martellante come il suo strampalato amore mi facesse spasimare per la sua immagine, la sua presenza oltre il riflesso dei vetri, l’unica barriera reale all’abbraccio giornaliero del mio cuore, ma pur sempre di chiodo e fisso e d’ossessione si trattava. Fissazione della sua presenza, mania dei suoi battiti stretti contro il mio torace nelle giornate di pioggia quando la guardavo, sola, osservare un punto fisso nel cielo nuvoloso chiedendo qualcosa a se stessa, qualcosa che non aveva risposte, così come le domande che mi ponevo io. Non sapevo se l’avrei mai conosciuta, passando notti insonni interrogandomi sui miei desideri impraticabili e utopistici, perché a volte mi perdevo nella sconfinata apprensione che provavo, solamente all’idea di compiere un passo falso che l’avrebbe immancabilmente allontanata per sempre da me.

La cognizione della mia pusillanimità e la non tanto remota possibilità, che un giorno decidesse di sposarsi o di traslocare, mi facevano vaneggiare alla ricerca d’una rapida soluzione, anche perché il sentimento che provavo, seppur arcano, astruso e incomprensibile, m’aveva fatto capire a fondo certe sfumature. Era lei l’unica donna che avrei mai amato, l’irripetibile che avevo prediletto da sempre, il mio adorato destino, la mia mitizzata condanna di vita, mentre in modo disordinato e peregrino vagabondavo fra la folla fissando costantemente facce estranee in cerca di lei. Lei, l’originale finalmente trovata, ciò nondimeno mai avvicinata, perché io ero il maschio che la guardava, furfante, malandrino e predone d’immagini braccate e in seguito pedinate dal mio cosmo lontano, forse il mondo dei sogni, lei non lo sapeva. Trovare il suo numero di casa privato non fu semplice, e se non avessi avuto amicizie nel settore probabilmente non l’avrei mai rintracciato. Per lunghi mesi accarezzai inerte quel foglietto di carta scritto frettolosamente a mano, mentre l’osservavo ignara del mio tormento, vivere la sua vita dietro la finestra dei miei occhi. Lieve ma persistente, la sua presenza regnava dappertutto, in casa, al lavoro, in macchina, in qualsiasi luogo tenevo sparpagliati come dei piccoli frammenti della sua essenza, qualcosa che le era appartenuto, qualcosa che lei aveva comprato, manipolato, mangiato, scarabocchiato o usato, che poi incomprensibilmente aveva scaraventato via. 

Se avessi potuto, avrei vissuto dell’aria che espirava carica del suo sapore a me ignoto, bevendo le lacrime che sovente vedevo apparire in modo fulmineo in quegli occhi, riflesso indiscusso d’un animo fragile rinchiuso nel corpo d’una abile e valente guerriera; una donna persa che si dibatteva nella disperazione di qualcosa che la faceva soffrire, ma che io, seppur angosciandomi e penando con lei e per lei, non ero mai riuscito a scoprire. Qualcosa che appariva al calar della notte e del buio, quando le ombre dei pensieri più foschi e lugubri la raggiungevano insonne, fra lenzuola aggrovigliate e perse ai lati del letto, mentre scalciante, addentava il capezzale cercando di soffocare gli urli di dolore, che la scuotevano in numerosi singhiozzi incontrollabili. Così, una notte, la chiamai, probabilmente perché veramente lo desideravo, giacché desideravo udire finalmente la sua voce anche soltanto per un breve pronto sussurrato nella cornetta, o forse più semplicemente perché l’amavo e non potevo più assistere inerme, ma a tratti agguerrito, a tutta quella sconvolgente e oscura disperazione senza fare qualcosa di concreto. Con le dita tremanti composi quel numero, implorando clemenza da me stesso, mentre meschinamente speravo che la linea fosse occupata, ma non lo era, perché fu l’inizio, o la fine. Non so. 

Adesso che ci ripenso, giacché è passato così tanto tempo, poiché nemmeno ricordo più di cosa esattamente discorremmo in quella prima per me, credevo, indimenticabile telefonata, so dirlo con certezza. Forse non parlammo neppure, può darsi in silenzio, furono solamente le nostre anime a eseguirlo decidendo per noi, perché tre settimane più tardi varcai per la prima volta la soglia di casa sua. Sospingendo la porta socchiusa mi fermai un istante in attesa che il mio cuore delirante si placasse. Per un attimo provai l’assurdo e contradittorio desiderio di voltarmi e di fuggire irrazionalmente via, lontano da quella donna che m’attendeva nella penombra d’una camera da letto che avevo visto numerosissime volte, ma in cui non ero mai entrato e che mi era sconosciuta come lei. Dopo, inaspettatamente, giunse ad accarezzarmi l’anima, il vuoto abissale che avrei provato, andandomene perdendo quell’unica possibilità che mi era stata concessa. L’immagine fredda e monotona dei miei sogni futuri, cristallizzati in ossessioni vivide e assilli irraggiungibili che m’avrebbero tormentato per il resto della vita, mi fece ritrovare il coraggio.

Io avevo bisogno di lei, per esistere, per sentirmi vivo, per essere. Entrai a rilento cercando di non fare rumore, sdraiata sul fianco Clelia fissava il muro volgendomi la schiena, sennonché pur udendomi entrare non si voltò, rimanendo lì, ferma e statica come un automa, nell’attesa che la raggiungessi nel giaciglio temperato, tra penombre rossastre che disegnavano strane forme sulla parete. Togliendomi la camicia mi sdraiai accanto a lei respirando finalmente il suo effluvio gradevole e fruttato, dopo le cinsi il corpo abbracciandola stretta contro il mio torace. Scorrendo a occhi chiusi le mie labbra sulla sua nuca delicata l’assaporai, mentre i suoi primi sospiri s’accompagnarono alla carezza della sua mano lieve, che si posò sulla mia, guidandola in perlustrazione lungo il corpo. 

Sospingendo i fianchi contro la mia erezione s’incurvò sfiorandosi con le mie dita la punta d’un seno, grattandole di proposito la pelle accapponata con il mento pungente l’accontentai. Scivolando dal lobo alle scapole la ricoprii di baci lievi, mentre la mia mano oramai autonoma aveva raggiunto il suo punto più sensibile. Impregnata ed accalorata Clelia socchiuse le gambe per permettermi di penetrare con un dito all’interno, mentre i fianchi cominciarono a muoversi di vita propria contro il mio desiderio crescente. Sfiorandole il delizioso clitoride in ritmiche carezze la condussi sulla soglia del piacere totale, che Clelia voltandosi decise di vivere nella mia bocca, mentre le nostre lingue intrecciate si davano il primo bacio, intanto che iniziava a slacciarmi le braghe.

La sua mano s’introdusse in cerca di me, della parte di me da guidare fra labbra nascoste e bagnate, con il cazzo duro in un’altalena di tentativi spontaneamente apparenti che mi fecero assaporare tutta la morbidezza della sua voglia interna, in contrapposizione con la durezza della sua piccola erezione inappagata. Scivolando nel suo corpo, sentii le cosce che si chiudevano intorno ai miei fianchi, mentre con le mani le accarezzavo la nuca, perdendomi nel riflesso del suo sguardo sognante, fra le sue labbra socchiuse e sussurranti che cominciai a respirare avidamente. Gridando nella mia bocca Clelia ebbe un orgasmo quasi immediato, perché stringendomi nella morsa umida delle sue profondità s’arcuò daccapo muovendosi come fiume in piena, travolgendo con l’eco del suo piacere incontrollato tutti i miei pensieri, tranne la coscienza d’essere all’interno del suo corpo madido e caldo, quel corpo che tanto avevo ambito e aspettato, che ora godeva di me in un ritmo inesplorato, scombinante e screanzato, in quel preciso momento capii. 

La percezione della sua intrinseca unicità m’avrebbe reso schiavo dell’emozione che provavo, della sua epidermide accalorata, della sua chioma infradiciata che scivolava sul mio essere, delle sue frasi impudiche e triviali borbottate fra i miei pensieri contraddittori e illogici mentre possedendola oramai in maniera brutale e rabbiosa, la riempivo del mio denso piacere convulso al punto da farmi male. Fu più tardi, quando oramai si era intorpidita fra le mie braccia, che decisi d’andarmene per permetterle di rilassarsi in serenità, riflettendo al risveglio su ciò che era successo e perché. Posandole un bacio sulla fronte le sussurrai ti amo, lei di rimando in modo intenso e inatteso in totale silenzio mi rispose che m’aveva sempre amato vedendomi in quel bar. Adesso, fissando quegli occhi, dove non alloggiava né esisteva più ombra di tristezza, ma solamente di felicità capii che era vero. 

Dopo tutto quello che avvenne, non me ne andai più. Anche adesso, che l’esistenza è trascorsa, io riconosco la mia donna solamente per quella fiammella di gioia che distinguo, identifico e ravviso nei suoi occhi stanchi.

Al presente, tutt’ora che la vita immancabilmente tenterà di dividerci, azzarderà di disgiungerci con la sua fine, sono convinto che non accadrà, perché credo, ho fede e ritengo, che anche in quel momento ce ne andremo via insieme mano nella mano. 

Senza dubbio come sempre, per sempre.

{Idraulico anno 1999}  

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