Erano passati tre mesi, quattro giorni e circa sei ore dall’ultima volta che Dago aveva avuto un appuntamento con una donna. Il desiderio si stava accumulando dentro di lui come acqua dietro una diga, goccia dopo goccia, creando una pressione sempre più insostenibile. L’astinenza non era mai stata un grosso problema per Dago. Quando chiudeva una relazione, si prendeva giustamente periodi di solitudine, immergendosi nel lavoro come si cerca rifugio in un porto sicuro, lasciando che le infinite colonne di Excel e le scadenze dei progetti permettessero al suo corpo di dimenticare persino l’esistenza del piacere. Ma quella mattina qualcosa si era spezzato, un equilibrio diventato fragile che aveva ceduto sotto il peso di troppi stimoli, troppi desideri repressi.
La responsabilità principale di questa frattura era di Elena, anche se in fondo sapeva che stava solo cercando un capro espiatorio per la sua debolezza. Da settimane ormai lei aveva iniziato una sottile guerra di logoramento contro le sue difese. Le sue provocazioni, studiate con la precisione di una stratega militare, erano diventate sempre più audaci: la scelta deliberata di camicette sempre più leggere che lasciavano intuire l’assenza del reggiseno, gonne che sembravano danzare intorno alle sue cosce come veli di una danzatrice orientale, il modo in cui si chinava sulla sua scrivania durante le riunioni, avvolgendolo nel suo profumo come in una ragnatela invisibile. Oggi poi, aveva deciso di sferrare il colpo finale al suo autocontrollo già vacillante. La camicetta di seta, così trasparente da sembrare tessuta con fili di rugiada, non lasciava spazio all’immaginazione. I suoi capezzoli, visibili attraverso il tessuto come boccioli tesi verso il sole, trafiggevano la sua concentrazione ogni volta che lei attraversava l’ufficio. La gonna, un capolavoro di seduzione controllata, rivelava ad ogni movimento lembi di pelle dorata che alimentavano le sue fantasie più inconfessabili, mentre quel triangolo scuro che si intravedeva tra le pieghe del tessuto era diventato un’ossessione che consumava ogni suo pensiero razionale.
Dago Heron portava nel sangue il contrasto di due mondi: la passione tumultuosa delle pampas argentine di suo padre e la raffinata compostezza degli altipiani scozzesi di sua madre. A quarantacinque anni, questa duplice eredità si era trasformata in una presenza magnetica che mescolava saggezza ed istinto, temperata da anni di esperienza ma mai completamente addomesticata. Il suo corpo, scolpito in gioventù dal decathlon e mantenuto in forma da una disciplina quasi ossessiva, conservava la potenza elastica di un predatore nel pieno della sua maturità.
Il suo volto raccontava questa fusione di mondi attraverso i segni del tempo, che invece di sminuire il suo fascino lo avevano arricchito come le venature in un legno pregiato: lineamenti affilati che ricordavano gli antichi gauchos, addolciti da occhi di un verde intenso ereditati dal clan materno, ora circondati da sottili rughe che parlavano di sorrisi vissuti e battaglie vinte. I capelli corvini, brizzolati sulle tempie con un’eleganza quasi studiata, erano l’unica concessione al caos in un uomo altrimenti metodico. La barba, mantenuta corta ma sempre presente, enfatizzava una mascella che sembrava scolpita nel granito delle Highlands.
Nel reparto vendite, occupava la posizione più ambita dell’open space, una scrivania strategicamente posizionata che gli permetteva di controllare l’intera area come un falco dal suo posatoio. Il suo territorio, conquistato attraverso anni di risultati eccezionali, rifletteva la stessa dualità della sua natura: precisa e minimalista nella disposizione degli oggetti, ma con tocchi di eleganza ribelle che parlavano di una personalità complessa. Nel cassetto più profondo della scrivania, una bottiglia di Lagavulin 16 anni attendeva le occasioni speciali, il suo aroma torbato un omaggio alle radici materne e alle vittorie più significative.
Il primo segnale del suo arrivo fu il ritmo cadenzato dei tacchi sul marmo del corridoio, un suono che faceva alzare gli occhi agli uomini e stringere le labbra alle donne. Elena Brandi attraversò l’open space come un soffio di vento caldo in una giornata già torrida di luglio, quarantatré anni portati come una corona invisibile, ogni anno un gioiello che aggiungeva lustro alla sua presenza magnetica.
Una folta chioma di ricci morbidi le scendeva fino alle spalle, onde scure attraversate da riflessi ramati che catturavano la luce come fili di rame liquido. I capelli, liberi di muoversi ad ogni suo passo, danzavano intorno al suo viso come una cornice vivente, aggiungendo un elemento di selvaggia sensualità alla sua figura già magnetica.
Il suo ruolo di direttore marketing le conferiva un’autorità naturale, amplificata da quella sensualità matura che fluiva dai suoi movimenti come miele caldo. Le curve generose del suo corpo, una taglia 46 che sfidava gli stereotipi della perfezione, disegnavano una geografia di promesse sotto il tailleur nero. La giacca, tagliata con maestria sartoriale, accarezzava i fianchi morbidi e il seno prosperoso, mentre la gonna a tubino, con uno spacco laterale che saliva fino a metà coscia, rispettava la lettera ma non lo spirito del dress code aziendale. Ad ogni passo, lo spacco rivelava, come un sipario che si apre su un segreto proibito, il pizzo nero delle calze autoreggenti contro la pelle olivastra della coscia.
Le sue forme erano un inno alla femminilità mediterranea: i fianchi ampi che si restringevano in un punto vita sorprendentemente sottile, il seno abbondante che si muoveva libero sotto la seta della camicetta color avorio, le cosce tornite che giocavano a nascondino con lo spacco della gonna. La sua pelle olivastra aveva quel sottile luccichio che solo il caldo estivo sa donare, mentre i ricci scuri danzavano sulla sua nuca ad ogni movimento, liberando occasionali bagliori ramati sotto le luci dell’ufficio.
Non era il tipo di bellezza che si trova sulle copertine delle riviste, ma possedeva qualcosa di più potente: una sensualità consapevole che nasceva dall’accettazione totale del proprio corpo, dalla padronanza dei suoi effetti sugli altri. Le piccole imperfezioni – il leggero accenno di pancia, i fianchi generosi, qualche stria argentata che si intuiva sulle cosce – non facevano che aumentare il suo fascino, come le crepe in un vaso prezioso che ne raccontano la storia.
Elena Brandi governava il suo regno aziendale come una regina rinascimentale: con un mix calcolato di autorità e seduzione che rendeva impossibile stabilire dove finisse il suo talento professionale e dove iniziasse il suo magnetismo personale. Il suono dei suoi Louboutin neri che percorrevano i corridoi era come il rintocco di una campana che annunciava il suo arrivo, un ritmo ipnotico amplificato dal marmo lucido dei pavimenti.
Le loro schermaglie professionali, formalmente confinate all’eterno conflitto tra marketing e vendite, mascheravano una tensione erotica che elettrizzava l’intero piano. La loro danza di potere, un balletto sofisticato di provocazioni e ritirate strategiche, era resa ancora più intensa dalla consapevolezza reciproca che entrambi avevano raggiunto quell’età in cui ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola porta il peso dell’esperienza e la promessa di piaceri più profondi.
La mattinata si trascinava come una tortura medievale raffinata nella sua lentezza. Ogni movimento di Elena era una provocazione studiata che si depositava nei sensi di Dago come gocce di piombo fuso. La riunione nella sala conferenze si era trasformata in una camera di tortura: due ore di presentazioni dove i grafici e le proiezioni di vendita erano diventati un pretesto per un duello di sguardi e allusioni.
Elena aveva scelto di sedersi proprio di fronte a lui. Ogni volta che si protendeva sul tavolo per indicare un dato sullo schermo, la seta della camicetta si tendeva sul seno, rivelando l’assenza del reggiseno come un segreto sussurrato. Il profumo di vaniglia del suo Hypnotic Poison saturava l’aria della sala, mescolandosi al profumo più carnale della sua pelle scaldata dal sole di luglio che filtrava attraverso le veneziane. I suoi ricci scuri catturavano la luce mentre si chinava sui documenti, creando un velo seducente che oscurava parzialmente il suo viso, lasciando intravedere solo il luccichio dei suoi occhi e il movimento delle labbra mentre smontava metodicamente le proiezioni di vendita di Dago.
La tensione si era accumulata nel corpo di Dago come elettricità statica. Sentiva ogni muscolo teso, ogni nervo vibrare a una frequenza pericolosa. Il desiderio aveva assunto una forma quasi tangibile, un’entità fisica che premeva contro la sua coscienza professionale, minacciando di far crollare anni di autocontrollo.
La pausa pranzo era arrivata come una benedizione e una maledizione insieme. L’open space si era svuotato gradualmente, i colleghi che sciamavano verso la mensa o i ristoranti vicini, lasciando dietro di sé un silenzio carico di possibilità. Dago era rimasto alla sua scrivania, fingendo di lavorare, mentre ogni cellula del suo corpo gridava per un rilascio.
Fu in quel momento che prese la decisione. Non era più questione di volontà ma di necessità fisica, come respirare o bere. Il bagno al fondo del corridoio, quello meno frequentato, divenne improvvisamente l’unico pensiero coerente nella sua mente. Si alzò con studiata nonchalance, attraversando l’ufficio con passi misurati che mascheravano la tempesta interiore.
Il bagno era un’isola di silenzio nel mare frenetico dell’ufficio, un santuario di piastrelle bianche dove il ronzio fluorescente delle luci creava un’atmosfera surreale, quasi onirica. Dago si chiuse alle spalle la porta, il click della serratura che echeggiava come un sigillo di complicità tra lui e la solitudine. Il suo riflesso nello specchio gli rimandava l’immagine di un uomo consumato dal desiderio, gli occhi verdi offuscati da una fame primordiale che nessuna riunione di lavoro poteva più mascherare.
Le sue mani tremavano leggermente mentre slacciava la cintura, un gesto meccanico che sembrava appartenere a un altro uomo, a un’altra vita. Il tessuto dei pantaloni scivolò lungo le cosce come un’onda che si ritira dalla spiaggia, seguito dal cotone dei boxer che liberarono finalmente la sua erezione dalla prigione di stoffa. Il contatto con l’aria fresca fu come una carezza inaspettata che gli strappò un sospiro di sollievo.
Impugnò il suo sesso con una familiarità che era al tempo stesso confortante e vergognosa. La sua mano iniziò a muoversi con un ritmo lento, deliberato, come un direttore d’orchestra che detta il tempo a una sinfonia di piacere solitario. Chiuse gli occhi, lasciando che il mondo esterno svanisse completamente. Nella sua mente, Elena prendeva forma come un’apparizione erotica: non più il direttore marketing in tailleur, ma una creatura di puro desiderio che si offriva a lui in un caleidoscopio di posizioni sempre più audaci. La vedeva piegarsi sulla sua scrivania, i ricci ramati che cascavano come una tenda di seta sul documento che stava fingendo di leggere. La immaginava cavalcarlo nella sala riunioni, il suo corpo morbido che ondeggiava sopra di lui come un’onda di piacere, mentre la gonna si sollevava rivelando le calze autoreggenti.
Il suo respiro si fece più pesante, ritmico come il movimento della mano che accelerava impercettibilmente. Il piacere si costruiva dentro di lui come una tempesta che si addensa all’orizzonte, ancora invisibile ma inevitabile. Era così immerso nelle sue fantasie che non sentì il suono familiare dei tacchi sul marmo del corridoio, quel ritmo ipnotico che in qualsiasi altro momento avrebbe fatto scattare tutti i suoi sensi in allarme. Non sentì nemmeno il leggero cigolio della porta, troppo perso nell’immagine di Elena che, nella sua mente, si stava inginocchiando davanti a lui con un sorriso malizioso sulle labbra.
Fu solo il click metallico della serratura a penetrare la bolla di piacere in cui si era rinchiuso. I suoi occhi si aprirono di scatto, come un uomo strappato brutalmente da un sogno. Elena era realmente lì, appoggiata alla porta, ma non era un’apparizione erotica della sua fantasia. Era in carne ed ossa, i suoi occhi fissi sul sesso di Dago prigioniero nella sua mano ora immobile. Il rossore dell’eccitazione si mescolava sulla sua pelle olivastra con quello dell’imbarazzo, creando un’alchimia di emozioni che le sue guance tradivano impietosamente. Il silenzio tra loro era denso come miele, carico di possibilità e di pericolo.
L’istinto primordiale di Dago si risvegliò come una bestia troppo a lungo contenuta. Il suo corpo si tese, pronto a reclamare ciò che Elena stava così deliberatamente offrendo, ma lei lo fermò con un gesto della mano. Il suo viso era una maschera di desiderio controllato, gli occhi verdi offuscati dalla lussuria ma ancora lucidi di determinazione.
“No,” sussurrò, la voce roca di desiderio, ogni parola che usciva dalle sue labbra sembrava intrisa di promesse oscene. “Voglio che continui a raccontarmi cosa vorresti farmi mentre ti guardo masturbare.” Le sue parole erano una preghiera pagana, un’invocazione ad un piacere perverso. “Voglio vederti venire, voglio sentirti venire!”
Le sue dita iniziarono una danza sensuale sul suo sesso umido, la pelle olivastra che brillava di sudore sotto le luci fluorescenti. “Mi piace quando mi guardi così… come se volessi divorarmi, lo vedo come mi guardi in ufficio.”
La mano di Dago riprese il suo movimento ritmico, questa volta non per obbedienza ma per il puro piacere di vedere l’effetto che faceva su Elena.
“Ti prenderei contro quella porta,” rispose lui, la voce ridotta a un ringhio basso, primordiale. “Ti solleverei per i fianchi, inchiodandoti contro il legno con il mio corpo. Ti terrei le cosce aperte mentre ti scopo, così potresti vedere nel riflesso dello specchio come ti prendo, come il tuo corpo mi accoglie… voglio che ti guardi mentre ti faccio godere.”
Lei si era voltata di nuovo, offrendo una vista che avrebbe fatto impallidire le Veneri rinascimentali. Le sue dita cercavano di replicare quello che Dago le raccontava, il suo corpo rispondendo a ogni parola come uno strumento alle mani di un maestro.
Elena gemette, inarcando la schiena come un arco teso. “E poi?” La sua voce tremava di anticipazione.
“Ti farei piegare a novanta sulla scrivania della sala riunioni,” continuò lui, la mano che accelerava il ritmo involontariamente. “Proprio dove oggi hai fatto la tua presentazione… Ti terrei ferma per i fianchi mentre ti scopo il culo, e ti ordinerei di masturbarti la figa. Voglio vederti usare entrambi i buchi come la puttana che sei.” Le ultime parole erano intrise di un disprezzo studiato che fece gemere Elena più forte. “E se non ti sditalini abbastanza forte, ti infilerò due dita nella figa mentre ti scopo il culo… ti riempirò completamente, ti farò sentire usata e posseduta come meriti.”
La reazione di Elena a quelle parole fu viscerale: un tremito profondo le attraversò il corpo mentre intensificava la stimolazione di entrambe le sue aperture, le dita che si muovevano frenetiche seguendo le istruzioni di Dago, il suo corpo che tradiva quanto quelle parole di dominazione la eccitassero. “Sì… sì… trattami come una troia… sono la tua troia…” Le parole le uscivano spezzate, intervallate da gemiti sempre più acuti.
L’aria era elettrica, saturata dei loro gemiti, dei loro odori e delle volgarità che si scambiavano come carezze velenose. Elena si mosse rapida appena riconobbe i segni del suo orgasmo imminente, inginocchiandosi davanti a lui con la bocca spalancata, mentre le sue dita continuavano il loro lavoro sul suo sesso pulsante, un gesto che rese impossibile a Dago resistere ulteriormente.
Il primo spruzzo la colpì sul viso come una benedizione pagana, seguito da altri che, con maggiore precisione, centrarono la sua bocca bramosa. Il gemito di Elena si trasformò in un grido soffocato mentre raggiungeva il proprio culmine, benedicendo il pavimento con il suo orgasmo, il suo corpo che tremava incontrollato per l’intensità del piacere condiviso.
Fu in quel momento di vulnerabilità post-orgasmica che Elena ebbe la sua epifania. Come una giocatrice di scacchi che vede improvvisamente una sequenza vincente di mosse, comprese che il vero potere non stava nel concedersi, ma nel continuare a negarsi. Anni di desiderio represso per Dago – anni passati a immaginare quelle sue mani grandi e forti che le esploravano il corpo, che le stringevano i seni, che le marchiavano la pelle con il loro possesso – potevano trasformarsi in qualcosa di più prezioso: un’arma di seduzione raffinata come un veleno antico.
Con grazia felina si alzò, raccogliendo con un dito una goccia del piacere di Dago che le era scivolata sul mento. Il gesto di portarsi quel dito alle labbra fu studiato come un passo di danza, un movimento che sapeva avrebbe alimentato le sue fantasie future. Si guardò allo specchio, il viso ancora arrossato dal piacere, i ricci ramati selvaggiamente spettinati, le labbra gonfie di desideri troppo a lungo repressi. “Guarda che hai combinato,” sussurrò con un sorriso malizioso, “meno male che ho qui la trousse del trucco.”
“Cristo, Elena…” la voce di Dago era roca, quasi irriconoscibile, “non hai idea da quanto tempo…”
“Shhhh,” lo interruppe lei, un dito sulle proprie labbra in un gesto che era al tempo stesso un ordine e una promessa, “non rovinare questo momento con le parole.”
Mentre si sistemava il make-up con gesti precisi ed esperti, sentiva lo sguardo di Dago che la divorava, il suo corpo ancora esposto e vulnerabile che tradiva il desiderio di toccarla, di possederla, di reclamare ciò che gli era stato negato. Ma lei mantenne la distanza con studiata nonchalance, ogni movimento calcolato per essere una promessa e una negazione allo stesso tempo.
“Mi stai torturando,” mormorò lui, iniziando lentamente a ricomporsi, “lo sai vero?”
Lei sorrise allo specchio, un sorriso che era pura seduzione. “Non hai ancora visto niente.”
In pochi istanti si era ricomposta, come se nulla fosse accaduto. Solo il luccichio febbrile nei suoi occhi verdi tradiva la tempesta di emozioni che ancora le turbinava dentro. Prima di uscire, si voltò verso di lui. “Non pensare di cavartela così facilmente, Dago Heron,” sussurrò, la voce un mix perfetto di minaccia professionale e promessa erotica. “Questo è solo l’inizio.” Poi uscì, i suoi tacchi che riprendevano il loro ritmo ipnotico sul marmo del corridoio.
Dago rimase immobile per qualche istante, cercando di processare quanto era appena accaduto. Si sistemò la camicia, controllò la zip dei pantaloni – questa volta con particolare attenzione – e si passò una mano tra i capelli brizzolati, come se quel gesto potesse riportare un minimo di ordine nella sua mente sconvolta.
Quando rientrò nell’open space, aveva la snervante sensazione che ogni occhio fosse puntato su di lui, che ogni collega potesse leggere sulla sua pelle i segni di quanto era appena successo. Il tragitto fino alla sua scrivania sembrava un percorso a ostacoli in cui ogni passo richiedeva uno sforzo conscio per apparire normale. Fu solo quando quasi raggiunse la sua postazione che incrociò lo sguardo di Elena attraverso la distesa di scrivanie. Lei stava parlando con un account junior, gesticolando con la solita autorità professionale, ma i suoi occhi… i suoi occhi quando incontrarono i suoi erano carichi di promesse oscure, di segreti condivisi, di piaceri ancora da esplorare. Un brivido gli attraversò la schiena mentre si sedeva, consapevole che la sua vita in ufficio non sarebbe più stata la stessa.
Il più bel racconto di tutti i tempi, neppure Henry Miller o Anais Nin. Commentate gente commentate. Ovviamente scherzo
Grazie per il commento. Hai ragione ma ho paura di diventare troppo prolisso. In realtà sono un uomo, e se…
Ciao grazie. 😘
Ciao grazie. 😘
felice di saperti sulla…breccia! Un bacio…