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Squadra che vince non si cambia

By 6 Settembre 2025No Comments

Il mercoledì possedeva una sua alchimia particolare, una sospensione amniotica tra l’inizio e il fine. Quel mercoledì, il cielo oltre le finestre era di un blu così intenso da sembrare finto, una tela dipinta con pigmenti puri. Io, raggomitolata sul divano in un pigiama di seta color lavanda—un secondo strato di pelle—assaporavo l’essenza distillata di quella solitudine. Giorgio, come ogni mercoledì, era al calcetto. Il silenzio della casa era un corpo vivo, interrotto solo dal mormorio dialogato di una commedia romantica che scorreva sullo schermo, un flusso che non richiedeva attenzione, solo presenza.
L’aria era un intreccio di profumi: il vapore dolce astringente della tisana alla camomilla e miele, l’odore pulito del legno che costituiva l’anima del salotto, e il sentore più intimo, carnale, della mia pelle appena lavata—vaniglia e fiori d’arancio che emanavano un calore basso, un’aura personale. Sentivo il tessuto morbido del divano sotto le gambe nude, il calore familiare della tazza tra le palme, un cerchio perfetto di pace.
Poi, il telefono vibrò sul cuscino accanto a me. Un tremito elettrico che incrinò l’incantesimo.
Un messaggio di Giorgio. «Abbiamo vinto il torneo. Io e i ragazzi abbiamo deciso di festeggiare. Raggiungici al campetto.»
Un sospiro mi sfuggì. Ero intorpidita, avvolta in quel bozzolo di calore. La prospettiva di uscire, di dovermi vestire, di affrontare l’aria notturna mi pesava addosso come un macigno. A malincuore, mi scrollai di dosso la sonnolenza e mi alzai, il legno del parquet che scricchiolò sotto le pantofole come un lamento.
Davanti all’armadio, la scelta fu automatica, un gesto del corpo che precedeva il pensiero. Un vestitino di jersey nero, semplice, anonimo nella sua essenzialità. Mi cadeva morbido sulle curve, fermandosi a metà coscia. Maniche corte, scollatura a barchetta. Sapevo come il tessuto si muovesse con me, una carezza continua. Un tocco di mascara, un velo di terra abbronzante, un filo di rossetto color rosso naturale—il minimo sindacale per non sembrare un fantasma. Niente intimo. L’idea di aggiungere strati mi parve una complicazione grottesca, superflua. Sentii solo il fresco sfiorare del jersey sulla pelle nuda, un contatto che mi fece sossultare..
I capelli, leggermente mossi, li lasciai cadere sulle spalle. Un nebulizzo di profumo ai polsi, dietro le orecchie: agrumi e pepe rosa, una nota acida e speziata che tagliava la vaniglia di base della mia pelle. Infilai le sneaker e uscii. L’aria della sera mi accarezzò le braccia nude, portando con sé il profumo dei tigli in fiore e dell’asfalto bagnato da un acquazzone recente—un odore di città pulita, di ossidiana bagnata.
Il campetto in periferia era un rettangolo di erba sintetica circondato da reti alte, un luogo desolato sotto il cielo notturno. Parcheggiai accanto al furgone di Giorgio. Il posto sembrava vuoto, abbandonato. Le luci al sodio spente, solo un lampione in lontananza che vomitava una luce giallastra sul parcheggio deserto. Un brivido di inquietudine mi percorse la spina dorsale. Forse erano già andati via? Estraii il telefono.
«Sono qui, non c’è nessuno» scrissi.
La risposta fu immediata, un fulmine digitale. «Entra nello spogliatoio. Siamo tutti qui.»
Lo spogliatoio. Un luogo pragmatico, di cemento e sudore. Esitai, un campanello d’allarme che suonava flebilmente in un angolo remoto della mente. Poi, lo ignorai.
Tirai la porta pesante.
L’aria che mi investì era calda, umida, satura di un profumo completamente diverso da quello che mi aspettavo. Non solo cloro e sudore, ma note calde di legno, muschio, e qualcosa di elettrico, animalesco. L’odore di corpi maschili caldi, appena lavati, ma ancora carichi dell’adrenalina della partita. E sotto, una nota speziata, un after shave che riconobbi come quello di Giorgio.
E poi, la vista.
La luce era fioca, proveniente da lampade fluorescenti sopra gli specchi. Giorgio era in piedi al centro, di spalle, avvolto in un asciugamano bianco annodato in vita. Attorno a lui, altri quattro uomini. Il primo, alto e muscoloso. Il secondo, mingherlino, occhi vispi. Il terzo, massiccio e peloso. L’ultimo, il più giovane, quasi imberbe. Tutti in asciugamano, tutti con gli occhi puntati su di me. Il silenzio era totale, rotto solo dal ronzio delle luci e dal martellio del mio cuore nelle orecchie.
Mi bloccai sulla soglia, il braccio ancora teso sulla maniglia. L’istinto urlava di retrocedere, ma le gambe non rispondevano. Giorgio si voltò. Il suo sorriso non era quello solito, aperto. Era diverso, più intenso, con una luce di complicità e possesso che non gli avevo mai visto. Si avvicinò, passi lenti, piedi nudi silenziosi sul cemento bagnato. Sentii il calore del suo corpo prima del contatto, l’odore del suo docciaschiuma fresco mescolato al cedro e zenzero del dopobarba.
«Il premio per la vittoria» sussurrò, la voce un basso profondo che mi fece vibrare le ossa, l’alito caldo sul collo. «Sei tu.»
Prima che potessi reagire, una fascia di velluto nero mi coprì gli occhi. Un’oscurità improvvisa, totale. Il mondo visivo si spense, e tutti gli altri sensi esplosero in un’iper-acuita sconcertante.
Il panico serrò la gola per un secondo, placato all’istante dalle sue labbra che trovarono la mia pelle. Iniziò a baciarmi il collo, lentamente, dalla clavicola all’orecchio. Baci leggeri, esplorativi, labbra calde e un po’ ruvide. La sua lingua tracciò un percorso umido lungo la carotide, sentendola pulsare sotto quel tocco. Le sue mani si posarono sui miei fianchi, ferme, rassicuranti e inamovibili.
Poi, il suono. Un fruscio di stoffa pesante e bagnata che cadeva a terra. Uno. Poi un altro. E ancora. Quattro tonfi sordi sul cemento umido. Quattro asciugamani che venivano lasciati cadere. Nella mia cecità, il suono era amplificato, esplicito, terribilmente evocativo. Lo stomaco si contorse in un nodo di eccitazione e paura. La mente, senza il controllo della vista, costruì immagini: corpi nudi, muscolosi, lucidi di doccia, eccitati. Il mio corpo reagì prima del consenso. Un calore improvviso, umido, fiorì tra le cosce. La clitoride, nuda e scoperta sotto il vestito, iniziò a pulsare con un ritmo insistente, un piccolo cuore impazzito. Il jersey nero aderì alla pelle, divenne un’estensione di essa, e proprio lì, il tessuto iniziò a inumidirsi, a diventare più pesante, più sensibile. Ero già bagnata, e non mi aveva ancora toccato nessuno.
«Giorgio…» sussurrai, la voce un filo di suono.
«Zitta» ordinò lui, dolcemente ma con fermezza, le dita che si strinsero appena sui miei fianchi. «Goditi il tuo premio.»
Sentii le presenze avvicinarsi. Il calore dei loro corpi creava un alone di energia elettrica intorno a me. Sentii il loro respiro, ognuno con un ritmo diverso—affannoso, profondo. Sentii odori diversi: muschio bianco , poi agrumato, poi sapone, e in fine una fragranza dolce, quasi adolescenziale.
Mani, diverse dalle sue, mi toccarono. Non brutalmente, ma con una curiosità timida e bramosa. Una mano callosa e grande sfiorò una spalla. Un’altra, più liscia, accarezzò un braccio. Poi le mani di Giorgio si mossero. Sentii lo scivolare della cerniera laterale del vestito. Uno zzzip che fu un tuono in quel silenzio carico. Il tessuto, prima aderente, si allentò. Il tessuto, prima aderente, si allentò. Le sue mani mi fecero scivolare le bretelle dalle spalle, e il vestito, di colpo senza sostegno, cadde ai miei piedi in un morbido ammasso di jersey nero.
Rimasi in piedi, al centro di quel cerchio di calore e respiri. Il senso di esposizione fu totale, vertiginoso. Volevo coprirmi e scoprirmi allo stesso tempo, e in quel conflitto, rimasi immobile, tremante.
Poi le bocche arrivarono. Non sapevo a chi appartenessero, e forse non importava. Una bocca, calda e umida, si chiuse intorno al capezzolo destro. Labbra piene, lingua abile. Succhiò con pressione decisa, la punta della lingua che giocava con la punta ipereccitata del seno, facendomi gemere un suono strozzato. Quasi contemporaneamente, un’altra bocca trovò il sinistro. Diversa, più sperimentale, più timida. Labbra più sottili, dita che sfioravano la pelle circostante. La dualità delle sensazioni mi fece perdere l’equilibrio. Giorgio, dietro, mi sostenne, il suo corpo solido e familiare, un punto di ancoraggio in quel mare di sensazioni sconosciute. Lui continuava a baciarmi il collo, le spalle, a sussurrare parole incomprensibili, un ronzio rassicurante.
Tutte le mie labbra, quelle della bocca socchiusa in un gemito, quelle del sesso, si aprirono, si offrirono. Sentii l’umido calore intensificarsi, divenire quasi un rivolo che cercava di scendere lungo l’interno delle cosce. Ero inzuppata di desiderio.
Poi, le mani si fecero più audaci. Dita sfiorarono il pube, il ventre, i glutei. Sentii qualcuno inginocchiarsi davanti a me. Il calore del suo corpo tra le mie gambe era un faro nell’oscurità. Mani forti mi aprirono le cosce con un gesto deciso. Non c’era resistenza in me, solo un tremore incontrollabile.
Una faccia si infilò tra le mie cosce. La sensazione fu immediata, travolgente. La pelle della guancia, liscia o con leggera barba, contro l’interno delle cosce. Poi, una lingua. Sconosciuta, ma esperta. Iniziò un’esplorazione lenta, meticolosa. Dall’esterno, leccando delicatamente le grandi labbra, gonfie e pulsanti. La sua punta tracciò ogni piega, ogni centimetro di pelle ipersensibile, come memorizzando una mappa del mio piacere. Larga, piatta, lasciava una scia di umidità fresca che evaporava all’istante, sostituita dal calore bruciante del mio sangue.
Poi la lingua si fece più insistente. Si infilò nella fessura, premendo, aprendomi. Sentii il naso premere contro il pube, il respiro caldo. Poi, trovò la clitoride. Il contatto fu elettrico. Un jolt di piacere puro mi percorse dalla testa ai piedi. La lingua non si ritrasse. Iniziò piccoli cerchi ritmati intorno al bottone sensibile, senza toccarlo direttamente, una tortura deliziosa. Ansimavo, i gemiti divennero un lamento continuo, le mani si aggrappavano alle braccia di Giorgio.
Nel frattempo, altre mani guidavano le mie. Sentii la pelle calda e liscia di un pene sfiorarmi il dorso. Poi un altro, più ruvido, con una vena prominente che pulsava. Senza bisogno di parole, le mie mani si chiusero intorno a loro. Il movimento fu istintivo, primordiale. Iniziai a masturbare quei peni. Sotto le dita, dimensioni diverse, texture differenti: liscio come velluto, ruvido, sottile, spesso. Sotto il tocco, la pelle divenne più tesa, calda, e una leggera umidità—il preludio del loro piacere—iniziò a bagnare i palmi.
Le gambe cedettero. Le ginocchia si piegarono. Giorgio se ne accorse.
«Inginocchiati» ordinò, voce roca.
Ubbidii, scivolando a terra. Il pavimento era freddo e umido sotto la pelle, un contrasto shockante col calore interno. Continuai il lavoro con le mani, ora con leva migliore, le dita che scivolavano su e giù con ritmo ipnotico. I peni erano vivi, pulsanti, rispondevano con piccole contrazioni.
Poi, davanti alla bocca, apparvero due nuove presenze. Calore, odore muschiato e intenso del sesso maschile. Uno sfiorò le labbra, untuoso di precum. Senza esitare, spalancai la bocca. Non un’invasione, un’offerta. Uno scivolò dentro, la punta che toccò il palato molle. Caldo, salato, pelle morbidissima. Iniziai a succhiarlo, la lingua che esplorava forma, consistenza, sapore. Contemporaneamente, l’altro pene, quello non in bocca, apparve davanti agli occhi bendati. Sentii il movimento dell’aria, il suono umido e ritmato di una mano che lo masturbava. Non capivo chi fosse, ero solo un fiume di sensazioni. Volevo solo di più.
Giorgio, dietro, alzò la posta. Mi piegò in avanti, cambiando l’angolazione del bacino. Sentii la punta del suo pene, familiare e straniante, cercare l’ingresso. Bagnato del mio stesso liquido. Con una spinta delicata ma risoluta, entrò. Nessuna resistenza, ero accogliente. La sua penetrazione fu un’azione di possesso, di conferma. Lui era lì, al centro di tutto, colui che donava e possedeva.
L’uomo che si masturbava davanti a me, approfittando della posizione, si chinò. Dita abili trovarono la clitoride e iniziarono a massaggiarla con movimenti circolari precisi, sincronizzati con le spinte di Giorgio.
Ero scopata in ogni buco disponibile. Bocca, vagina, mani, clitoride. Il ritmo era ipnotico, crescente, come se tutti i buchi volessero incontrarsi in un unico punto di piacere al centro del mio essere.
Iniziai a “conoscerli” attraverso tatto, sapore, suono del respiro. Uno in bocca era particolarmente lungo, toccava in fondo alla gola. Uno in mano era durissimo, come marmo riscaldato. Alcune dimensioni eccitavano follemente, altre deludevano un po’, ma anche quella delusione era parte del gioco, del brivido dell’ignoto.
Poi Giorgio cambiò tattica. Mi prese per la nuca, con decisione, e mi spinse in avanti, uscendo da me e costringendomi a inarcare la schiena, offrendo il culo all’aria. La perdita fu uno shock, sostituito da una sensazione nuova.
Una lingua, caldissima e ruvida, iniziò a esplorare un territorio vergine: l’ano. Sensazione intensa, strana. La lingua insistente, curiosa, voleva entrare. Passava e ripassava sul piccolo nodo muscolare, che stranamente apprezzava, rispondendo aprendosi e chiudendosi a ogni passata. Un brivido di piacere proibito. Poi, senza preavviso, un dito bagnato sostituì la lingua ed entrò.
Una scarica elettrica. Dolore leggero trasformato in piacere acuto, tagliente, che mi fece urlare nel pene in bocca. Poi le dita diventarono due, muovendosi avanti e indietro con movimento rotatorio abile, esperto, che allargava e stimolava in modi incredibili. Il piacere cancellò ogni dubbio. Chissenefrega, pensai, e mi abbandonai.
Il corpo era un’unica, enorme zona erogena. Capezzoli liberi, duri, sfregano contro l’aria. Clitoride un piccolo sole infuocato. Vulva vuota, palpitante, pronta. Ano con sensibilità mai provata. Giulia, goditela, mi dissi. E così feci. Mi persi.
Fu Giorgio a fermare le danze. «Bene ragazzi, Giulia è un lago» dichiarò, voce roca e soddisfatta. «È ora di fare sul serio!»
Mi prese per i fianchi, affondando le dita nella carne, e mi fece sedere sul suo bacino. Posizione intima, dominante. Sentii la punta del suo pene premere non sulla vagina, ma su quell’altro ingresso, ora preparato, sensibile. Con lenta, inesorabile pressione, entrò. Nessun dolore, solo pienezza totale, assoluta. Scivolò dentro con facilità incredibile. E iniziò a muoversi, lubrificato dai miei succhi.
Poi mi tirò ancora più indietro, contro il suo petto, obbligandomi ad alzare e divaricare le gambe, offrendo la vulva nuda e pulsante. Un’offerta, un invito.
Poi si scatenò l’inferno. O il paradiso.
Uno degli uomini si inginocchiò tra le gambe di Giorgio, davanti a me. Mani sulle cosce, mi aprì ancora. La punta del suo pene, enorme, cercò e trovò l’ingresso della vagina. Penetrazione lenta, profonda, riempiendo uno spazio che credevo saturo. Iniziò a muoversi. I due peni, uno nell’ano e uno nella vagina, iniziarono un balletto perfetto. Quando uno entrava, l’altro usciva. Ritmo ipnotico, sensazione di essere riempita in modo completo, al limite del sopportabile.
La mascherina, con i movimenti, si spostò. Riuscii a intravedere, dal basso, tra il seno oscillante, un membro scuro che entrava e usciva, lucido dei miei fluidi. Poi alzai lo sguardo, e vidi il viso dell’uomo. Occhi chiusi, bocca semiaperta in una smorfia di piacere concentrato. In quel contesto di lussuria, mi parve bellissimo.

Due dita callose mi presero il mento e girarono il viso. Poi, quelle dita si insinuarono nella mia bocca. Spingevano, andavano in profondità, esplorando la gola, un gesto di dominazione pura. Iniziai a sbavare, saliva che colava dal mento, giù per il collo, unendosi a sudore e succhi. Il corpo era un disastro bagnato e glorioso.
Mentre la bocca era costretta aperta, un terzo pene la invase. Invasione, non offerta. Punta in fondo alla gola, testicoli pesanti sul mento bagnato. Mi piacque. Mi piacque la mancanza di controllo, la sensazione di essere usata, piena. L’uomo iniziò a penetrarmi la bocca. Un pene in ogni buco.

Le mie mani, aggrappate alle cosce di Giorgio, vennero sollevate. Le dita, per riflesso, si chiusero intorno ai due peni rimanenti. Quindi: Giorgio nell’ano, uno in vagina, un altro in bocca, e gli altri due nelle mie mani. Cinque peni. Cinque uomini. Tutti su di me, in me, intorno a me. La carica sessuale cresceva in modo esponenziale, una stella prima della supernova. Chiusi gli occhi, abbandonai ogni pensiero e mi lasciai pervadere, trasportare, distruggere.
Poco dopo, una voce dalla mia mano sinistra spezzò il silenzio di gemiti e respiri.
«È il mio turno!» tuonò. .
Riacquistai un barlume di lucidità. Pensai che cambiare quell’equilibrio perfetto avrebbe rotto tutto, impedito l’apice. Poi, con l’efficienza di un pit stop, gli uomini si scambiarono. Mi ritrovai a cavalcioni di uno, ginocchia sul pavimento freddo, il suo pene dentro la vagina. Niente di eccezionale, onestamente, dopo le dimensioni precedente, ma faceva il suo lavoro. Da quello che sentivo, doveva essere proprio l’uomo della mia mano sinistra.Iniziai a muovermi avanti e indietro, sfregando la clitoride sul suo pube peloso, cercando di ritrovare quel picco di piacere. In quel momento, anche un po’ delusa, pensai che forse lo spettacolo sarebbe finito lì, ridotto a un semplice amplesso. Convinta di dover fare da sola, iniziai a muovere il bacino sempre più velocemente, cercando disperatamente di raggiungere l’orgasmo. La mia clitoride stava rispondendo, stavo per raggiungere il culmine, ma…

Due mani possenti mi cinsero la vita, fermandomi. In quel momento, odiai chiunque fosse. Stavo per esplodere. Poi, una di quelle mani si spostò sulla nuca, spingendomi in avanti, verso il petto dell’uomo davanti. L’ano, ormai esperto, sapeva. Si rilassò, si aprì. L’uomo non si fece attendere. Con un colpo secco, preciso, entrò. Ansimai per il piacere misto a dolore lancinante ma brevissimo. Dalle dimensioni, era l’uomo della mano destra. Penetrazione diversa, più angolata, più profonda.
Mentre sentivo il rumore umido della sua pelle sul mio sedere, abbandonai ogni preoccupazione. Il pene enorme nel retto, in qualche modo, stringeva il canale vaginale, facendomi sentire di più il pene di davanti. Doppia stimolazione amplificata. Gratitudine intensa per la sua taglia generosa.
D’un tratto, un pene si infilò in bocca. Lo riconobbi subito, era quello di Giorgio. Amico di tante avventure. Cominciò a muoversi avanti e indietro, come un pistone.
Poi con un colpo secco, mi staccò la mascherina. La luce fioca mi abbagliò. Con la coda dell’occhio, vidi due uomini che si masturbavano, godendo della scena. Vederli mi eccitava ancora di più.
Poi, un getto di liquido caldo e denso mi colpì alle scapole. Poi un altro. Sperma che iniziò a scendere lungo la schiena, caldo e viscoso, segnando la pelle come un dipinto astratto di possesso. Fuori uno, pensai.
Poi, vidi. Il secondo uomo, quello che si stava masturbando con un ritmo concentrato e febbrile, si bloccò all’improvviso. Rimase immobile per alcuni secondi, il corpo teso in una sospensione innaturale, come una molla compressa che trattenesse il respiro dell’universo. Un attimo di silenzio carico, d’attesa primordiale. Non capivo. La mia mente, già sovraccarica di sensazioni, faticava a decifrare quella pausa carica di intenti.
Poi, si mosse. Avvicinò il suo pene alla mia guancia, un movimento lento e deliberato. Il calore emanava dalla sua pelle, un’offerta muta e confusa. Io rimasi lì, incapace di reagire, il mio mondo ridotto al peso familiare del pene di Giorgio nella mia bocca, un ancoraggio umido e salato a cui mi aggrappavo disperatamente. Non capivo cosa volesse da me, e l’idea di mollare la mia presa su Giorgio mi sembrava un abisso impossibile.
“Masturbalo!” ringhiò Giorgio, la sua voce roca che si incuneò nel groviglio dei miei pensieri come un coltello.
Fu un comando che bypassò completamente ogni circuito razionale. La mia mano si mosse ancora prima che il mio cervello potesse anche solo iniziare a elaborare quelle due sillabe. Si protese, quasi autonoma, e afferrò quel pene a pochi centimetri dal mio viso. Era caldo, vivo, e aveva un odore diverso, più acre e muschiato, un profumo di foresta e di segreto e anche di me. La mia mano cominciò a muoversi con un movimento ondulatorio, istintivo, un ritmo che sembrava nascere da un ricordo ancestrale. Sotto le mie dita, sentii crescere, pulsare, diventare più duro e imponente. Era un bel pene, un’arma perfetta e splendida nella sua tensione.
Senza che io ne avessi coscienza, la mia mano si era sincronizzata con l’andirivieni nell’ano: quando spingeva in dentro, la mia mano saliva lungo l’asta; quando si ritraeva, la mia scendeva verso il pube. Era un meccanismo perfetto e osceno, un orologio di carne e desiderio.
I peni sotto di me, quello in vagina e quello nel culo, cambiarono ritmo insieme, il loro respiro che diventava più affannoso, più urgente. E anch’io cambiai ritmo con la mano, accelerando, stringendo di più. Qualche gocciolina del suo liquido precoce, trasparente e viscosa, mi schizzò sulla guancia. Era un avvertimento, un assaggio di pioggia prima del temporale, un messaggio tattile che quel pene stava per esplodere.
Neanche il tempo di formare un pensiero compiuto, che accadde. Un’esplosione calda e improvvisa, un geyser di crema bianca e densa, mi coprì mezzo volto. Schizzi mi raggiunsero la tempia, l’angolo degli occhi, la curva delle labbra, mescolandosi con i sapori di Giorgio. Il suo corpo fu scosso da un ultimo, violento tremito, mentre la mia mano, ancora stretta a lui, continuava a pompare lentamente, estraendo le ultime, convulse pulsazioni di piacere. Il silenzio che seguì fu rotto solo dal respiro affannoso di tutti e tre e dall’odore acre e dolciastro dello sperma che mi avvolgeva.
Fuori due! apparve in un angolino remoto della mia mente, poi il pensiero: ma io?!?

Alzai il viso pieno di lacrime, sperma e mascara e incontrai gli occhi di Giorgio mentre mi penetrava la bocca sempre con più decisione. Sorriso dolce ma malizioso, fiero, possessivo. Quello sguardo mi fece scattare un fuoco nell’utero, una palla di piacere che iniziò a espandersi. Formicolio ai piedi. Iniziai a muovermi con più foga, cercando di incorporare più carne possibile, di sentire tutto.

Poi, l’illuminazione. Un lampo carnale che tagliò attraverso la nebbia del desiderio. Non fu un pensiero, ma un impulso puro, un’urgenza che partiva dai nervi scoperti e risaliva al cervello. Posai le mie mani sulle natiche di Giorgio, sentendo sotto i palmi la tensione granitica dei suoi glutei contratti nello sforzo. Con una spinta decisa, lo incastrai ancora più profondamente dentro di me, un gesto di possesso che provocò un gemito strozzato, sia mio che suo, un suono unico e condiviso.
Mentre il mio corpo si adattava a quella nuova, vertiginosa profondità, la mia mano destra intraprese una sua esplorazione. L’indice, umido di sudore e di altro, discese lungo il solco caldo che divideva le sue natiche, cercando il centro nascosto di tutto quel fremito. Trovò la sua meta, un cerchio di muscolo incredibilmente tenero e accogliente. Iniziò a giocarci, prima con una pressione circolare, delicata, poi cercando l’ingresso.
Contemporaneamente, l’altra mano abbandonò la presa sui suoi fianchi e si insinuò su quel sacchetto che continuava a sbattere sul mio mento. Si posò sullo scalo pesante e contratto dei suoi testicoli, avvolgendoli in una stretta possessiva. Le dita iniziarono un massaggio lento e libidinoso, un rotolio sapiente che conosceva il potere di quel tocco.
Il mio dito, intanto, superò la resistenza iniziale—che fu più un sussulto di sorpresa che una vera opposizione—e scivolò dentro di lui. Il suo ano, un cerchio di fuoco incredibilmente caldo, si serrò per un attimo attorno al mio dito per poi adattarsi, avvolgerlo, accoglierlo in una stretta viscosa e pulsante. Era un calore che risucchiava, un silenzioso assenso gridato attraverso la carne.
Iniziai un movimento lento, dentro e fuori, una contro-melodia perfetta al ritmo principale che lui dettava. Il suo corpo rispose con un tremito incontrollabile, un arco della schiena che era al contempo un’offerta e una resa. Il suo respiro, già affannoso, si frantumò in rantoli spezzati. Ero ovunque su di lui: dentro di lui, sotto di lui, attorno a lui. Una dominazione totale, un gioco di potere ribaltato nel modo più intimo e devastante. Il piacere non era più solo una sensazione, ma un circuito chiuso, un’energia che scorreva da un corpo all’altro in un loop infinito e perfetto.
Ma il gioco durò solo pochi minuti.

Il pene di Giorgio in bocca iniziò a pulsare, un tamburo primordiale che batteva un ritmo incontrollabile contro la mia lingua. Ogni pulsazione era un’onda sismica che preannunciava la fine. Lui chiuse gli occhi, la sua espressione—sempre così controllata—si contrasse in una smorfia di pura estasi, un dolore così dolce da sembrare una preghiera.
Il mio dito, ancora sepolto nel calore del suo ano, si immobilizzò, bloccato dalla contrazione improvvisa e potente dei suoi muscoli interni. Era come se tutto il suo corpo, in quell’istante supremo, si stringesse intorno a me, cercando un ultimo, disperato ancoraggio alla realtà.
Poi venne un ultimo, profondo gemito, un suono strappato dal fondo dei polmoni che sembrò svuotarlo di ogni aria. E seguì l’esplosione.
Un primo colpo caldo e denso mi colpì il palato, seguito immediatamente da un secondo, più potente, che mi riempì la cavità orale del suo sapore salato e muschiato. Un terzo, e ultimo, scosse l’asta tra le mie labbra mentre io, ormai totalmente sua, accoglievo ogni singola pulsazione.
Inghiottii senza pensarci, un riflesso primitivo che mescolò il suo seme alla mia saliva. Poi, la lingua mi scivolò automaticamente sulle labbra, un gesto per pulirle che invece non fece che mescolare ancora di più i sapori: il seme fresco di Giorgio si fuse con le tracce essiccate dello sconosciuto ancora sulla mia guancia, il salato con il salato, l’intimità con il tradimento. Era il sapore familiare di Giorgio, quello che conoscevo da anni, che si mescolava all’elettricità sporca e proibita di tutta la serata, creando un cocktail indelebile sulla mia pelle e nella mia memoria.

Ma non fu quello ad accendere la miccia dell’orgasmo. Fu quello che successe un attimo dopo. Giorgio, fissandomi negli occhi con un’intensità che perforava l’anima—possessione totale e vulnerabilità abissale—mi baciò.
Non un bacio qualsiasi. Sapore di terra dopo la pioggia, di rame, di sale. Le labbra non premevano: esploravano, reclamavano, saccheggiavano. La lingua non si insinuava: si stabiliva come un conquistatore, tracciando mappe di desiderio.
E fu allora. Un tornado dentro di me, un vortice di sensazioni mai immaginate. Le fondamenta del autocontrollo crollarono. Calore brutale dalle viscere alla gola, soffocante, delizioso, spaventoso. Il corpo cominciò a muoversi secondo una musica sua, ancestrale.
Inarcai la schiena all’indietro in una curva pronunciata. Scapole contro il petto dell’uomo dietro, unghie artigliarono la pelle sudata. Un suono gutturale, animale, uscì dalla gola. Non un grido, non un gemito: l’esplosione acustica di un’anima che si frantuma in puro piacere. Urlai. L’orgasmo durò una decina di secondi, un’eternità distillata. Il mondo cessò di esistere. Solo il piacere, un fiume in piena. Il pene nella vagina si paralizzò, impaurito dalle contrazioni violente. Poi pulsò, infinite volte, riempiendomi di calore liquido che sembrava non finire mai. Mi accasciai sul suo petto.
Lo estrasse mezzo molle (voto 5, pensai in un angolino remoto, ma chissenefrega) e sentii il seme caldo che immediatamente iniziò a colarmi dalla vulva, viscido e eccitante.

Ma il vero spettacolo stava per iniziare ora. Il pene anale, vedendo e sentendo, si rinvigorì. Sciolto dalla catena, l’uomo mi afferrò i capelli con forza, tirando indietro la nuca. I colpi divennero più decisi, profondi, invasivi. Ogni affondo sembrava spezzarmi, ma non provavo dolore, solo piacere così intenso da confondersi con l’agonia. Le vibrazioni delle natiche colpite facevano vibrare la clitoride. Il rumore della nostra carne era osceno, umido, primitivo.
Qualcosa di nuovo nacque dentro, un mostro di piacere. Calore viscerale. Brivido lungo la spina dorsale. Scosse elettriche partirono dall’ano—quel buco tabù—e si diffusero verso le estremità, come se il sistema nervoso si fosse riconnesso lì. Le dita, autonomamente, mossero verso la clitoride, che pulsava doloroso. Lo sfiorai, timorosa che facesse male. Invece no. Esigeva. Iniziai a strofinare, prima leggero, poi deciso, veloce. L’ano passò in secondo piano, solo il punto di origine di un piacere che mi avvolgeva completamente.
Abbandonai ogni pensiero.
Poi la luce si spense o io credevo. Bagliori come lampi invasero gli occhi chiusi, forme geometriche di colori impossibili. Poi eccolo, l’orgasmo della vita. Quello che capita poche volte, se sei fortunata. Quello per cui si rischia tutto.

Esplosione.

Irrigidii ogni parte del corpo. Strinsi l’ano in contrazione spasmodica, sentendo ancora di più il pene che martellava. Il grido fu soffocato, un rantolo strozzato. Il mondo perse i contorni, dissolvendosi in biancore accecante.
Mi accasciai nuovamente sul petto dell’uomo davanti, esausta, felice, soddisfatta oltre le parole. Corpo peso morto, ogni cellula vibrava ancora. Il pene anale continuava, ma ero al di là del piacere, in uno stato di grazia post-orgasmica.
Poi un sussulto, un gemito rauco dell’uomo dietro, e venne, riempiendo l’ultimo buco con un getto caldo come un fiume in piena.
Dopo un’eternità, mi alzai, gambe che tremavano così forte da dovermi appoggiare al muro. Cercai Giorgio con lo sguardo. Lo vidi in un angolo, che mi osservava con un’espressione indecifrabile: orgoglio? possesso? amore? Forse tutto.
Lo abbracciai forte, sentendo le costole, e seppellii il viso nel collo, quasi piangendo. Lui non disse nulla. Mi accarezzò i capelli, poi mi sollevò il mento con un dito e mi baciò. Bacio dolce, tenero, casto dopo la violenza.
«Andiamo a casa!» disse, voce roca per l’emozione. Mi aiutò a rivestirmi, con delicatezza che contrastava la brutalità. Non mi permise di pulirmi, come se volesse che la serata si impregnasse dentro, che il ricordo mi accompagnasse.
Mentre uscivamo, il mio passo incerto, il suo braccio a sostenermi, sentii ancora il seme caldo che mi colava lungo le cosce, un promemoria segreto. E sebbene il corpo fosse esausto, l’anima era finalmente in pace, sazia in modo che non credevo possibile.

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