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Erotici Racconti

Passato imperscrutabile

By 23 Settembre 2018Febbraio 11th, 2023No Comments

In quel tardo e piovoso pomeriggio del mese di ottobre, il trillo del telefonino mi ravvivò bruscamente dalla replica inarrestabile e prolungata dei miei faziosi ed esagitati pensieri, i medesimi invero che m’avevano costantemente dondolato in quella notte insonne frazionandomi e smembrandomi l’intelletto, fra quelle lenzuola inzaccherate di fluidi ormai asciugati assieme a quelle numerose macchie opalescenti, che si propagavano ormai sull’epidermide abbattuta e infiacchita. Un ricordo effettivamente rozzo, sproporzionato e distaccato, di qualcosa che concretamente era rimasto soltanto fisico, ma che non aveva ascoltato né avvolto per niente il mio animo né la mia sensibilità di femmina.

In realtà, in quella contingenza, non ebbi bisogno di schiudere gli occhi per rispondere, giacché il cellulare era là vicino a me, precisamente nel posto che lo avevo mollato la sera precedente, nel tempo in cui carezze sperdute avevano preso celermente il posto di scriteriate e di stolte definizioni, aspirandomi tra quegli appoggi distanti e insensibili che non bramavo. In quella congiuntura avrei deliziosamente auspicato sentirmi riferire – ciao mio grazioso elefantino, eccomi qua, un lieve e garbato mormorio emesso a fior di labbra, in verità una carezza che mi mancava e che da sola aveva la radicale forza d’evocare nuovamente l’amore di chi, sciupato chissà dove, peraltro impreciso, plumbeo e sfocato tra una calca di visi anonimi, peregrinava affievolito e senza vivacità nella mente fiacca e sfibrata facendo al presente male, eppure non era lui, questo io lo sapevo già. In quell’occasione, manifestamente infastidita, distendendomi in direzione del comodino spaziai con lo sguardo insonnolito in cerca delle sigarette, ne trovai una scampata della sera precedente e rapidamente l’accesi:

“Dimmi un po’, sei da sola?” – sollecitò quella voce bisbigliando quasi con insistenza. Che insensata e che stolta interpellanza, come se quella richiesta alterasse snaturando e modificando alcunché l’essere da soli oppure no, nel tempo in cui si è interamente abbandonati e costantemente soli dentro, eppure in quel frangente non obiettai, origliai viceversa, lisciandomi indolentemente un capezzolo.

Quelle definizioni insipide e marginali capitombolarono speditamente, simili alle palle che rotolano quando si gioca in un torneo di bowling, fra le mie considerazioni distratte e smemorate, in compagnia altresì dei miei convincimenti incantati e secondari, perché spezzoni di pianificazioni inintelligibili, che finsi di spartire acconsentendo durante il corso della conversazione con affermazioni illogiche e fuori tempo, si volatilizzarono immancabilmente all’istante. Rasentandomi nel mentre le cosce simulai un spasimo d’appagamento, peraltro illusorio e preventivato, così come la smania che ostentai per la visione profetizzata del mio individuo parlante, sicché aprendo la porta di casa mi bloccai, seppur sbarbato e ben agghindato il maschio al quale per mesi avevo cercato d’attribuirne un volto, non era ciò che realmente avevo ideato. Allegro e lieto lui mi fissò dalla soglia con gli occhi traboccanti d’un barlume insolito simile a taluni fondali marini, che dapprima t’ingannano con la loro limpidezza e che in seguito ti fanno annegare in acque improvvisamente avverse e depresse.

Io percepivo dentro me stessa un’inedita quanto usuale nota sgradevole nella sinfonia di quelle immagini disgiunte, imprecise e vaghe che al presente non m’appartenevano più. In verità un’illusione remota, di anni orsono che era ritornata a picchiare alla porta dei miei pensieri incoerenti, incostanti e sconnessi malmenandoli, scandendo con un enorme fragore come farebbe un volatile delirante, eppure non era, lui anche se il mio fedele intelletto stabilì enunciando di sì, perché il bacio lo colse impreparato. Delicato e impudico aveva la candida sapidità delle cose perdute, la fragranza specifica d’un sogno sfumato nella disillusione dei compromessi quotidiani e che accarezzandomi le labbra, mi fece per un attimo ritornare quella che ero stata un tempo, quando disperazione, patimenti e carattere non avevano ancora risciacquato la mia vitalità, afferrandola in un imballaggio indistinto che non conteneva più nulla.

Abbandonandomi, sentii la sua mano calda esplorare morbidamente il mio corpo, mentre ad occhi chiusi gustavo qualcosa che, improvviso, sbocciò nel petto, travolgendomi con potenti ondate di calore, discostandosi mi fissò accarezzandomi la guancia:

“Era forse questo quanto avevi vagheggiato?” – reclamò sottovoce, io però non reagii, non sentii.

Coccolandogli la testa lo attrassi ancora verso le mie labbra insoddisfatte, inaridita del suo sapore mattutino sia di tabacco che di caffè, del suo gradevole alito, della fragranza del suo ottimo dopobarba di Azzaro che respiravo. Accogliendo il suo palmo nel mio, lo condussi verso la camera da letto esortandolo d’abbandonarsi tra quelle lenzuola illecitamente smembrate da mille corpi sconosciuti di cui lui non aveva memoria, io gli sorrisi fissandolo negli occhi:

“Hai fatto di nuovo scalo?” – rimuginai, intanto che alleggerimento e sofferenza s’impastarono miscelandosi ben presto in un gorgo di baci sempre più intensi, un oceano di turbamenti cominciò a scaldarmi sotto i raggi d’un sole anonimo, mentre le nostre bocche inseparabili borbottavano assetti consigliati dalla fantasia.

Setacciando con perizia le sue labbra con le mie introdussi le dita sotto il gilet che ancora indossava, una mano risalì lungo i miei fianchi pieghettando la sottoveste, in cerca di punti nascosti, di luoghi segreti, dove fra brividi incontrollati s’occulta un piacere fatto di carezze. Denudandolo dell’inessenziale lambii la pelle delicata del bacino con la punta della lingua, osservando i guizzi involontari della sua virilità che pulsava contro la mia guancia, mentre ricercavo focosamente il sentiero delle sue emozioni proibite. Dandogli ospitalità fra i seni mi chinai ad assaporare l’intima sostanza biancastra, mentre i miei occhi silenziosi cercarono i suoi persi nel riflesso onirico di quello che stavo facendo. Una mano scese ad accarezzarmi i capelli guidandomi nel lento movimento coordinato di corpo e labbra, mentre la pienezza del suo cazzo s’introdusse nella mia famelica bocca, in cerca di profondità maggiori e di ritmi più incontrollati. Io diminuii il ritmo serbandolo nel bollore madido della mia bocca, lasciata a digiuno fra labbra tese nell’amplesso licenzioso e scostumato della mia lingua faziosa e indocile, che riandò dalla parte interna assaporandone la sapidità conclusiva della sua esuberante sborrata finale.

“Molto bene, ferma così” – instradandomi con profusione nella corretta direzione della sua faccia mentre mi lambiva in modo appassionato, setacciando con dovizia l’avvallamento attorno con una cadenza attecchente, lievitante e innegabilmente risoluta.

“Che meraviglia, ti prego non interrompere” – bramai io accalorata, durante il tempo in cui un riflusso focoso e palpitante mi permeò, disperdendo e sparpagliando il totale piacere tra quelle labbra tormentate dalla sete accontentandomi appieno.

“Sì, così, avvicinati” – enfatizzò lui, perché guidandomi su d’un fianco s’incuneò dentro di me, riconsegnandomi di rimando la porzione che io gli avevo elargito poco tempo prima.

I suoi famelici tocchi, peraltro inarticolati e indefinibili bighellonarono su quella cute arrossata e discinta, durante il tempo in cui i nostri intemperanti e viziosi corpi si rovistavano esplorandosi a vicenda alla ricerca del foro appropriato, impauriti e turbati nel mulinello di quelle meraviglie affettuose e lusinghiere, perché entrambi eravamo gocciolanti d’inediti e di sfavillanti ghiribizzi, sotto l’espressione vicendevole della completa e lussuriosa cupidigia. M’accorsi ben presto che si stava ricoprendo, sicché ritenendomi assopita mi baciò sul collo senza fiatare.
Per un attimo fui sul punto di fermarlo, di bloccarlo nell’abbraccio di qualcosa che poteva essere originale, malgrado ciò rinunciai.

Facendo finta di dormire bloccai quell’unica goccia di pianto, poiché da svariati anni ero stata incapace di metterla in scena, solamente allorquando ascoltai il botto della porta che si richiudeva alle sue spalle, la lasciai libera che fuoriuscisse. Lei, asociale, infruttuosa e taciturna si gettò verso il nulla, giacché era già notte quando il telefonino risuonò, a rilento estrassi la mano dall’acqua tiepida, svenevolmente infagottata dalla stretta del sonno che stava per invadermi:

“Sì, chi parla?” – parlottai, disinteressata della prevedibilità che potesse udirmi, perché niente m’importava più.

“Mi riconosci? Sono io, non ho potuto resistere e t’ho cercato. Volevo riferirti che quest’oggi è stato tutto incantevole” – intuii, mentre scrutavo le maioliche della stanza da bagno.

“Non ci crederai, eppure ho provato anch’io le medesime sensazioni” – ribattei, fintanto che sbaciucchii disinteressati e inerti iniziarono a lambirmi l’epidermide.

“Sarà piuttosto astruso e bizzarro, malgrado ciò suppongo e constato che mi sono invaghito di te, di più, io ti adoro”.

Ammetto e ribadisco, un’affettuosità garbata e suadente, un’inedita macchinazione che non avrei indossato mai, un’arietta d’aspettativa per uno spirito abbandonato nel vuoto, ciononostante opaco e tenebroso d’un periodo finito, ermetico, indecifrabile e nel contempo alterante, demolente e sfigurante che non ero giammai arrivata a oltrepassare.

“Figurati, pure io sono infatuata di te” – borbottai in maniera festante e gioiosa, ovviamente non a lui, troncando di netto il contatto telefonico.

Lei rimase là, ripensando per un istante all’accaduto, su come ponderare soppesando diligentemente la faccenda al meglio, accantonando in definitiva tutto, perché dopo desistendo s’infilò nuovamente dentro l’acqua della vasca. 

{Idraulico anno 1999} 

 

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