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Erotici Racconti

Senza polemizzare

By 7 Dicembre 2016Gennaio 31st, 2023No Comments

Quel periodo di tanti anni addietro non era stato un periodo gelido come gli altri anche se integralmente la stagione lo portava immancabilmente a credere, poiché i gesti e i segni certo erano i medesimi così come pure gli orari e persino i sorrisi. Stentava difatti persino a riconoscersi, sentendo la propria voce dire parole che non aveva pensato, per il fatto che erano lì da qualche parte nella sua testa, come evidenti avanzi e ansiomatici  sedimenti dimenticati, per il semplice fatto che sgorgavano leggere e vuote dal momento che soltanto gli altri parevano riconoscerle, in effetti forse le aspettavano, giacché comparivano presentandosi quasi come dovute, tutto qui.

Le ore scorrevano e quasi non se n’è accorgeva perché il suo pensiero galleggiava altrove, inevitabilmente dentro una dimensione, irreparabilmente in un parametro ancora da riuscire ad arrivare, in realtà non era il futuro che ormai non le importava né il domani, perché non aveva più senso, era unicamente un tempo imprecisato e vago quello che realmente le interessava, articolato nei suoni gutturali d’una voce che poteva arrivare in qualunque momento del giorno o della notte, in quanto lei si trovava a essere effettivamente sé stessa, quanto un animale ingordo che sbrana brandelli di vita senza curarsi di niente e di nessuno, perché era già successo.

Sapeva chiaramente che sarebbe di nuovo accaduto, come e quando avrebbe voluto lui, visto che lo squillo del telefono non le provocava neanche l’apprensione né il batticuore, visto che era un anestetico puro, poiché bastava soltanto un trillo e le fibre nervose interrompevano immediatamente le connessioni, quelle che non servivano restavano, rimanevano solamente integre unicamente quelle necessarie, residui arcaici adatti alla sopravvivenza bruta e disumana. Allora s’alzava con calma e si stupiva delle mani senza tremito, mentre rispondeva con il tono piatto che sentiva giungere dal profondo di quel ribollire della palpitante tempesta. A volte credeva di sognare, cosicché chiudeva gli occhi ascoltando quella voce arrivare da lontano da un imprecisato e vago dove. Lei però non voleva un sogno, allora riapriva gli occhi e rispondeva, tentava una domanda per una risposta che non avrebbe ricevuto.

‘Sta’ zitta e ascolta’.

Lei taceva registrando mentalmente mozziconi di frasi deformate e storpiate intenzionalmente, nonostante ciò anche questo non aveva alcun peso e finalmente buttava all’aria tutto ciò che non le apparteneva, tutto ciò che rappresentava la sua vita fino a quel momento, o meglio fino all’attimo in cui per la prima volta aveva sentito distintamente quella voce:

‘Che cosa ci fai in questo luogo, precisamente qua nel mio territorio?’.

Lei si era spinta più lontano del solito nel parco all’imbrunire, perché aveva avuto bisogno di correre e le pareva di non toccare la terra con le scarpe da corsa, fasciata dentro quella tuta morbida e colorata rallentando e girandosi per indovinare i tratti di un’ombra appoggiata a un albero, mentre la sua mano afferrava il cellulare e il polpastrello individuando il tasto di soccorso sulla tastiera. Che cosa l’aveva al momento fermata? Lo stesso motivo che la spingeva ancora adesso cercando di rispondere con un sì, per chi non faceva che aggiungere una tacca dietro l’altra a ogni conquista, sì, una tacca, ecco che cos’era, perché giammai si era sentita più d’un segno sulla terra, considerato che ogni volta che lui la prendeva quell’incisione andava più a fondo, come se il suo sesso scavasse in lei una voragine da cui non sarebbe potuta risalire, o non avrebbe voluto, però era bello sprofondare là dentro abbandonandosi. Questa condizione se la ripeteva di continuo a occhi chiusi, nuotando nel buio delle palpebre. Il fatto è che effettivamente non lo puoi spiegare a nessuno né com’è né perché inizia. D’altra parte, l’aveva mai spiegato a se stessa? Perché si era fermata? Perché aveva deciso di mordere la paura? Perché lo aveva lasciato avvicinare? Non aveva risposte, se non la più ovvia. Lei lo rivedeva ancora quel sorriso impudente e strafottente, con la mano che flemmatica arrivava accanto a lei, saliva sul viso per scostarle una ciocca dalla fronte, neppure un passo indietro, nemmeno accennare una fuga, giacché c’è un momento per ogni cosa. Da troppo tempo discuteva litigando e opponendosi sul destino, vittime o artefici, una questione giammai seriosamente risolta e di colpo si era trovata nella situazione giusta, al momento però poteva benissimo scegliere, ovverosia scappare, gridare, divincolarsi e persino farsi uccidere, malgrado ciò lei aveva scelto continuando a portare avanti la sua scelta senza ripensamenti di sorta.

Lo scenario del parco allacciato dal fiume, una strada d’abbandonare in fretta mettendo distanza tra la vita di sempre e la propria, poi nient’altro, soltanto i tonfi leggeri della corsa sul viale, l’aria che entra nei polmoni, immagini confuse di alberi e di persone, fino a un là diverso di volta in volta, a sorpresa e sempre al medesimo posto: il suo ambiente, il suo territorio, senza discutere, con il suo ‘hallo’ improvviso come un segnale che delimita recintando uno spazio. Lo strofinio marcato sul viottolo delle foglie appassite, il frantumarsi delle frasche, il rotolare dei piccoli ciottoli, il cuore che si dilata nel vuoto della mente, le labbra che disegnano la gioia d’esistere, lì in quel momento e il freddo, mentre quel velo che avvolge facendo accapponare la pelle e che scioglie i nodi facendo slittare quella tuta ingombrante. In questi frangenti il pensiero libero e licenzioso vola sfrecciando nella scia del destino, come una sfumatura diversa nella foschia del cielo, poi soltanto l’incrocio di braccia e di gambe avviluppate, la ricerca di pelle e la certezza d’essere il gioco di qualcuno abile per divertirsi, qualcuno che segna il suo possesso con uno schizzo tiepido dentro di lei, mescolandolo a ciò che in lei dice sì, soltanto e senz’eccezione di sì, completandone in conclusione lo svariato e articolato mosaico.

Ogni volta lei lo guarda voltarsi e alla fine andarsene. Qualunque volta lo scruta, lo insegue e lo rincorre, sapendo che non lo raggiungerà, perché lo vedrà già lontano pronto a danneggiare sfregiando con la punta d’una lama il tronco d’un albero per ricordarle in maniera inappuntabile che cos’è per lui: un’incisione, una tacca, niente di più.

{Idraulico anno 1999} 

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