Skip to main content
Erotici Racconti

Rapita

By 10 Dicembre 2023One Comment

Non ho mai amato viaggiare. Dentro di me l’ho sempre saputo che mi sarei cacciata nei guai. E proprio per questo motivo, quel viaggio era iniziato sotto questa cattiva stella.
Le mie amiche continuavano a dirmi che era solo una mia impressione, ma col senno di poi, se mi avessero dato ascolto, oggi non saremmo qui.
Avete presente quelle scene dei film, quando qualcuno si sveglia e si ritrova in un posto sconosciuto, con un mal di testa epico e con ricordi sconnessi e privi di logica? E’ così che inizia la mia storia.
Non so esattamente da quanto sono qui. Non so nemmeno dove sia esattamente qui. Sono in una stanza, su un letto che profuma e rassicura, nonostante tutto. Un sole pallido entra delle imposte in penombra. Non saprei dire che ore sono, e anche solo pensarci mi fa scoppiare la testa. Quasi quasi dormo…..
Il freddo mi ha svegliata… dovrei aprire gli occhi, guardarmi intorno e cercare una coperta, ma proprio non ce la faccio…. Sento un calore sopra di me adesso, il mio corpo si sta scaldando… ho una coperta addosso. Ma chi me l’ha messa? Ci deve essere qualcuno qui. Dovrei aprire gli occhi ma non ce la faccio…. Riesco a scorgere solo un’ombra che apre la porta della stanza ed esce, chiudendola a chiave.
Stamattina i miei pensieri sono meno sconnessi del solito, la testa va anche meglio, solo il braccio mi fa male…. Allungo la mano e sento un ago, una flebo inserita, ma quando? Io non mi ricordo nulla. Apro gli occhi, la luce del sole sembra essere più nitida, sarà mattina inoltrata. Mi sorprendo del numero dei pensieri che la mia mente riesce a elaborare senza esplodermi dal dolore. Provo a mettermi seduta e il pizzicore in mezzo alle gambe mi svela un’altra sorpresa: il catetere.
Flebo, catetere, ma questa non sembra proprio la stanza di un ospedale: troppo grande, spaziosa, ben arredata. E con le lenzuola che sembrano avvolgerti. No, non sono in ospedale. Ma allora dove sono?
Ricordo il viaggio in aereo con le mie amiche, ricordo l’arrivo nel resort, la spiaggia, il sole, il mare e il numero disdicevole di cocktail consumati. Ricordo il trambusto di sera mentre stavamo ballando; ricordo di essere stata strattonata, spinta, e quel pizzico alla base del collo…. Poi il nulla.
Assorta in questi pensieri non ho neanche sentito la chiave girare nella serratura e la porta aprirsi. Una donna mi guarda, non si aspettava di trovarmi sveglia evidentemente; infatti, chiude la porta immediatamente senza concedermi la possibilità di emettere un solo fiato.
Questa volta la serratura aprirsi la sento ma il mio sguardo rimane fisso sul pavimento. Non so neanche da quanto non ho un contatto umano e stavolta non intendo farlo scappare.
Non so perché ma nel vedere un’infermiera resto deluso, ma non comprendo il senso di delusione: chi altri aspettavo? Non saprei, forse quella figura che ho visto uscire dalla stanza l’altra notte: un uomo direi, alto mi pare ma non ne sono sicura.
L’infermiera mi parla, una voce vuota, prima di umanità, in netta antitesi con l’uniforme che indossa. Mi toglie flebo e ago. Le chiedo di togliermi il catetere che mi fa male e contrariamente a quanto mi aspettassi, acconsente. Almeno adesso sono libera di alzarmi, di muovermi. Di aprire quella porta.
Mi addormento di nuovo e al mio risveglio trovo sul comodino, un bicchiere di latte e dei biscotti. Non ho particolarmente fame ma mangio, sono debilitata, devo rimettermi in forze se voglio uscire da qui dentro e capire che cazzo mi è successo.
Scendere da questo letto è la vera sfida: le mie gambe sembrano non avere voglia di intraprendere questa sfida con me, tremano, vacillano, fino a farmi cadere. La mia determinazione però è più forte che mai: mi trascino sulle braccia ma anche esse non mi reggono e passo più tempo a faccia in giù sul pavimento che effettivamente a muovermi. Non ho la forza di tornare sul letto né di andare avanti: rimango li, su quel pavimento gelido finchè non mi addormento.
Mi svegli di soprassalto perché mi sento sospesa in aria; credevo di sognare ed invece qualcuno mi ha sollevata dal pavimento e mi sta mettendo sul letto, prende la coperta e me la adagia addosso, e senza dire una sola parola esce dalla stanza e io ricado tra le braccia di Morfeo.
Stamattina la mia colazione, che mi aspetta li sul comodino al mio risveglio, prevede pizza e succo di frutta. La pizza è buona, molto…. Potrei essere tornata in Italia.. si ma come? Non ricordo di aver viaggiato. Le mie riflessioni vengono interrotte dalla porta che si apre. Entra una donna con una sedia a rotelle e non capisco perché, dentro di me, avverto un sussulto. Contro ogni logica, l’idea di abbandonare quel luogo mi angoscia.
A differenza dell’infermiera, il mio secondo contatto umano, se escludiamo l’ombra notturna misteriosa, sembra essere quantomeno umana. Mi comunica che mi aiuterà nella toilette mattutina, che potrei decidere di vestirmi e che se mi verrà accordato, potrei uscire dalla stanza. L’idea di una doccia mi rende così felice che l’ultima parte del suo discorso sfugge dalla mia comprensione.
Il bagno è stato estremamente rilassante, così come farsi lavare i capelli: una cosa che ho sempre trovato estremamente appagante. Mi vesto e mi siedo, come se stessi aspettando qualcosa, ma cosa?
Resto assorta nei miei pensieri non so per quanto tempo, finchè la porta non si apre e la cameriera non si presenta di nuovo con la sedia a rotelle. Le faccio cenno col capo che non intendo salirci ma lei mi comunica che è l’unica opzione prevista se voglio uscire da quella stanza. Ed eccola lì, di nuovo quella fitta nelle viscere al pensiero di abbandonare il mio rifugio.
Sono costretta a cedere se voglio capire esattamente dove mi trovo e cosa mi sta succedendo. Oltre la porta, si apre un lungo corridoio. Le pareti sono bianche, come le numerose porte su entrambi i lati; alla fine il corridoio si apre su un enorme sala, riesco a distinguere un enorme caminetto in pietra con davanti un divano… Altre stanze, altre porte, una vetrata grandissima che fa entrare una luce che non so perché, stona con il contesto della stanza.
La giornata è bella, il sole splende, anche se una leggera brezza mi fa scorrere un brivido lungo la schiena, ed è solo in questo momento che noto la presenza di 4/5 energumeni sparsi nella stanza, nella terrazza e nel giardino sottostante. Riesco ad intravedere il mare, una piscina, un campo da tennis in lontananza…. Ma non vedo nessuna uscita né alcuna strada.
La tavola è imbandita ma la fame è latente, non c’è nulla di più triste che mangiare da soli. Mi sento osservata ma nessuno degli omoni sta effettivamente guardando me.
Scosto la sedia e provo ad alzarmi ma improvvisamente la cameriera, o almeno presumo che lo sia, si fionda al mio fianco, dicendomi che devo parlare con una persona e quindi di attendere seduta qui.
Immagino che possa essere il proprietario di questa casa, o perché no, l’ombra che appare e scompare nottetempo nella mia stanza, ma ovviamente tutte le mie aspettative sono disattese. L’uomo abbastanza anziano che mi si palesa davanti dice di essere l’avvocato Zan e che il suo cliente gli ha dato mandato di informarmi sulla situazione. E quanto esce dalla sua bocca ha dell’inverosimile e sfida ogni narrativa.
Il resort nel quale alloggiavo è stato oggetto di un razzia da parte di una banda di ribelli del posto, che oltre a derubare e saccheggiare, hanno trafficato con i soggetti, a suo dire, più interessanti. Merce ambita sono i soggetti occidentali perché solitamente i loro paesi di appartenenza sono disposti al pagamento dei riscatti, ma prima ancora, i soggetti vengono venduti durante aste private. Quindi sono stata rapita e venduta all’asta – chiedo e la risposta che ottengo è un si deciso. Scoppio a ridere e mi guardo intorno, alla ricerca di qualcuno che mi confermi di essere vittima di uno scherzo ma non trovo risposte intorno a me.
Il mio sguardo allora torna sull’avvocato, al quale chiedo se è il suo cliente ad avermi comprata e perché; egli semplicemente risponde che mi ha comprata solo perché sono italiana, come lui, e non voleva che una connazionale potesse finire in cattive mani. Ma le sia ben chiara una cosa, signorina Simona -aggiunge- lei qui non è ospite, non le è consentito fare quello che vuole, non le è consentito uscire dalla proprietà ed avere contatti con l’esterno, ogni sua necessità ed eventuali richieste deve essere autorizzata espressamente dal mio cliente, lei è una sua proprietà e lui può disporre di lei come meglio crede.
Dopo questo suo dire, si alza e va via; sembra conoscere la strada abbastanza bene. Io invece resto stordita dalle sue parole: non ricordo nulla di quello che mi ha raccontato, potrebbe addirittura essere tutto falso e potrebbe essere stato lui a rapirmi. Sembra tutto così assurdo.
Il sole scalda i miei pensieri ma sono stanca. Ho paura di alzarmi dalla sedia, di muovere anche un solo passo perché non so dove mi possa portare. Vedo un lettino a pochi passi dal tavolo al quale sono seduta; mi armo di coraggio e mi stendo li sopra guardandomi in giro, accertandomi che il mio spostamento è passato inosservato e lì, mi addormento.
Il sole è andato via da un pezzo e la brezza serale mi ha avvolto svegliandomi. Mi metto seduta e mi accarezzo le braccia cercando di scaldarmi e magicamente si palesa la solita tipa con una coperta. Inizio a sospettare che qualcuno ascolti i miei pensieri, ma poi, rido di me stessa per quel pensiero infantile.
Mi comunica di cambiarmi per la cena perché avrei ricevuto una visita. Provo ad immaginare solo per un secondo chi possa essere il misterioso ospite ma il ripensare al rapimento e a quanto detto dall’avvocato Zan mi fa cedere alla paura.
Scortata dalla mia fida? Compagnia, nella mia stanza, o forse dovrei definirla cella, trovo un bellissimo completo gessato giacca e pantaloni, con blusa nera e dei sandali con un tacco effettivamente troppo alto per i miei gusti e per le mie capacità fisiche. Mi cambio ma mi rifiuto di indossare quelle scarpe, pertanto, se non le metto da sola, sarò legata e mi verranno messe con la forza, portata al tavolo da qualcuno e imboccata perché non sarò slegata. Devo cedere.
A stento mi reggo in piedi e adesso quel corridoio mi sembra non finisca mai. Giungo al tavolo, ci poggio sopra i palmi delle mani, respiro e cerco la sedia per sedermi e levarmi quelle maledette scarpe, quando una voce dietro di me afferma – fossi in te non lo farei.
Mi volto di scatto e dietro di me trovo un ragazzo alquanto ordinario, capelli rasati castani, occhi marroni, dice di chiamarsi Davide e di essere l’addetto alla mia permanenza. Il mio carceriere, dunque, gli sbotto in faccia. Cessate le ostilità davanti ad un piatto di meravigliosi spaghetti, Davide mi propina quelle che lui definisce le “regole della casa”:
– mi è concesso circolare per la tutta la casa al momento, fino a nuovo ordine, ma la porta della mia stanza, di notte, rimarrà chiusa a chiave dall’esterno. Avrò a disposizione un telefono per comunicare eventuali necessità;
– non è assolutamente contemplato che io esca dalla proprietà;
– ogni eventuale uscita (giardino, spiaggia etc.) deve avvenire su espressa concessione del proprietario e solo accompagnata;
– mi verrà richiesto ogni giorno uno specifico dress code che dovrà essere rigorosamente rispettato;
– ogni contatto con il mondo esterno è assolutamente fuori discussione.
Ascolto il suo discorso incredula, non capisco il senso della situazione in cui mi ritrovo, non riesco a capire come sia possibile ritrovarsi in un simile incubo e soprattutto come uscirne. Non vedo come si possano aspettare che io davvero me ne stia qui.
Prendo coraggio e chiedo di parlare con chi si crede di essere il mio proprietario. La risposta che ottengo da Davide è ancora più sconcertante: non è contemplato che lui ti rivolga la parola.
Scatto in piedi, estremamente infastidita da quelle parole e noto che tutti i presenti scattano insieme a me, pronti a inseguirmi o placcarmi come un giocatore di football. Torno nella mia stanza, levandovi quei maledetti tacchi a metà corridoio e lo sconforto mi assale quando sento la serratura girare nella toppa: sono in trappola. Chi sarà mai il mio proprietario? Come posso avere un proprietario? Che senso ha tutto questo? E lui dove diavolo è? Nemmeno il coraggio di dirmi queste cose in faccia ha avuto. Devo capire come andarmene da qui……

Decido di mantenere un profilo basso, almeno per i primi giorni, finchè non avrò un piano per andarmene da qui. Al momento non so neanche dove si trova l’uscita e da che parte dovrei andare. Le mie giornate trascorrono lente e tutte uguali. In casa ci sono la governante, un cameriere e 4/5 guardie che a turno fanno il giro della casa e altre di loro dislocate in piscina, giardino e in tutta la proprietà. Non vedo auto, non riesco a capire da dove arrivano, anche perché qui non viene mai nessuno. A giorni alterni ceno con Davide, al quale avanzo le mie richieste per i giorni a seguire e mi impartisce eventuali ordini provenienti da quello strano soggetto che si spaccia per il mio padrone. Provo a chiedere qualche informazione a Davide che si rivela una tomba in merito. La casa è anonima; niente foto, nulla di personale che mi faccia neanche lontanamente capire di chi stiamo parlando. Durante una cena chiedo chi ha la chiave della mia stanza, quando dormo, e Davide mi risponde che non mi è dato saperlo. Chiedo allora se era lui nella mia stanza, i primi giorni, l’ombra che di notte turbava i miei sogni. Mi risponde: era Max.
Max, almeno adesso ho un nome. Un nome supponente, arrogante, aggettivi che stanno molto bene al soggetto in questione e non solo al suo nome.
Mi annoio, il tempo sembra non trascorrere mai e rende più gravosa la mia prigionia. Chiedo dei libri a Davide, da girare alla sua catena di comando, e il giorno dopo si presenta con dei fumetti, Topolino per essere precisi. E io cosa dovrei farci con questi? Chiedo a Davide incredula. Leggerli, mi risponde. Hai chiesto roba da leggere ed eccola. Ma hai spiegato al tu capo che non ho 8 anni? Non ottengo risposta. La mattina dopo i pezzetti dei fumetti si aggirano per tutta la veranda. Davide osserva la scena, prende il telefono, avvia la chiamata e si allontana. Spero gli stia dicendo che sono un osso duro, che non mi arrenderò senza combattere, che forse gli conviene lasciarmi andare. E invece no, vengo rinchiusa nella mia stanza per 10 giorni, senza uscire né vedere nessuno, a parte la governante che mi portava i pasti, come se fossi carcerata.
Apro gli occhi, oggi la giornata è calda, sta arrivando l’estate e si sente. Non so che giorno sia, in che mese siamo, ho letteralmente perso la cognizione dei giorni. Nessun vassoio sul tavolo, niente colazione. Mentre elaboro questo pensiero la porta si apre ed entra la governante con il dress code di oggi. Come un automa mi dirigo verso la doccia e lascio scivolare sul mio corpo il getto dell’acqua tiepida. Mi asciugo rapidamente, il fatto che lei sia di la a fissarmi mi infastidisce, mi infilo da sola la biancheria intima, anonima, basic e neutra nelle colorazioni, e solo allora mi rendo conto del vestito che ha portato: lungo, bianco con delle forme geometriche colorate, spallina larga, scollo fino allo sterno e sulla schiena. Cerco la griffe e mi blocco istantaneamente: Disegual. Allora è lui…. Avevo un vestito uguale a questo, corto e non lungo, ma praticamente identico. Lo indosso, mi sistema i capelli, la mia montagna di capelli castani ricci, con una mezza coda ed esce dalla stanza, lasciandomi sola davanti allo specchio, alla ricerca di me stessa, di un barlume di me in questa vita che non mi appartiene.
A piedi nudi mi dirigo in veranda, stranamente ho fame e non mi capita ormai spesso, ed è solo quando sto per mettere piede in veranda che noto due figure sedute al tavolo intente a bisbigliare e fare colazione. Una è Davide, l’altro non lo riesco a vedere perché mi da le spalle. Davide mi viene incontro e mi fa accomodare, spingendomi la sedia contro: strano, non l’ha mai fatto, perché si sta comportando così? Un dubbio si insinua dentro di me: chi è l’uomo che mi sta difronte? Che possa essere lui, Max?
Hanno smesso di parlare con il mio arrivo e mentre sorseggio il mio cappuccino, cerco di alzare lo guardo per vedere chi è il mio proprietario e resto perplessa. Un uomo apparentemente normale, capelli scuri, occhi marroni, fisico atletico e prestante, come può essere lui, continuo a chiedermi, finchè i suoi occhi non mi trafiggono come lame.
Freddi come l’inverno siberiano, aridi come il deserto e crudeli come una lama che ferisce ben conscia di provocare dolore. Il sangue mi si ghiaccia e un brivido mi percorre la schiena, ma non è freddo, è terrore puro. Davide prende un cornetto, me lo mette nel piatto e mi bisbiglia di mangiarlo, ma io sono pietrificata. Il suo telefono vibra, mentre si alza per rispondere mi intima un Mangia e si allontana.
Non riesco a non guardarlo, è davvero molto alto, sarà oltre i 190cm, che fanno sembrare ancora più insignificanti i miei 152cm. Un fisico definito, muscoloso direi, un culo che merita… ma perché mai gli sto guardando il culo? Distolgo lo sguardo e torno sul mio piatto: non mi va proprio di mangiare quel cornetto, sono confusa, frastornata da tutte le sensazioni che il mio corpo sta provando. Davide mi riporta alla realtà. Simona mangia, fai come ti ha detto. Mangia, non ci ricaverai nulla di buono sfidandolo, fidati. Ma niente, le mie mani non si riescono a muovere.
Non l’ho sentito arrivare, non so da quanto fosse li ma mi accorgo di lui solo quando sento l’ago infilarsi nel mio collo, riesco a guardarlo per un momento pima di cadere nell’oblio.
Mi sveglio a letto tutta intontita, realizzo subito che sono stata addormentata ma non so dire per quanto tempo ho dormito. Provo a muovermi ma non ci riesco: sono legata al tetto, gambe e braccia, immobilizzata e completamente nuda. Neanche questa volta mi accorgo della sua presenza, finchè non si alza e mi si mette sopra, con il suo ginocchio preme sul mio sesso completamente esposto e alla sua mercè, una mano mi tiene per il mento mentre lui si china per parlarmi e l’altra mano strizza violentemente un capezzolo. Dovresti apprezzare il trattamento che ti sto riservando. Potrei fare di te ciò che voglio, quando voglio e come voglio e nessuno avrebbe da obiettare nulla. Spero che cambierai atteggiamento. E detto questo, se ne va, lasciandomi in quelle condizioni a pensare alla mia posizione.
È questa la giustificazione che si dà per quel che mi sta facendo? Che potrebbe farmi di peggio? Potrebbe lasciarmi andare, dovrebbe lasciarmi andare invece di tenermi qui contro la mia volontà. Gli occhi mi si riempiono di lacrime che iniziano a scendere copiose; in che razza di situazione mi sono cacciata e soprattutto come ne uscirò? Lo sconforto mi assale e mi addormento, nuda, con addosso tutta l’angoscia del mondo.
Mi sveglio di soprassalto come se nella stanza ci fosse qualcuno, non sono più legata, ma sono ancora nuda avvolta da una calda e morbida coperta. Apro gli occhi e l’ombra è di nuovo lì, che si avvia verso la porta ed esce dalla stanza, lasciandomi di nuovo sola con i miei pensieri.

4
54

One Comment

  • Jules Maigret Jules Maigret ha detto:

    Scrivi davvero bene e questa per me è già una nota di merito importante. Ovviamente lavori tanto con la fantasia, a differenza tua i racconti che ho postato qui si riferiscono a due esperienze reali. Di sicuro sei attratta da situazioni al limite, dove la sottomissione diventa ovvia e naturale. Ho un carattere autoritario anche se non mi considero un Master a prescindere, se vuoi leggermi per sapere di me mi fa piacere. Se vuoi confrontarti julesmaigret60@gmail.com. A presto

Leave a Reply