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Erotici Racconti

Vostro, non più mio

By 16 Marzo 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

Gentili signori della giuria, avete mai avuto la sensazione di non essere completamente appagati?
Quel sottile senso di insoddisfazione che si insinua fastidiosamente quando avete appena raggiunto uno dei vostri traguardi, ottenuto ciò per cui avete tanto sudato o toccato ciò che avete sempre desiderato.
“L’essere umano non è mai completamente soddisfatto”, potrete rispondermi voi, con la saccenza di chi, dall’alto, crede che tutto ciò che siamo possa essere inquadrato e classificato in schemi e tabelle, mediche, psichiatriche, psicologiche, sociologiche, antropologiche.
E’ vero, avrei anche io risposto così, e lo avrei fatto con estrema sicurezza, con superbia, quasi. Vi avrei guardato, alzato il mento e con espressione di superiorità di avrei detto “E’ normale, fa parte della psiche umana”.
Vi avrei risposto così.
Adesso, non posso. Nè voglio.
Dimenticato il classificabile, cancellato la parola “normalità”. Perchè se mi guardo, adesso, vedo tutto, fuorchè la “normalità”. Eppure lo sono, conduco una vita assolutamente normale, anzi, sono più “normale” di qualche giorno fa.
Quante volte ho usato la parola “normalità” nelle ultime due righe? Troppe, meno di quante ero solita usarne in passato, molte meno di quanto voi, signori della giuria, lo facciate riferendovi a persone identiche a voi, che parlano la vostra stessa lingua, che guardano il mondo coi vostri stessi occhi.
Rivalutate il concetto.
“Che cos’è un matto? Vi risponderò senza giri di parole. Follia è l’incapacità di comunicare le tue idee. E’ come se fossi in un paese straniero: vedi tutto, comprendi tutto quello che succede intorno a te, ma sei incapace di spiegarti e di essere aiutata, perchè non capisci la lingua”. (Coelho, “Veronika decide di morire”).
Pensate alla prospettiva. Chi è lo straniero, tra di noi? Voi o me? O entrambi? O nessuno?
La differenza tra me e voi, e tra la Me di adesso e la Me di qualche tempo fa, è la capacità di sentire, inteso come provare qualunque tipo di emozione, senza giudicare, me in primis, gli altri, di conseguenza. Mi sono appena addentrata in questo abisso, una dimensione nuova per me, ho visto e sentito, aspetti che mai avrei pensato potermi appartenere.
Ho goduto nello scoprirmi apolide, non parlare alcuna particolare lingua, non appartenere ad alcun particolare stato, ma APPARTENERE.
Iniziare a farlo, a gioirne, a sentirmi, finalmente, pienamente soddisfatta, nelle “piccole cose”, provare a parlare una lingua diversa, appunto. Non la mia, quella del mio padrone.

“Padrone”, proprietario, dominatore, possessore, colui che dispone e decide. In quanto padrone io dovrei essere “schiava”, colei che vive in una condizione di asservimento, priva di ogni diritto, priva della propria libertà, sotto l’arbitrio di un altra persona.
Ma anche li, definizioni da dizionario, classificate, catalogate in ordine alfabetico e “incatenate” in concetti al fine di essere comprensibili ai più. Non è certo quello che io stò vivendo, nonostante il “gioco” cui stò giocando preveda questi distinti ruoli.
Anche il “normale” rapporto master-slave può non esser normale. Una sottocategoria della anormalità del bdsm. E, sotto a questa, infinite sotto-sotto-categorie, sotto-sotto-famiglie, più eccezioni, che regole.
Una cosa è certa, l’incertezza, l’indefinito. Non come incompiutezza imperfetta, ma l’esatto opposto.
Un opera finita è terminata, appunto, è li, impacchettata,creata e portata a termine senza la possibilità di redenzione, evoluzione, miglioramenti, cambiamenti. E’ staticità pura, è vincolo, è quello e non può essere nient’altro, una volta completata e determinata. E’ quello che voi definite “stabilità. normalità”
L’indefinito, l’incompiuto, è potenza, parlando in termini aristotelici. Perde la definizione e la concretezza dell’atto, ma mantiene caratteristiche vitali, continua a svilupparsi, a mutare, ad essere alimentato a non essere sottoposto a vincoli di alcun tipo, fuorchè quelli che provengono dal suo interno. E’ pura instabilità, quella che voi tanto temete, perchè non vi permette di prevedere nulla, di essere certi che il vostro comportamento sia sempre e comunque quello giusto e consono per ogni determinata occasione.
Ma, questa instabilità è Vita. E’ la causa della famosa “insoddisfazione” di cui vi accennato proprio all’inizio.
Perchè per poterci definire soddisfatti, siamo convinti che sia necessario completare qualcosa. Passare necessariamente dalla potenza all’atto. Ma quando l’atto è in atto, appunto, è drammaticamente concluso. Ed allora lo guardiamo, lo riguardiamo, lo osserviamo e notiamo i tanti piccoli particolari che avremmo potuto aggiungere, limare, creare in modo diverso, che forse avrebbero reso quell’atto migliore.
La potenza è l’esatto opposto, E’ fango che non si asciuga, che possiamo continuare a plasmare e nostro piacimento, a seconda delle diverse circostanze, degli impulsi di quel determinato momento, dei nostri “noi” che si alternano durante il corso della nostra vita.
E’ il cambiamento che, per molti, è follia. E’ il restare sempre in uno stesso luogo, con la propria lingua, leggi ed usi e costumi. Come se l’essere umano fosse un atto terminato, non una creatura in continuo mutamento.

Questo, signori della giuria, è quello che sono. O, per lo meno, quello che stò imparando ad essere, che vorrei essere, indeterminatamente Me.
Se ho paura, mi domandate? Quanto mai avrei pensato potessi averne. Sono terrorizzata. Ho paura di me stessa, di essere fango troppo morbido o troppo solido.
Temo di perdermi, essere risucchiata da questa “cosa” e non riuscire più a ritrovarmi, come un vortice, che cattura, travolge, distrugge e sputa fuori in pezzi. Non voglio essere ciò che non voglio, ma ho paura di correre questo rischio. Il vuoto troppo vuoto è riempibile senza condizioni, a totale discrezione di chi lo possiede. E se un giorno, guardandomi allo specchio, vedessi un’immagine di me che non mi rispecchia, che ripudierei? Giustamente o no, non ha importanza. Vedrei comunque una Me che non vorrei vedere, e mi lacererebbe il petto. Seguire la propria natura, è, appunto, naturale. E’ ciò che andrebbe fatto. Un malato di cancro, morirebbe, se lasciato alla natura. Ed è li che si interviene, “correggendo il tiro”, intervenendo dall’esterno. L’IO, che media e tempera gli impulsi, assolve a questo compito.
E se l’Io rendesse, invece, troppo solido il fango? Impedendo al creatore di plasmare il creato, lo priva di qualunque piacere, del suo intrinseco compito. E priverebbe l’amalgama di acqua e terra informe e senza significato. In nessun modo vorrei essere un ostacolo alla sua creazione, verrei meno al mio ruolo ed al mio e suo volere. Ma ho paura di perdere la mia “consistenza”, se decidessi di rendermi fango troppo liquido.
Amalgama dura, lo sono naturalmente, vuoi per indole, vuoi per educazione, è un mio enorme limite. E no, signori della giuria, l’essere terra dura non è la normalità. Quello che voi definite tale è l’essere poltiglia che ha preso la forma di quello che la società ha imposto e su quello stampo si è irrimediabilmente asciugato. Ed è ciò che, più di tutto, non voglio essere, se non quanto mi basta per il mio quieto vivere. Non voglio… ma posso?
Sarebbe facile, facilissimo. Sarebbe continuare a fare quello che ho sempre fatto, e, nella vostra normalità ci ho vissuto, perfettamente. E se non volessi più essere solo “carne, sangue e posizione sociale”? Se volessi scavare dentro di me? Se volessi vivere sensazioni al di la del comunemente accettato? Essere soddisfatta, e non soltanto accontentarmi. Potrei? Me lo chiedo quotidianamente: potrei? Ne avrei le capacità?

No, non sarei un testimone attendibile, direste voi, ho cambiato versione più volte durante la mia deposizione. Perchè è quello che sento, giorno dopo giorno, attimi in cui son sicura di farcela, di poter sentire oltre, altre in cui ho paura di non averne le capacità, e preferisco, non per pigrizia, ma per prudenza, affidarmi ai vostri dogmi. La religione è l’oppio dei popoli, diceva Marx, è vero, nel momento in cui da essa sono scaturite morali bigotte ed etiche farlocche.
L’oppio lo abbiamo fumato tutti, abbiamo dormito sonni tranquilli, cullati dal suo effetto.
Lo fumo tuttora, quando capisco di non riuscire a farcela, quando vedo altri limiti, al di la di quelli che ho già superato, ergersi imponenti, senza darmi alcuna speranza di oltrepassarli.
Non sono sola, non ce l’avrei mai fatta se lo fossi stata. Ho un padrone, che mi guida verso queste “colonne d’ercole”, indicandomi come valicarle, suggerendomi appigli, fornendomi corde e picconi, ed a volte dell’ acqua e del ghiaccio per le ferite.
Ma è quando vedo colonne che non mi piacciono, che non mi rispecchiano, che per volontà mia non voglio oltrepassare, che sento di essermi spinta troppo oltre, ed allora, li, ho paura, paura di essermi persa, di subire da un momento all’altro la stessa sorte di Ulisse, risucchiata da quel vortice che ingoia, lacera e distrugge senza possibilità di redenzione.

Questa mia deposizione, signori della giuria, non ha conclusione. So di avervi deluso, così come ho deluso me stessa e deluderò il mio padrone.
La famosa incompiutezza, l’indefinito, la potenza, necessariamente si riverbera anche nelle mie decisioni, tra una fumata d’oppio ed un’endovena di epinefrina.

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