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Racconti Erotici Etero

APPUNTI DI VIAGGIO. PARIGI.

By 10 Maggio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

*Riporto di seguito gli scritti della protagonista.
L’autore Dunklenacht.

Le rondini, foriere del mattino, brillano nei miei occhi ed ogni mio sguardo tradisce le felicità del tempo perduto.
Allora, abitavo tutta sola e coltivavo dei fiori nel mio orticello, che tenevo sulla veranda. Li dissetavo con un annaffiatoio d’oro, comperato in gioielleria e costatomi una fortuna. Chiamavo per nome tutti i miei virgulti e quando si appassivano li seppellivo come se fossero stati dei morti. Avrei voluto offrirli alle stelle, così alte e così belle, così immense.
L’edera era amica delle mie forme, tanto che me ne adornavo. Dal mio terrazzo si vedevano le torri gotiche e i palazzi della città, dai tetti neri e celesti. Avevo anche un abbaino, alla cui finestra mi affacciavo assai di rado.
Fu così che decisi di partire per Parigi, dopo un sogno. Mi ero vista nuda, mentre una donna mi calpestava dolcemente con i suoi tacchi a spillo e un uomo cercava di infilarmi la sua verga tra le gambe. Io stavo in una botte di legno e tendevo le mani verso il cielo, tremando di piacere. All’improvviso, avevo visto Parigi. Il treno era una sorta di Orient-Express, con delle imitazioni dei quadri di Van Gogh appese alle pareti. Alcune erano tappezzate di seta di Persia. C’erano anche dei canap&egrave dorati e delle ottomane da sogno, fatte apposta per accogliere e cullare i corpi flessuosi delle muse. Ricordo che, alla partenza, era venuto ad accogliermi un porteur in livrea, vestito con una divisa turchina, ornata da fregi d’oro. Sul capo portava un cappellino rotondo, a visiera, una specie di képi, ma assai più elegante. Mi aveva parlato in francese, dandomi del voi. Mi aveva anche baciato la mano, prima di caricare i miei bagagli.
Durante il viaggio, il mio sguardo si smarrì tra i volti truccati delle giovani cameriere. Non che fossi saffica, ma amavo le donne. Di quelle che vidi prima di Parigi, desiderai soprattutto le labbra grandi e scarlatte, nonché i seni imponenti, mal celati da scollature poco vistose. Erano delle serve, ma tanto, tanto belle. Feci finta di voler parlare del tempo, onde attaccare discorso con una di loro. Non mi riuscì, ma le baciai una mano mentre con l’altra mi appoggiava accanto una grande guantiera d’argento, colma di dolci, di teiere e di posate d’oro. La tazza mancava. Uh, com’era stata sbadata! Mi pare di rivedermi, mentre, ritta in piedi nel vagone di coda, guardavo la cartina geografica della Francia. Sospirando, mormoravo tra le mie labbra rosse e dolci i nomi delle città toccate dal mio viaggio.
– Lyon, Dijon, Chaumont, Paris’
Sapevo parlare francese appena e tutti mi avrebbero notata per il mio discorrere, che sapeva di straniero. Una cattedrale gotica, dai muri bigi e dalle torri nere, bastava ad incantarmi. Ne vidi una con due leoni alla base di un arco a sesto acuto. Fu una sorta d’illusione, apparsa tra due tigli dalle fronde maestose ma dalle foglie ingiallite e caduche, scosse dal vento d’autunno. Uno stormo di colombi si levava in volo, proprio in quell’istante, mentre due amanti si baciavano sulla bocca, davanti a quella soglia. Poi, tutto svaniva, in una nuvola di foglie morte sollevate dal vento.
Quella vista mi commosse, tanto che due lacrime appassionate mi scesero dalle palpebre. Nel corso del mio viaggio, vidi anche delle prigioni, dalle inferriate rugginose e dalle grate nere. Le finestre terribili davano su di uno strapiombo di rocce, c’erano tanti corvi intorno, un fiume minaccioso sotto.
Giunsi a Parigi accolta da una pioggia triste ed assai bigia. Fu davanti alle rovine di un decrepito castello che volli realizzare uno dei miei sogni. Scrissi una lettera piena d’amore e di felicità e la affidai ad un piccione viaggiatore, legandola ad una delle sue zampe con un nastro scarlatto. La prima giovane che l’avesse trovata sarebbe stata felice per il resto della sua vita’ Così diceva la leggenda.
Un artista di strada catturò la mia attenzione e destò il mio innamoramento, sì, lo ammetto. Era un ragazzo giovane e suonava la fisarmonica, reggendosi su di uno sgabello che aveva una gamba sola. Di tanto in tanto saltellava, faceva le boccacce e canticchiava. Talvolta, si metteva in tasca la mano destra, ne traeva una manciata di coriandoli e la gettava alla folla. Sì, un piccolo pubblico si era radunato lì intorno per guardarlo, laggiù, sotto gli ippocastani tristi, davanti ai muri color crema di una vecchia scuola d’armi abbandonata. Mi dicevo che in quel cortile, un tempo, i soldati si battevano con la sciabola, davanti ai maestri d’arme. Mi sembrava di vederli, vestiti con le loro giubbe blu, dai bottoni dorati; portavano sul capo dei berretti bianchi, con la visiera, no, forse, dei cappelli rotondi, ornati con piume colorate. Per un istante, mi parve di udire il tintinnio delle armi bianche e il galoppare dei cavalli. Poi, nulla più.
Regalai una monetina d’oro all’artista di strada, dopo averlo mangiato con gli occhi. In cambio, ne ebbi un complimento. La mano sua si posò sui miei capelli morbidi, di bambola, che erano d’oro puro. Non so perché, ma allora piansi. Forse, furono lacrime di felicità. Avrei voluto discorrere con quel giovane, chiedergli chi fosse, da dove venisse, ma il destino non mi permise di farlo.
Non ve l’ho ancora detto, ma a Parigi avevo un’amica. Era una modella, una sorta di bambola che brillava tra le luci delle vetrine, le musiche incantate e le folle appassionate dei defil&egrave che terminavano a mezzanotte. Ella collezionava rossetti e parrucche. Il suo guardaroba era pieno di abiti firmati e i suoi cassetti erano colmi di gioielli. Era come me, aveva viaggiato molto, in quasi tutto il mondo. Purtroppo, però, non scherzava e non rideva mai, assomigliava ad una statua greca dai lineamenti perfetti ed assai belli.
Quando la andai a trovare, nel suo appartamento dimenticato nel cuore della città vecchia, mi accolse a braccia aperte. La sua casa era tutta dorata e dall’abbaino si dominava Parigi, con la sua Notre-Dame e la Tour Eiffel. Salutai la mia amica baciandola sulla bocca. Mentre le raccontavo del mio viaggio e lei improvvisava un valzer al pianoforte, presi a spogliarla e a farle delle coccole. La saziavo con i miei baci ardenti, mentre il cuore le batteva forte e la mano sua cercava di stringere la mia, invano.
Portavamo entrambe delle scarpe rosse col tacco a spillo, le uniche cose che ci rimasero indosso, alla fine dei nostri preliminari amorosi. La succhiai, più e più volte e quasi senza pietà. Intrecciavo i suoi capelli tra le mie dita nude, dalle unghie dipinte d’oro. Poi, all’improvviso, tutto finì. Vidi un portaritratti, che racchiudeva l’immagine di lei, nuda, mentre baciava un uomo. Glielo ruppi, poi, fuggii.
Il vento mi accarezzava i biondi capelli, mentre tutta sola passeggiavo lungo una sponda della Senna, sotto i pioppi ormai spogli, mormorando ai corvi, che s’alzavano in volo:
– Mon amie est morte’ La mia amica &egrave morta’
No, non era così’ Ella sarebbe vissuta ancora nel mio cuore e l’avrei nuovamente baciata di baci ardenti e passione affettuosa.
E i corvi si levavano in volo tra le torri, il vento scuoteva i rami tristi e le foglie caduche mi ammantavano le spalle, mentre dei rintocchi di campane spezzavano il silenzio. Poi, cominciava a piovere a dirotto ed io trovavo rifugio in una carrozza, dimenticata in una piazza.
Presto ripresi il mio viaggio, alla volta della Germania.
I paesaggi dell’ovest erano pieni di fronde melanconiche, racchiuse dalle brume dell’autunno; qua e là appariva un fiume od una torre. A volte, si vedeva in lago, sulle cui sponde crescevano le betulle. Era toccante, perché le luci dell’occaso baciavano le acque di smeraldo. Dresda era una sorta di Firenze del nord. I suoi palazzi e le sue cupole ricordavano il Rinascimento e c’erano tanti parchi, pieni di statue, di fontane e di fanciulle in fiore.
Avrei voluto desiderare un giorno tutte quelle cupole, allora già smarrite nei tramonti e nelle prime nebbie dell’inverno. Speravo di chiudere gli occhi e di discernere treni a vapore e colombi tristi che s’alzavano in volo. Non vi dirò mai chi sono.
Tutta la mia felicità brillava nei miei sguardi. E tutti coloro che mi guardavano dolcemente s’innamoravano, tanto che avrei potuto farli miei con un solo bacio. Piacevo a tutti. Mi amavano tutti. Un’occhiata virile era una languida carezza per la mia pelle. Confidavo i miei sogni e i miei ricordi al mio diario. Amavo viaggiare e non avrei mai voluto smettere di farlo. I miei occhi volevano vedere tutto il mondo. Adoravo partecipare alle feste di Carnevale e fare gli scherzi. Amavo le donne. Di tanto in tanto mi abbandonavo al vento ed abbassavo le palpebre, fingendomi una natura morta.
Ricordo che tra le nebbie di Dresda ebbi delle visioni. Un soldato da lontano veniva a trovarmi. Portava la sciabola al fianco, appesa a una bandoliera bianca ed aveva la divisa di ussaro. Mi mostrava la sua ferita al petto e mi diceva di essere morto per la patria. Voleva che astergessi il pianto della sua innamorata, sì, il pianto della sua innamorata’ Mi pareva di udire il tuono dei cannoni, di scorgere il fuoco disperato dei fucili. Poi, all’improvviso, quella presenza mi lasciò.
Mi dipinsi le labbra di rosso e diedi un bacio al niente, forse, per sempre.
Ricordo che in Germania le donne si comperavano con il denaro. Per avere il loro amore, bastava pagarle. Sulle monete disegnavano volti femminili ed incidevano a lettere dorate le parole: Arbeit, Freiheit, Gleichheit. I bordelli erano ingombri di mobili di legno antico, di quadri d’autore, di letti a baldacchino e di canap&egrave. Erano affollati di giovani donne truccate come dei Pierrot, i cui volti sfavillavano nella luce dorata dei lampadari d’oro e di cristallo. Attraverso le porte chiuse, s’udivano i versi animaleschi e lo scricchiolio dei letti. C’erano anche tanti cagnolini, dei dalmata dal manto bianco a pois neri, che si accoccolavano sui sofà e facevano tanta compagnia.
Fu così che decisi di provare. Mi misi in mostra, seduta su una botte da birra, le favolose gambe nude e accavallate, tra le casse di legno di un porto, che avrebbe potuto essere quello di Brema, non ricordo. Mi parve di udire i cori dei Maestri Cantori tutt’intorno’
Venne un maschio irsuto e nerboruto, che mi pagò, mi toccò, quasi mi frustò, mentre io con la lingua ardente lo eccitavo e lo rendevo fremente. Fui penetrata, scossa, scopata a più non posso, mentre mi mordevo la lingua e le labbra fra i denti e dalla vagina mi sgorgava del muco profumato. Ansimavo e mi dimenavo ad ogni colpo, a perdifiato. Alla fine, tutta sudata, tenevo in mano il prezzo della mia scopata.
I miei occhi erano ancora ingombri di nebbie, di torri bigie e rami spogli. Avevo salutato anche gli ultimi miei corvi. La voce del vento parlava d’amore ai miei capelli biondi.

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