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Erotici Racconti

Svanire in segretezza

By 15 Giugno 2017Febbraio 3rd, 2023No Comments

A volte ripenso meticolosamente a quel giorno quando non ho più resistito e t’ho guardato a lungo negli occhi senza pudore perseverando, fino a quando anche tu non hai potuto fare a meno di notarmi, chissà. Se non fossi stata dietro a quel bancone, affaccendata nel prepararti il cappuccino con tanta schiuma e un cuore di cacao, forse per quell’insistenza tu m’avresti considerato e in ultimo valutato per una di quelle che cercano clienti già di buon’ora. Se non io t’avessi guardato in maniera così bizzarra, curiosa e indiscreta, probabilmente senza batter ciglio, ti saresti preoccupato di saldare la tua ordinazione come generalmente hai sempre effettuato, come quando varcasti la soglia della caffetteria senza nemmeno accorgerti né considerare quel color vermiglio fulgente della mia chioma, quella stessa capigliatura che attualmente impugni e che comprimi con foga e con veemenza quando mi baci le labbra, mentre l’altra s’attarda con cautela sul seno e i miei fluidi m’infuocano dentro in modo silenzioso ma appassionato, assestante e vibrante. Divertente e spassoso aggiungerei poi, ripensare alla maniera affabile e pure bonaria del tuo imbarazzo quando mi chiedesti il nome:

‘Sweet Princess’ – ti risposi io in modo spiccio, annunciandolo peraltro in modo entusiasta e giubilante.

Tu in quell’occasione sorridesti, dato che ancora io non sapevo quale fosse il tuo nome, nondimeno già qualche tempo fa anelavo perseguendo l’occasione d’intraprendere il dialogo con te, poiché nel momento che tu alla fine sbucavi dalla caffetteria dopo aver scartabellato i rotocalchi quotidiani, io restavo lì a vagare con la fantasia su che cosa sarebbe potuto a ragion veduta e nel modo adatto accadere, se io t’avessi inaspettatamente chiesto di darmi una mano per spostare qualcosa nel retro, perché io da sola francamente non ce l’avrei fatta, magari una volta lontani e separati da occhi indiscreti, chissà. Queste qua, sono sennonché solamente fantasie e visioni, nient’altro che invenzioni meditate e tramate per mesi, giacché io ho farneticato e vaneggiato sulle tue mani e sul calore del tuo abbraccio, per il fatto che tutte le sante mattinate tu ti sei addentrato qui per ordinare il caffellatte assieme alla tua brioche preferita alle mele, ogni qualvolta ti sei seduto soltanto il tempo di sfogliare il giornale, attardandoti un giorno sulle notizie dagli esteri e un altro sulla cronaca locale del quotidiano lì a tua disposizione. 

Ogni volta, però, io osservavo diligentemente che tu pagavi e uscivi senza sollevare lo sguardo. Io non so esattamente che cosa mi sia capitato quella mattina, mentre fuori pioveva in maniera abbondante, però ricordo soltanto che dopo aver stretto gli occhi a modo di fessura e arrochito un poco la voce io mi piegai nettamente verso di te, mentre tu eri seduto al tavolino accanto alla finestra, dal momento che scrutavi il passeggio là di fuori all’esterno e proprio lì io ti sussurrai:

‘Vorrei avviarmi e sparire da qui, m’impegno con serietà e giuro che non lo rifarei più’.

‘Che cosa esattamente non rifarebbe più? – mi chiedesti tu.

‘Rifiutare il sesso a Simone’ esordii in modo categorico e chiaro.

Tu sennonché ti vergognasti con leggerezza arrossendo, successivamente alleggerito l’imbarazzo, ispezionando rovistasti all’interno della giubba e m’allungasti in modo cortese il tuo personale cartoncino da visita, Lorenzo era il tuo nome. Io non potevo crederci né immaginarlo, quello era in realtà il nome che io avevo sempre sognato, allora scoppiai a ridere e tu mi guardasti disorientato e per di più incredulo, perché giammai avrei immaginato che quella mia audacia e quella sfrontatezza m’avrebbe condotto in conclusione nel retro, chinata o sul dorso a seconda dei momenti, a combinare e a mescolare fervore e fatica, tocchi vari e labbra vogliose, artigli e zanne in un amplesso e in una stretta che con un impeto e con una veemenza tale mi disorienta, m’ingarbuglia e mi stordisce ogni mattina prima dell’apertura del bar ai clienti, che tra l’altro all’oscuro e inconsapevoli proseguono a ordinare le loro prime colazioni in modo ripetitivo prima d’affrontare la giornata.

Sweet Princess, chissà se ti chiami veramente così, dato che ormai è da tempo che me lo chiedo, visto che sembra più un nome d’arte come nelle stanze delle chat, di quelle donne solitarie, un po’ altezzose e superbe che nascondono una femminilità complicata, incasinata e a tratti alquanto macchinosa. Sì, io ce l’ho con te, dato che è per colpa tua, perché sei andata via questa mattina, visto che era ancora buio senza fare rumore, dal momento che adesso che sono in ufficio ricevo una tua mail. Hai preso la tua roba sparsa accanto al letto, ti sei vestita senza respirare e sei uscita mentre dormivo ancora, per il fatto che non è stato per niente facile svegliarsi e sentire che il calore della tua presenza dal momento che era diventato un’assenza, nient’altro che tante piccole e confuse tracce di te perse per la casa. 

I teli, infatti, sono ben impregnati della tua essenza odorosa, quell’identico profumo aristocratico, blasonato e delicato che si era appiccicato alla scodella del caffellatte la prima volta che ci siamo incontrati, ricordi? Io ero di fretta e sono entrato nel tuo bar, perché dovevo vedermi con un collega di lavoro, poi mi sono guardato attorno nervoso e quando ho visto che non c’era me ne stavo quasi andando, ma poi ho sentito la tua voce allegra e gioviale chiedermi che cosa potesse servirmi. Io non t’ho quasi guardato, ero arrabbiato e avevo la mano che premeva contro la maniglia della porta, non so ancora il perché, eppure sono rimasto, mi sono avvicinato al banco e t’ho chiesto un cappuccino, poche parole, sì, qualche occhiata certo, perché volevo andare via e rimanere, ignorarti e pure parlarti. Io non ero mai entrato prima nel tuo locale, esageratamente distante relativamente alla mia filiale, assai occultato tra i fabbricati del centro della città e poi io non bevo abitualmente il caffè tranne che in compagnia, ma unicamente per assolvere e per onorare in maniera adeguata quegli usuali rituali di quelle opache e scialbe frequentazioni tra i colleghi. Ebbene sì, io sono abitudinario e noioso, a volte anche un po’ arrogante e immodesto, eppure sono fatto così e mi compiaccio di non essere diverso. Per tornare al nostro primo incontro, ti confesso che io non so come sia accaduto, però sono ritornato più volte nel tuo locale per ignorarti di proposito, con quella tipica disaffezione e indifferenza di chi vuol mettere bene in chiaro l’occasionalità della propria presenza.

Tu rimanevi al di là del mio mondo, scrupolosamente circoscritto da un bancone al cui vertice poggiava fumante l’unica giustificazione che mi portasse da quelle parti. La tazza aveva un profumo leggero ed eccitante lasciato dalle tue mani delicate che guardavo di nascosto, mentre fingevo di leggere il giornale e neanche m’accorgevo che i titoli scorrevano senza significato. Sì, è vero, lo ammetto: un giorno io t’ho chiesto come ti chiamavi, così, distrattamente, come se non m’importasse veramente d’ascoltare la tua risposta, in quanto ho il sospetto che tu sapessi già che mi chiamavo Lorenzo, vero? E quando hai aperto lentamente la bocca, la tua lingua si è incuneata tra i denti candidi per sospirare un nome che sembrava già un sussurro, Sweet Princess per l’appunto. 

In quel momento ho sentito un brivido caldo colarmi lungo la schiena e mi sono dovuto poggiare al tavolino, in quanto le tue labbra rosse e carnose si muovevano ipnotiche, per scandire un ritmo lento che s’intercalava e si frapponeva con la musica della radio che tenevi nascosta dietro il banco. Io non ho saputo fare altro che sorridere, toccarmi impacciato le tasche della giacca e darti il mio stupido biglietto da visita, mentre avrei voluto avvicinarmi a te per sfiorare la pelle chiara del tuo viso allegro, fino a scendere con le dita lungo il collo, nascosto dai tuoi splendidi capelli rossi, poi ti ho toccato la mano e nulla è stato più come prima. In questo preciso momento quei ricordi mi sembrano così lontani e nostalgici, perché penso, sogno e desidero di toccarti ancora, sennonché poi m’accorgo della desolazione e della tristezza d’un letto vuoto. Accanto al comodino, steso mollemente per terra, c’è un piccolo trofeo abbandonato che mi parla di te, dei tuoi gusti, della tua personalità, perché si tratta delle tue mutandine eleganti e nere ancora arrotolate dalla passione della notte appena trascorsa, perché anche quest’indumento odora di te in maniera esagerata, intollerabile e smodata. Dove sei? Mentre prima ti trovavi tra le lenzuola calde ancora aggrovigliate tra le mie gambe, adesso sarai dietro il bancone a godere della libertà d’indossare una gonna senza mutande. Ti odio, perché m’accorgo di non sapere fare a meno di te, ti detesto perché non so nulla di te, eppure non posso dimenticare né tralasciare il momento in cui al bar dopo innumerevoli frequentazioni sempre meno occasionali, ho superato quel bancone per la prima volta. 

Tu non mi guardavi, io ero sempre più vicino, fino a quando i nostri respiri si sono mescolati, fino a quando io t’ho spinto dolcemente al muro per guardarti quegli occhi chiari come il cielo, per avvicinare le mie labbra alle tue e spingere delicatamente la lingua dentro la tua bocca. Ricordo ancora perfettamente che, come questa notte, le mie mani avevano cominciato a scendere giù lungo le pieghe del tuo vestito per cercare un varco per sfiorare la tua carne, per toccarla e per stringerla. Tu mi dicevi di stare attento, perché poteva entrare qualche cliente, io t’ho preso in braccio per portati nel retro, poi ho strappato i bottoni del tuo grembiule e mi sono insinuato tra i tuoi seni grandi e sodi. Tu m’hai lasciato placidamente fare, per poi fingere di respingermi e di cacciarmi lontano da te, tuttavia non avevi la forza, dato che il palmo della tua mano si è fermato sul mio petto quasi a voler sentire il cuore che mi batteva velocemente, così mentre stavi diventando mia ti sei appoggiata dolcemente alla mia spalla ansimando sempre di più, perché le mie mani imparavano a conoscere le tue curve. Tu ti negavi issando il dorso, affinché io potessi agevolmente imbottirmi dei tue sode chiappe, ragion d’essere proprio in quella speciale ricorrenza io t’ho strappato di dosso gli slip e i collant, mentre il tuo rossetto mi lasciava tracce tangibili sul collo, sulle braccia e sul petto. 

Tu hai aperto la bocca smettendo di respirare quando io ti ho toccato il pube coperto da un ciuffo caldo e morbido che mi ha fatto scivolare la mano più giù fin dentro di te, fino a quando ci siamo trovati per terra nudi in mezzo ai nostri vestiti. Lì io t’ho allargato le braccia, poi le gambe e sono sceso con la lingua fino all’ombelico, tu rabbrividivi, io t’ho stretto più forte a me fino a quando un fuoco umido m’ha fatto capire che stavo spingendo con forza dentro di te. Non so come né per quanto tempo, successivamente ci siamo rivestiti con una punta d’imbarazzo e con uno stupido sorriso stampato tra le labbra, dopo io t’ho morsicato la punta del capezzolo e t’ho infilato lentamente le mutandine, fino a quando il pelo rosso non si è nascosto timidamente dietro il pizzo nero.

Quel giorno sei stata interamente mia e da allora vai e vieni nella mia vita, di continuo, con la golosità e la squisitezza della passione che pretende e reclama d’essere appagata, per poi scomparire ed eclissarsi in silenzio nel buio pesto della notte. Adesso però che non ci sei più, già ti detesto. 

{Idraulico anno 1999} 

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