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Erotici Racconti

ZULU’

By 6 Aprile 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

CAP 1: La foresta dei violini
Lo chiamavano Zulù.
Tutti, ma proprio tutti lo chiamavano Zulù, pure il parroco lo chiamava così.
Gli unici che lo chiamavano in modo diverso erano i suoi genitori: suo padre, Riccardo, faceva il ristoratore e, a tempo perso, la guida alpina, la mamma, una triestina finita per amore in quelle terre di montagna, si chiamava Sveva, nome desueto e dolcissimo, faceva la sarta e lavorava in casa.
Nella casetta avevano ricavato una paio di vani che affittavano come bed and breakfast ai turisti che salivano fin lassù per vedere i monti, i pascoli, i boschi d’abeti e di larici.
Con quei larici, era stata costruita Venezia…
Solo loro non lo chiamavano Zulù.
Eh si, perchè in realtà lui si chiamava Donato.
Per la precisione si chiamava Donato Marco Rolhilala Fabbron…
E come diceva un amico alpinista di suo padre, che tutti gli anni veniva a trovarli da Milano, ‘l’è negher me’l sc’r!’ ovvero, è nero come il buio.
Infatti il ragazzo era nero come una macchia di pece in una notte d’inverno senza luna in un bosco fitto: i capelli crespi e nerissimi, gli occhi tanto scuri da sembrare che invece delle pupille avesse due buchi… neri.
Non era zulù, bensì bantù: nato in uno dei bantustan del Sudafrica dell’Apartheid, figlio di una disgraziata contadina morta di AIDS, che in quegli anni cominciava a diffondersi nell’Africa nera, era rimasto orfano che non aveva manco un anno.
I missionari comboniani gli avevano posto il nome di Marco, perchè padre Giacomo, che era arrivato in quei luoghi anni prima, era veneziano, Rolhilala perchè non dimenticasse lo spirito della sua gente.
Donato lo era diventato quando i Fabbron lo ebbero in adozione, loro che non potevano avere figli, e se l’erano portato in quel paese di montanari ai piedi della catena del Lagorai.
Donato era lungo, così divenne Marco.
Però, negher me’l sc’r, aveva finito per assumere tanti altri nomi: era stato calimero, poi cioccolatino, alla fine era arrivato in televisione Orzowei e per tutti era diventato Zulù.
Un paesino di montanari, non brilla certo per ampie vedute e il bambino ebbe come colonna sonora alle elementari gli sfottò degli altri compagni.
Era piuttosto magrolino, il fanciullo, ma anche un po’ secchione, cosa che non aiutava, e una miopia precoce, se pur leggera, gli aveva imposto degli occhiali tondi da intellettuale che aiutavano ancora meno.
Zulù lo chiamavano per sfotterlo.
Poi, d’improvviso, non lo sfotterono più.
L’estate degli undici anni, cominciò la trasformazione: nel volgere di un paio di stagioni, il piccolo che era stato calimero, divenne un marcantonio di un metro e ottanta per settanta chili di muscoli, allenati a scarpinare in montagna, giocare a calcio e arrampicarsi su ogni pianta o roccia nel raggio di chilometri.
Sembrava una statua d’ebano e, quando correva sul campo, nessuno dei coetanei aveva il coraggio di fermarlo, l’occhio vivace a cercare i compagni di squadra, il piede svelto con la palla, le mani grandi come spatole da stuccatore.
Non lo sfotterono più, ma era tanto di quel tempo che nessuno lo chiamava col suo vero nome, che Zulù era e Zulù rimase.
Alla fine lo prese anch’egli come un soprannome innocente, come altri ce n’erano in quella vallata.
Quel giorno, Zulù, aveva quindici anni.
L’estate era cominciata presto e Marco aveva passato gran parte del tempo libero dallo studio a salire in montagna col padre e i suoi clienti: con la scusa del bed and breakfast pigliavano spesso due piccioni con una fava, ovvero, spesso, i turisti che alloggiavano dai Fabbron trovavano comodo farsi portare in giro per malghe e laghi alpini dal signor Riccardo.
A volte, quando troppo impegnato col bar, Riccardo ci mandava Marco, se il percorso non comportava particolari difficoltà tecniche.
Ma non perchè il ragazzo non fosse capace di metter mano ad una corda o di salire una ferrata, bensì perchè spesso, i clienti, si sentivano poco ‘protetti’ da un ragazzo così giovane e, cromaticamente, così fuori posto rispetto agli altri indigeni.
Ormai la stagione stava volgendo al termine, agosto era scivolato in settembre, la temperatura s’era un po’ raffrescata, le ore di luce erano già diminuite di molto e, ogni tanto, qualche scroscio di temporale spazzava la valle.
Ma in linea di massima, le giornate erano ancora abbastanza prodighe di sole e qualche turista ancora s’avventurava in escursioni montane.
Era il caso delle due ragazze.
Erano arrivate cinque giorni prima su di una Panda 750 rossa piena di adesivi.
Una mora, occhi azzurri, l’altra castana con occhi di terra, sui vent’anni, studentesse di Bologna che, dopo il mare della Riviera, volevano concludere le vacanze in montagna.
Una rispondeva al nome di Barbara e aveva occhi di cielo e capelli come manto di corvo, l’altra di nome faceva Simona e sfoggiava ogni gradazione dei colori d’autunno.
Erano allegre, erano simpatiche…
Erano pazzescamente belle agli occhi di Marco, che ragazze così spigliate e indipendenti non le aveva viste mai.
I suoi occhi di buco nero s’avvampavano di brace, quando le vedeva prendere il sole in bikini sul balcone di casa, e ‘laggiù’ sentiva uno smottamento devastante.
Bastava che una di loro lo salutasse che si sentiva mancare il fiato, inghiottiva l’aria come un affamato la pagnotta e diventava rosso, per quanto se ne accorgesse solo lui, visto che difficilmente gli altri potevano vedere un rossore su quel nero bitume.
Così, spesso, preferiva scappare via nei boschi.
Di solito le due ragazze passavano il tempo a prendere il sole o a fare qualche scampagnata di poca difficoltà, ma un giorno espressero il desiderio di salire al lago di Caserina, incastonato fra le montagne, al di là della foresta dei violini.
Ne avevano sentito parlare, e volevano andarci, per chiudere in bellezza il loro soggiorno.
Riccardo si offrì di accompagnarle, però non per l’indomani, come avrebbero voluto le ragazze, bensì il giorno dopo: infatti aveva degli impegni a Trento e non avrebbe potuto disdirli con così poco preavviso.
– Se volete vi può accompagnare Marco-
Le ragazze guardarono Zulù il quale, si sentì avvampare e diventare rosso…
-ma … non so… ma forse possiamo farcela da sole: è così difficile salire?
-No,- disse Zulù: -non è difficile…-
Intanto ingoiava saliva per trovare il coraggio di parlare alle ragazze:
– Però bisogna attraversare la foresta e stare attenti a dove si mettono le mani e i piedi, e bisogna anche avere l’attrezzatura adatta.

Ma agli occhi di due ragazze di vent’anni che vengono da una grande città, un quindicenne, anche se alto come un uomo, è un bambino…
Così decisero di andare da sole.
Riccardo cercò di convincerle ad attendere un giorno, se proprio non volevano salire al lago con Marco, ma non ci fu nulla da fare.

Così, l’indomani si prepararono per andare: avevano uno zainetto tipo da università, che prevedevano di portare a turno, con qualche panino ed un paio di bottiglie d’acqua, indossavano magliette lacoste, rosa per Simona, verde per Barbara, bermuda, scarponcini da montagna e calzettoni appena sopra la caviglia.

La signora Sveva le vide, le consigliò di non andare per due buoni motivi: l’abbigliamento non era adatto ad un bosco abitato, tra l’altro, anche da simpatici animaletti striscianti e il tempo non prometteva bene.
Ma a nulla valsero le raccomandazioni della donna…
Le ragazze partirono in una mattinata inondata di sole ‘il tempo non promette bene? Ma questa è un po’ suonata!’ avevano pensato, e avevano preso la strada per la foresta.

Ormai a pomeriggio inoltrato, il cielo virò di colpo: il sole sparì, il colore delle nubi all’orizzonte si fece sempre più scuro e le cime delle montagne presero a circondarsi di bassa foschia.
Zulù era rimasto molto male per il rifiuto delle ragazze ad andare al lago con lui: una parte di lui era mortificata perchè lo avevano considerato un bambino cretino, un’altra parte perchè non lo avevano considerato affidabile.
Ma una parte di lui, che lui stesso fino a poco prima nemmeno sospettava che esistesse, era semplicemente sofferente perchè era uomo.
Un uomo incendiato dal fuoco chimico che dentro gli risvegliava sensazioni che non conosceva, che lo sconvolgevano…
Così, aveva preferito non essere presente alla partenza delle fanciulle: aveva preso con sé Baldo, il suo cane, messa roba da mangiare e bere in uno zaino, ed era scappato nei boschi, sulle pendici che digradano ripide verso l’invaso di Forte Buso, a cercare funghi e mirtilli.
E carichi di funghi e mirtilli erano tornati lui e Baldo, quando il cielo stava divenendo color del piombo fuso.
– Le ragazze non sono ancora tornate…
Sveva stava pulendo i funghi che il ragazzo aveva trovato nei boschi ed ogni tanto lanciava un’occhiata verso la catena del Lagorai.

-beh, è normale, ma saranno già sulla via del ritorno. Staranno già scendendo da un bel po’, se non sono matte che vogliono restare lassù col temporale.

-E’ questo che mi preoccupa…

La donna riprese a pulire le porcinelle e i finferli…
In lontananza si sentì il primo tuono: il suono prolungato, ma ovattato.

-Senti, vagli incontro. Ho paura che quelle due si caccino nei guai.

Zulù guardò la madre, Baldo, che era sdraiato ai piedi del divano, vicino all’ingresso, alzò un poco la testa a guardare il padroncino.

-devo proprio? Ma se nemmeno volevano che andassi con loro!, In fondo se lo meritano se restano lassù col temporale

E terminò di bere la tazza di tè ai frutti di bosco che aveva davanti.

-Non dire così! Sono ragazze inesperte, e poi sono nostre ospiti e abbiamo il dovere di fare in modo che non gli accada nulla di male!-

Alla fine, di malavoglia, Zulù cedette alla predica della madre…

-Baldo! Andiamo, che ci tocca tornare a prendere quelle due stupide!

Con un guaito, il cane saltò in piedi e si lanciò verso la porta raspando sul legno dall’impazienza.
Zulù raccolse lo zaino dove erano stati i funghi, vi pose una torcia elettrica, la cassetta del pronto soccorso, si mise il coltello da caccia alla cintola e aprì la porta.
Baldo era uno strano incrocio, quello che i milanesi chiamano ‘can de casinott’, ovvero cane di cascina ,di solito intrugli improponibili di razze.
Nel caso specifico era il risultato di qualche antenato che, una volta, doveva essere stato uno spinone, e di qualcun altro che, sempre all’alba del mondo, doveva essere stato un husky.
Dell’husky aveva la forma del muso e gli occhi colore del ghiaccio stinto, dello spinone il pelo ispido, il doppio sperone, il tartufo sensibilissimo per gli odori del bosco, che per il tanto ossigeno quasi gocciolava ogni volta, il coraggio, l’amore per la pioggia, il fango e la terra umida della foresta.
Della statura di un buon pastore tedesco, era molto più muscoloso e tenace.
Quando fu fuori dalla casa, il cane si fermò un istante a odorare l’aria che si stava facendo via via più umida ed elettrica, poi, lo sguardo glauco e scintillante, il tartufo fremente, si lanciò sul sentiero che portava alla foresta, precedendo il suo giovane padrone.

I tuoni si facevano sempre più vicini, e cominciava a vedersi qualche lampo: Zulù calcolava mentalmente, come gli aveva insegnato a fare suo padre, a che distanza si trovava il temporale…
Capì che non aveva molto tempo prima che l’intera foresta si fosse trovata in pieno acquazzone e nel buio assoluto.
Doveva fare presto a trovare le due ragazze e a riportarle in paese.
Accelerò il passo, Baldo lo anticipava di una trentina di metri, poi tornava indietro di un tratto, si fermava e lo aspettava.
Aveva gli occhi sempre più eccitati, ma denotava sempre più impazienza di andare, come se intuisse la preoccupazione del ragazzo.
In quelle condizioni, entrarono nella foresta.
Chiamarla bosco sarebbe riduttivo: chilometri quadrati di alberi alti come palazzi di dieci piani, così fitti che il sole fatica a giungere a terra, in una giornata luminosa, figurarsi nell’oscurità d’una tempesta imminente.

Nel frattempo le due ragazze, che erano già scese dal lago, erano già da un pezzo entrate nella foresta ed erano sempre più preoccupate del buio che si stava facendo e dei tuoni sempre più vicini e frequenti.

‘Non è bello trovarsi qui nel mezzo del temporale’
A questo pensiero, Zulù aumentava l’andatura, ormai aveva, il cuore che batteva a mille, respirava con frequenza aumentata, aveva la maglietta inzuppata di sudore per lo sforzo, notevole anche per un fisico come il suo, giovane e allenato, di correre sul sentiero ripido nella foresta.
Più o meno quando si trovava a due terzi del percorso che lo avrebbe portato alla radura da cui si attaccava la salita al lago, sentì un urlo agghiacciante, come non ne aveva sentiti mai.

_Baldo! Corri! Vai!Vai!

Il cane lo guardò come a dire ‘ho capito, ma fai presto’ poi, con una mezza rotazione e con uno scatto come di molla si sparò con la velocità del pensiero sul sentiero tortuoso.
Zulù prese quanto più fiato potè e si lanciò all’inseguimento del suo cane, distanziato oramai di almeno cinquanta metri, in aumento, correndo come un pazzo, lo zaino che batteva sulla schiena, le gambe che si facevano sempre più legnose.
Ogni tanto inciampava su una radice,saltava per riatterrare in modo controllato senza slogarsi una caviglia, lanciava un’occhiata al terreno e riprendeva la folle corsa dietro al cane di cui indovinava, più che vedere, la coda di pelo ispido nel buio del sottobosco d’aghi secchi che attutiva i suoi passi.

Lo sentì abbaiare furiosamente.
Dopo alcuni secondi che gli parvero infiniti, giunse là dove Baldo s’era fermato e stava abbaiando come un pazzo.
Barbara era ferma in mezzo al sentiero e guardava giù, sotto al pendio, in lacrime, urlando il nome della sua compagna che, invece, non si vedeva.
Baldo accolse il padrone con uno sguardo che voleva dire ‘è la sotto, vuoi che vada giù?’.
Il ragazzo, riprese fiato qualche istante:
-che succede?, Barbara, calmati, dimmi cosa è successo.

Ma quella era in una crisi di pianto, manco s’era accorta ch’erano arrivati Zulù e il suo cane.

Dovette piantargli un paio di ceffoni sonori in faccia per avere la sua attenzione:

-é…è scivolata giù… non la vedo più… stavamo scendendo di corsa perchè ci sono i tuoni…Oddio e se si è rotta qualcosa, non risponde!, Fai qualcosa! Non risponde!

-Va bene, va bene, ma stai calma, stai calma, bevi un po’ d’acqua: io e Baldo andiamo giù a vedere.

Un tuono fortissimo squarciò il silenzio irreale della foresta, la ragazza si gettò fra le braccia di Zulù e cacciò un urlo.

– Non mi lasciare qui! Non mi lasciare qui da sola!

E riprese a singhiozzare.
Ormai il bosco era buio come di notte quando c’è un po’ di luna: solo un poco di luce permetteva di scorgere qualcosa fra le ombre degli alberi.

-Baldo, resta qui con lei, io vado giù.

Il cane guaì, ma restò fermo in piedi vicino alla ragazza.
Questa tentò di protestare, ma Zulù cercò di tranquillizzarla:

– Non ti capiterà niente, Baldo è un ottimo cane da guardia, stai tranquilla e aspettami.
Il ragazzo cominciò a scendere con cautela dal pendio ripido e scosceso, reso sdrucciolevole dalla massa di aghi che, a volte, sotto il peso del ragazzo che cercava di affrettarsi si staccava dal suolo.
Più di una volta Zulù scivolò, e solo la sua agilità di gatto di montagna gl’impedì di rotolare fino a fondo valle.
La discesa gli sembrò non finire mai, quando, finalmente, una trentina di metri ancora più sotto, vide il corpo della ragazza disteso a terra, la testa appoggiata su uno sbalzo del pendio, le gambe sparse, la mano destra stringeva una pietra grossa come una boccia da bowling.
Zulù la raggiunse e urlò:
-L’ho trovata!L’ho trovata!
Forse per solidarietà, Baldo abbaiò un paio di volte.
-Come stà? Perchè non parla? Come sta?
-Non lo so, ora vedo cos’ha!
Gli si avvicinò: Simona era svenuta, aveva rotolato come una palla per quasi settanta metri, picchiando contro le radici, i ceppi degli alberi, passando sui cespugli di mirtillo e le piante di felce.
Era piena di graffi ed escoriazioni, ma non sembrava che avesse riportato danni seri, visibili alla testa.
Era sporca di terra, muschio ed aghi di conifere, da alcuni graffi e tagli sanguinava un po’, ma Zulù non giudicava che quelle ferite superficiali fossero sufficienti a fare svenire una giovane donna ‘a meno che non si sia fracassata la testa’, ma in cuor suo pensava e sperava che la testa fosse a posto.
Poi la vide…
Là sulla gamba destra, tra il polpaccio e la caviglia, poco sopra il bordo del calzettone, era attaccata una vipera.
Non tanto grande, lunga meno di mezzo metro, i denti profondamente infilati nella carne della ragazza.
Il corpo del serpente era come spezzato in due: a circa venti centimetri dalla testa le vertebre erano spezzate, il corpo non più cilindrico ma schiacciato, l’estremità della coda che si agitava come per effetto di un riflesso condizionato.
Zulù prese il coltello da caccia e, per essere sicuro, lo affondò con un tremendo fendente nel corpo della vipera, appena sotto la testa e la recise.
Poi, sempre con l’ausilio della lama, staccò la testa dal polpaccio della ragazza, la prese ai lati della mandibola e la pose nella tasca anteriore dello zaino.
Infine svegliò la ragazza con qualche schiaffetto sul volto:
– Sveglia Simona! Sveglia! Mi senti! Sveglia!
– Cosa… tu sei… Zulù… dov’è Barbara… dov
La ragazza vide lì vicino il corpo decapitato del serpente e cacciò un urlo pazzesco.
Avvinghiata al ragazzo lo stringeva tanto da fargli male

-portalo via! Portalo via!

Zulù se la staccò di dosso e, a fatica la riportò alla ragione.

-Simonaaaa, come staiii???

I due, in fondo al pendio si guardarono negli occhi per in tempo breve ed eterno, poi, senza darle modo di fare diversamente, il ragazzo rispose:

-sta bene, adesso veniamo su!

-Ascoltami, non stai bene: quella vipera ti ha morso, probabilmente le sei caduta addosso e lei non ha avuto altra scelta. Se avessi indossato gli stivali come me, forse non sarebbe successo. L’hai uccisa tu? Con quella pietra?
-si, si- la ragazza prese a singhiozzare-ho sentito un dolore intenso al polpaccio e l’ho vista ho preso la prima cosa che m’è capitata in mano ed ho colpito con quanta più forza ho potuto.

-OK, stai calma e ascoltami: quanto pesi?

– Non so, direi un cinquanta chili

– Questo ci dà circa un paio d’ore, ma un po’ di tempo se n’è già andato: io ora devo cercare di rallentare il veleno, poi ti porterò su e da lì al paese, dal dottore. Devi stare calma: più ti agiti e più il veleno corre in circolo!
-Stai tranquilla che ce la facciamo.

-Oddio! Oddio… cosa fai adesso?

La ragazza fissò col terrore negli occhi Zulù che aveva in mano un coltello da caccia con una lama da dieci pollici affilata come un rasoio.

-Devo incidere la ferita per fare uscire un po’ di sangue, poi stringerò forte sopra il punto del morso per rallentare la circolazione: ti farò un po’ male, sei pronta?

La ragazza guardò molto intensamente gli occhi scurissimi di quello strano ragazzo montanaro, nero come la notte scura, sorprendendosi a pensare che non aveva di fronte a sé un bambino, ma un uomo, un uomo che stava prodigandosi per salvarle la vita.
Zulù prese il coltello per il manico, ma vicino all’attaccatura della lama come se tenesse un bisturi, l’indice sul dorso della lama, e praticò due incisioni, profonde qualche millimetro, ad X, tagliando i fori dei denti.
Simona si dette un contegno e non urlò, solo emise un singhiozzo più gutturale degli altri.
Zulù spremette la ferita che cominciò a perdere sangue copiosamente, poi prese dell’acqua e lavò il taglio, lo disinfettò e vi avvolse una benda che ben presto divenne rosso cupo.
Poi, si levò la maglietta, prese il coltello e la lacerò ricavandone una striscia robusta di stoffa;prese un po’ d’acqua e la bagnò; legò la striscia più forte che potè alla gamba della ragazza, circa venti centimetri sopra la ferita.

-Ora possiamo andare: la striscia asciugandosi si stringerà sempre più, questo ci farà guadagnare tempo.


CAP 2: un discorso interrotto

Zulù si mise attorno al collo il braccio destro della ragazza e, cingendola per vita col braccio sinistro, cominciò la difficile risalita.
Simona era come una bambola di pezza, ma rigida come un palo della luce: faceva fatica a camminare, le doleva il polpaccio destro, inoltre le sue energie mentali stavano scemando.
Scivolarono; si rialzarono; scivolarono ancora.
Ogni volta che scivolavano, Simona emetteva dei piccoli urli, Marco grugniva e sacramentava in dialetto valligiano… e Baldo abbaiava impaziente, combattuto fra l’andare in aiuto dei due ragazzi o rimanere lì dove il suo padrone gli aveva ordinato di restare.
Ci volle un mucchio di tempo, poi dal ciglio del sentiero, di fra le ombre dei larici e dei sassi coperti di muschio, emersero Zulù e Simona.
Barbara si buttò ad abbracciare l’amica, e riprese a piangere:
– Stai bene?, meno male, credevo che ti fossi ferita, o fatta male, meno male che sei salva-
Simona la fissò lungamente, con aria sconfortata:
– Non sto bene, Barbara: mi ha morso una vipera, alla gamba
L’amica vide la benda insanguinata e quasi svenne anche lei, poi si disperò…
Si disperò tanto che Zulù e Simona faticarono del bello e del buono per calmarla.
– Senti Barbara, ascoltami attentamente: io devo portare assolutamente Simona dal dottore. Ma non posso portarvi in giù tutt’e due, tu dovrai restare qui.
Barbara fece per protestare in modo violento, ma questa volta intervenne l’amica:
-fai come ti dice: di casini ne abbiamo già fatti abbastanza io e te. Se non veniva giù a prendermi crepavo là. Fai come ti dice, per favore.
– va bene, va bene… farò come vuoi tu.
-Allora, ascolta: io ti lascio la torcia elettrica , l’acqua e ti lascio qui con Baldo. Quando saremo giù manderò qualcuno a prenderti. Non ti muovere da qui per nessun motivo, intesi?
Barbara cercò gli occhi di Simona, questa annuì con un’espressione che diceva ‘per favore, non mi resta tanto tempo da buttare’.
-OK, resto qui e non mi muovo, ma fai presto.
-Baldo, resta qui con lei.
Zulù prese la ragazza e s’avviò sul sentiero in senso contrario: il cane fece per seguirlo.
-No! Stai qui con lei! E’ un ordine!
Baldo guaì, raspò con la zampa il terreno, poi tornò presso la ragazza e s’accucciò ai suoi piedi, continuando a fissare il suo padrone farsi ombra nera sempre più piccola in un bosco d’ombre altissime.
Non avevano percorso che qualche centinaio di metri, quando un lampo riuscì a penetrare la cortina di rami fittissimi e illuminare perfettamente il terreno.
Subito dopo un tuono esplose come una bomba di mortaio proprio sopra di loro.
E fu il diluvio.
La pioggia cominciò a cadere fitta, pesante, fragorosa, in lunghe gocce simili ad aghi di vetro ed in breve l’intera foresta sprofondò in una tenebra liquida, nella quale non si vedeva a venti passi.
Il terreno, già umido e scivoloso per i temporali di fine agosto, s’inzuppò d’acqua in un attimo, rendendo ancora più penoso e difficoltoso camminare sul sentiero.
Simona inciampava sempre più spesso ed un paio di volte si tirò dietro anche il ragazzo.
– Non ce la faccio. Non ce la faccio!
E cominciava a singhiozzare.
-Ce la fai, dai che ce la fai, andiamo.
Ma cadeva sempre più spesso: così non sarebbero mai arrivati al paese.
Mancava ancora circa un terzo di strada, fino al paese: Zulù decise di tentare una strada più lunga, ma meno tormentata.
Salì ‘a pelo’, cioè in pieno pendio per cento lunghissimi metri fino alla strada forestale.
L’acqua inzuppava completamente i suoi vestiti e quelli della ragazza, i capelli castani di Simona erano ormai scuri di pioggia, appiccicati al volto e grondavano come fili di canapa sotto al getto di un idrante.
Alla fine giunsero sulla strada forestale che scendeva al paese dalla parte opposta alla casa di Marco.
Si sedettero a riprendere un po’ di fiato:
-Adesso sarà più facile, vedrai.
Ma la ragazza lo guardava sempre più estranea, sempre più vuota di energia…
Riprese a camminare, ma la gamba della ragazza era sempre più gonfia ed ormai non riusciva quasi più a metterla in terra.
Intanto la pioggia continuava a scrosciare spinta dal vento forte che lì, senza il riparo degli alberi del bosco, picchiava duramente contro il corpo dei due ragazzi.
Zulù capì che non ce l’avrebbe fatta così…
Decise allora di caricarsi in spalla la ragazza e cominciò a correre lungo la strada, correre, correre, correre, con gli aghi di pioggia e le spine di vento che gli s’infilzavano nella pelle del viso.
Corse come se fosse l’ultima cosa che poteva fare, giù per la strada, corse e corse ancora…
‘non ce la faccio più, non ce la faccio più’
Sentiva le gambe come pezzi di legno e non aveva più fiato.
Proprio quando pensava che sarebbe stramazzato al suolo, intravide le prime case del paese, attraverso il muro d’acqua.
Riccardo, era nel suo bar ristorante, insieme a qualche turista fradicio, al dottor Lambiase, medico del paese, e a Franco, guardia forestale.
Stavano bevendosi un”ombra’ quando la porta s’aprì per un calcio.
Voltandosi si trovarono davanti una statua nera grondante di pioggia, a torso nudo e con in spalla una ragazza semiincoscente, anch’essa inzuppata, con una vistosa benda rossa di sangue sul polpaccio.
Zulù barcollò fino al tavolo più vicino, vi depose la ragazza, si tolse lo zaino e ne rovesciò fuori la testa di vipera.
-l’ha morsa questa, un’ora e mezza fa.
Poi s’accasciò sfinito.
Il dottore s’affrettò a prestare soccorso alla ragazza, Franco prese dal cruscotto del fuoristrada una fiala di siero: le fecero il test allergico e poi lo iniettarono.
Riccardo cercò di rianimare il figlio, gli fece trangugiare un intero bicchiere di China Martini calda:
– Dov’è l’altra ragazza?
– L’ho lasciata là con Baldo, non potevo portarla con noi, non sarei arrivato in tempo.

– Dobbiamo andare a prenderla

– Vengo con voi

Tentò di dire Marco.
– Non ci pensare nemmeno, andiamo io e Franco. Dottore, se la cava senza di noi?

-Certo, andate pure.

Il dottore chiamò un’ambulanza per Simona, poi visitò anche Marco.

Franco e Riccardo partirono col fuoristrada della forestale lungo la strada che aveva fatto Zulù per tornare in paese, calcolarono più o meno il punto in cui doveva trovarsi la ragazza, lasciarono l’auto e scesero a pelo fino al sentiero dove le due ragazze avevano avuto l’incidente.

Ma non trovarono nessuno…

Intanto, anche Barbara aveva sentito i tuoni ed era rimasta illuminata a giorno dai lampi e, subito dopo, s’era trovata inzuppata d’acqua.
A quel punto era stata presa dal panico ed aveva cominciato a correre lungo il sentiero.
Baldo aveva prima abbaiato furiosamente per disapprovazione, poi aveva deciso ch’era meglio farle strada, piuttosto che lasciarla finire in qualche brutta situazione.
Corse davanti a lei come un matto, la raggiunse e la superò; quindi si fermò ad attenderla.
Quando la ragazza raggiunse il cane, questi abbaiò e riprese a trottare in avanti, gli occhi lucenti, il pelo grondante d’acqua come, del resto, anche i capelli di Barbara, e i suoi vestiti.
Dalla maglietta appiccicata alla pelle si vedevano i capezzoli rigidi premere sulla stoffa.
Era buio pesto, per il cielo nero e per la pioggia furibonda, in alto, svariati metri sopra il sentiero, i rami degli alberi sbattevano gli uni contro gli altri con fragore come se il legno si spezzasse.
Baldo era appena andato in avanscoperta di alcune decine di metri, dietro una curva del sentiero, quando sentì un urlo.
L’animale si precipitò indietro e vide la ragazza urlante che stava tirando sassi e legni ad un ombra poco sopra di lei sul pendio, un’ombra più grande di un uomo.
Un cinghiale, una femmina con due piccoli sorpresa dal temporale, cercava di far rientro alla sua tana: non avrebbe fatto nulla se quell’essere umano spaventato non avesse cominciato a tirare pietre…
Così scese verso la ragazza, arrabbiata e decisa a difendersi.
Baldo arrivò in tempo: si scagliò con un salto addosso all’animale selvatico e ne sbilanciò la corsa.
Questi cadde riverso su un fianco, Baldo, che era atterrato sulle quattro zampe, si voltò di scatto e tentò di ripetere l’operazione, ma stavolta gli andò male.
Il cinghiale riuscì a rialzarsi prima che il cane potesse colpirlo di nuovo e lo colse in piena fase di volo con le zanne.
Una zanna colpì il cane sulla coscia destra e la lacerò profondamente.
Sbilanciato per il colpo, Baldo atterrò male e rotolò fino sul sentiero; si rialzò, su tre zampe e attese che il cinghiale lo caricasse.
Così lo trovarono i due uomini: Franco tirò fuori la pistola e sparò due colpi in aria: al rumore dello sparo, madre e cuccioli si dettero ad una precipitosa fuga nel profondo del bosco.
Riccardo trovò Barbara seduta in mezzo al sentiero, ormai fradicia d’acqua e priva di forze, e il cane sdraiato a terra che si leccava una profonda ferita da cui sgorgava sangue rosso che si diluiva nella pioggia.

L’avventura finì bene, tuttavia: Simona si fece tre giorni d’ospedale, Barbara solo uno in osservazione, Zulù, che il dottore aveva scoperto sano come un pesce, si divorò in quelle giornate di forzato riposo anche le gambe del tavolo della cucina, i muscoli che gli facevano male tutti.
Baldo s’era rimediato un giro dal veterinario: cinque punti nella coscia ed un ciclo di antirabica.
Lui e il suo padrone erano diventati piccoli eroi locali…
-Domani dimettono Simona… andiamo a casa…
Zulù era nel garage, e stava intagliando un legno col suo coltello; alzò appena gli occhi verso la ragazza.
-credo che sia giusto così, siete state due pazze. Dovevate ascoltare mio papà.
-si, hai ragione… Simona ci ha quasi lasciato la pelle in quel bosco.
Nell’autorimessa si sentiva solo il rumore della lama che friniva sul legno del bastone.
Riccioli di corteccia volavano sul pavimento.
Ad un certo punto, Zulù sentì delle mani posarsi delicatamente sul suo viso: una carezza, poi un’altra…
Si sentiva strano… e laggiù cominciava il movimento…
Alzò gli occhi e vide Barbara che lo fissava con intensità…
– Non ti abbiamo nemmeno ringraziato…
– No ma … non… c’è….

Le labbra della ragazza si stamparono sulle sue.
Fu come lanciare un sasso in una vetrata di cristallo, una torcia su un covone di fieno secco in un pomeriggio di vento.
Zulù si alzò e rispose al bacio, un po’ goffamente, ma cercò di fare come aveva visto nei film.
La ragazza sorrise e appiccicandosi al corpo di lui avvertì prepotente la protuberanza nei pantaloni.
Vi poggiò una mano sopra.
-ma… cosa fai…
– shhhh, lascia fare a me.
Lei gli abbassò la cerniera, tiro fuori un arnese degno della stazza del suo proprietario.
Marco aveva gli occhi fuori dalle orbite in preda ad un’eccitazione mai provata prima ‘mio dio adesso muoio!’
Lei cominciò a far scorrere la mano sull’asta mentre continuava a baciare il ragazzo che sentiva d’impazzire.
Poi si staccò da lui, lo fissò negli occhi un istante, smise di toccarlo: lui fece in tempo a guardarla come a dire ‘perchè? Perchè adesso basta?’; s’inginocchiò davanti a lui; aprì la bocca e, continuando a fissarlo dritto negli occhi inghiottì quel membro di legno levigato e nero.

Zulù si sentì mancare il cuore, poi chiuse gli occhi sotto le onde di un piacere fine, intenso e sconosciuto.
La ragazza succhiava e manipolava quell’asta con grande esperienza, efficacia ed indubbio grande gusto personale.
Fra le labbra sentì le prime contrazioni, accelerò la succhiata; Marco era ormai perso in un mondo parallelo…
– Marcoo! Dove sei? Marco!
La voce della madre lo riportò nel mondo reale, fece appena a tempo a togliere l’uccello dalla bocca di Barbara che si ritrovò la mano piena si spuma bianca.
La ragazza sia alzò appena in tempo per vedere la signora Sveva comparire davanti al garage.
_ Ah, siete qui… cosa stavi facendo?
-Niente… io… stavo intagliando un bastone
La mano sporca in tasca per non farsi accorgere, e la maglietta tirata giù a coprire la patta aperta, dove l’arnese stava lentamente tornando alle dimensioni naturali.
-Ho bisogno che mi vai a prendere queste cose giù al negozio.
– va bene, vado…
Lui e Barbara si guardarono a lungo negli occhi, uscì dal garage, chiamò Baldo e prese la via del paese a grandi falcate.
Quando anche Simona fu dimessa, vennero i genitori di entrambe le ragazze per portarsele a casa.
Non smettevano più di ringraziare Riccardo e suo figlio.
Zulù salutò le ragazze: Simona era ancora debole, gli occhi castani circondati da occhiaie profonde…
Gli dette un bacio sulla guancia.
Anche Barbara lo baciò, ma per un istante, che forse colse solo Baldo, i suoi occhi si persero un istante nell’azzurro di quelli della ragazza come se ci fosse fra loro un discorso interrotto…

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