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Racconti Erotici Etero

Cabotaggio

By 12 Maggio 2006Dicembre 16th, 2019No Comments

Er cazzo se po di’ radica, ucello,
Cicio, nerbo, tortore, pennarolo,
Pezzo-de-carne, manico, cetrolo,
Asperge, cucuzzola e stennarello.
”””’.
(G.G.Belli)

Non &egrave facile, per me, seguire un’unica tradizione. Da generazioni le radici sono veneziane, ma poi sono andato sempre in giro, e da ultimo mi sono fermato, da tempo, nella ‘caput mundi’, Roma ‘ladrona’ per alcuni, dove però i veri romani sono gente simpatica e amante della compagnia, con particolare predisposizione per i piaceri, certo anche della mente, ma prediligendo quelli della carne.
Ricordiamolo, &egrave la città del Belli, e un caro amico usa ancor oggi dire che non c’&egrave niente di meglio, dopo una bella ‘magnata’, del farsi leggere un sonetto del Belli, mentre si sta facendo una magnifica ‘scopata’. Perché il termine più usato, da un vero romano, &egrave appunto ‘scopata’, per indicare il’ profondo incontro tra un gagliardo ‘ucello’ e ‘na bella ‘sorca’.
Non posso, però, dimenticare il dialetto natio, quindi, l’os&egraveo, la ciavada, e la mona.
Ognuno ha assegnato un particolare appellativo al proprio organo genitale, questo capita in tutti i paesi, in tutte le lingue. In genere si parte dal ‘pipì’ e dalla ‘pipina’, per poi passare a nomignoli più intimi e personalizzati. Io ho cominciato con ‘piccolino’, e non so dire perché, mentre la mia amichetta si riferiva alla sua ‘gondoleta’.
Giunto all’età in cui ognuno si vanta delle proprie misure, ho seguitato a parlare del mio ‘piccolino’, per cui gli amici aggiungevano che, quindi, avrei potuto solo ‘costeggiare’, fare del piccolo cabotaggio. E da allora il ‘mio’ &egrave divenuto ‘caboto’.
Avevamo, a quella epoca, lo sciocco gusto di assegnare un nostro significato alle parole, soprattutto ad alcune. Inutile dire le variazioni sul tema ‘mona’. Si andava dalla ‘monarchia’, cio&egrave comando della mona, alla ‘moneta’, che era piccolina, al ‘monologo’ che per noi era un esperto della mona, come podologo lo &egrave del piede. E la cosa più scema era che ci ridevamo sopra, a crepapelle.
Ormai io, per gli amici, ero ‘Caboto’, e qualcuno non sapeva neanche l’origine di quel soprannome. Anche quando li chiamavo al telefono, a casa loro, sentivo la mamma che diceva, Giovanni, c’&egrave Caboto. Pochi mi chiamavano Marco; il mio vero nome.
Fu proprio Gianni che mi disse che la mamma tanto aveva insistito che lui, alla fine, le aveva raccontato che il nomignolo era in riferimento al mio ‘oselìn’ più adatto a’ costeggiare la mona che ad altro. Alzai le spalle, con indifferenza. Ma che ne sapeva lui, Gianni, delle dimensioni del mio ‘coso’!!!
Da allora, però, la siora Rosetta, la mamma di Gianni, mi accoglieva con un particolare sorriso, quasi di compassione, di comprensione, di misericordia, e scuoteva un po’ la testa come a dire ‘poareto’!
Era anche una inguaribile curiosa, la siora Rosetta, e cominciò a farmi delle domande: se avevo una ragazza, e cercava di scivolare nei particolari, chiedendomi se me ‘piaseva’ stare con la mia tosa.Aveva uno strano sorrisetto sulle labbra.
Poi capitò la mattina che ci incontrammo alla fermata del vaporetto, al Ponte delle Guglie. Io dovevo andare a S.Elena. La siora Rosetta mi fece mille feste, disse che lei doveva recarsi al Lido, a vedere un po’ come stava il villino che avevano in Via Dardanelli.
‘E ti, dove ti va?’
‘A S.Elena, siora.’
‘Perché non mi accompagni, ho quasi paura ad andare sola’ Dai, se non &egrave un impegno improrogabile’ fammi compagnia”
Non seppi sottrarmi, anche perché, a dirla tutta, La mamma di Gianni, che aveva sì e no 40 anni, era simpatica e un bel tocco de m’.!
‘Va bene, l’accompagno’ con piacere”
‘Spetta a dire ‘con piacere”.’
E sorrise.
Arrivò il vaporetto, salimmo, andammo dentro perché era un po’ fresca l’aria. Non c’era molto posto, sedemmo vicinissimi, e sentivo il calore del suo corpo la morbidezza dei suoi fianchi. Ci volevano quasi tre quarti d’ora. Rimanemmo così, appiccicati l’uno all’altra, anche quando qualcuno scese e ci fu più posto.
Non &egrave distante Via Dardanelli dalla fermata di Santa Elisabetta.
Il villino era grazioso, con un po’ di giardino molto curato.
La signora Rosetta aprì il cancello, poi il portoncino. Era tiepido, dentro. Mi spiegò che aveva acceso il riscaldamento, tramite telefono, perché ogni tanto ci voleva, a causa dell’umido.
Mi disse di ‘mettermi comodo’. Lei avrebbe preparato un caff&egrave e ci doveva essere anche del latte in scatola. Tolse il soprabito e apparve in una gonna scura, a piegoline, e una blusa più chiara, allacciata su un fianco. Proprio delle belle tettone, e un fondo schiena di tutto rispetto. Guardai le gambe, erano snelle e tornite. Non avevo fatto caso a quanto fosse ‘bona’ la mamma del Gianni. E non fui solo io a compiacermi di quella visione, perché l’oselìn alzò subito la testa, pur compresso com’era nei pantaloni.
‘Va in tinello, Marco, porto tutto lì’ se vuoi accendi la TV”
Avevo tolto la giacca pesante, ero in pantaloni e maglioncino, seduto sul divano, guardavo la TV. Dopo un po’, la signora Rosetta apparve con vassoio, tazze, caffettiera, scatola di latte e un pacchetto di biscotti. Mise tutto sul tavolo centrale. Mi stavo alzando per avvicinarmi.
‘Sta pur lì, caro, porto io.’
Venne a sedere vicino a me, mi porse la tazza, che aveva riempito di caff&egrave e latte, poggiò da una parte un piattino coi biscotti. Era tutto molto buono.
Mi chiese degli studi, che progetti avessi per il futuro, mi disse che era contenta della mia amicizia col suo Gianni’
Non volle che mi muovessi, prese lei la tazza vuota e la rimise sul tavolo, insieme alla sua. Tornò sul divano. Mi guardò fissamente.
‘Scusa, sa, Marco, ma le donne sonno ficcanaso, invadenti, e spesso anche indiscrete’ ma considerami come fossi la tua mamma’ perché ti chiamano ‘Caboto’?’
La cosa mi irritò, era ipocrita, falsa. Fingeva.
‘Il perché, signora, lo sa bene, glielo ha detto Gianni!’
Non riuscii a dissimulare il mio disappunto, la mia voce era aspra, sgarbata.
La signora Rosetta, mi sorrise, allungò la mano, mi carezzò lievemente la guancia.
‘Non starte a rabiàrte, tesoro. No te volevo ofender’ Niente de mal, tòso, in bòta piccola xe vin bon!’
Scossi la testa, stavo per alzarmi e andar via.
‘Vien qui, caro”
Mi abbracciò, mi strinse a sé, e io poggiai la mia testa su quelle meravigliose, calde e sode tettone, e fu spontaneo aprire la bocca e stringere un po’ le labbra.
La Rosetta sembrò volermi cullare. Sentivo il turgido del capezzolo, e, quasi come sfida, provocazione, lo addentai senza premere troppo.
Rosetta mi carezzò i capelli, e seguitava a dondolare, lentamente.
‘Proprio come un bambino”
La mia mano era scesa sulle sue cosce, sul grembo, e ne percepivo il tepore. Sentii che spostava leggermente il bacino in avanti.
Nella mia mente pensai subito: ‘hai capito la vecia’ ‘e intendevo offenderla- ‘curiosa ma anche bagolòna’, e calcai la mano. Poi la sollevai, la mano, cercai il nodo che teneva allacciata la blusa, e tentai di scioglierlo. Sentii che lei si irrigidiva, ma lasciava fare. Ecco, ormai la blusa era aperta. Dentro la mano, e anche dentro il reggiseno. Erano turgide e calde quelle grosse stuzzicanti tette. Una sgusciò fuori del tutto e mi precipitai sul lungo capezzolo a ciucciarlo avidamente. E lei seguitava a carezzarmi i capelli.
Un po’ io e molto lei, me la ritrovai seduta sulle gambe. Il tondo e prospero sedere a contatto col malloppo del mio ‘oselìn’. Si mosse, come a valutarne la dimensione, mi spinse indietro, mi staccai dalla sua tetta, mi guardò sopresa. Seguitò a dimenarsi.
‘Marco, benedeto puteo, e sto manego saria ‘caboto’?’
Alzai le spalle.
‘Eh, no, caro, gò da v&egravedare!’
Si alzò e si inginocchiò dinanzi a me.
Appena abbassò la zip e scostò il boxer, il mio ‘costeggiatore’, chiamiamolo così, si eresse pronto e disinvolto. Niente di eccezionale, poco meno di venti centimetri, con circonferenza in proporzione. Tutto in perfetta media.
La signora Rosetta sbarrò gli occhi, lo fissò, poi li alzò verso me, mi guardava sbigottita.
‘E questo sarìa Caboto?’
‘Faccia ela, siora”
Prese delicatamente, con due dita, la pelle del glande e la abbassò appena, senza scoprirlo del tutto.
‘Santa grassia del signor!’
Si chinò e con la punta della lingua lambì il meato, lo picchiettò, poi spinse la pelle in giù e girò intorno al solco balanico. Stavo fremendo, ero sul punto di spingerlo violentemente nella sua bocca.
Pur seguitando il suo delicato lavoro di lingua, Rosetta portò le sue mani indietro e slacciò il reggiseno, lo tolse insieme alla blusa. Prese ‘Caboto’ e se lo pose tra le tette, cominciandole a muovere, e lambendo il glande di quando in quando.
‘Scusi, siora, ma io fra un po”.’
‘Spetta, Caboto, spetta’ non star a’.’
Cercando di non fargli abbandonare il caldo rifugio, si divincolò stranamente e di li a poco riuscì a togliere anche gonna e mutandine.
Spettacolo incantevole, ma lo divenne ancora di più quando si alzò, mettendo all’altezza dei miei occhi la nera foresta ricciuta del suo grembo, e poi lo scuro delle grandi labbra, il rosa delle piccole’ Si mise a cavalcioni, prese il fallo e lo posizionò a quell’ingresso caldo e umido, vi si impalò golosamente, guardando in cielo, fin quando le sue natiche si posarono sulle mie cosce, che lei aveva liberato del tutto da pantaloni e boxer.
Si accomodò con calma, mentre la sua vagina palpitava intorno al mio scettro di carne. Si fermò un momento, mi guardò, con occhi stupendi, incantevoli e incantati.
Spinse il bacino in avanti, sentii il fondo del suo sesso.
La sua voce era calda, bassa, roca.
‘Naviga Caboto, naviga’.’
E cominciammo a muoverci’
‘Ciàva, amor mio, ciàva’ oh se te sento’ oooooooooh’..’
In quel momento non riuscii più a controllarmi, a trattenermi, e sentii il caldo zampillo violento del mio seme che si spargeva in lei, e lei che mi mungeva, avida, golosa’ poi fu presa da un tremito crescente’
‘Caboto’. Cabotooooooooo! Urca’ come selo bòn’ bòn’ bòòòòòòòòòòòn!’
E si strinse a me, sussultando. Mi prese il volto tra le mani e mi baciò furiosamente, sugli occhi, sulla bocca, sempre vibrando’
Ero alquanto confuso, sbalordito per quanto era accaduto, per come si era svolto il tutto.
Comunque, una ‘ciavàda’ del genere non l’avevo mai fatta. Altro che le ‘botarelle’ con questa e quella. Questa sì che era una signora ‘ciavàda’, una ‘ciavàda’ da dio!
Ero abbastanza affaticato, certo, ma non del tutto’ indebolito’ ‘Caboto’ si stava riprendendo. Altro che costeggiare, era stata una traversata memorabile, e che mare!
Sentii che Rosetta, seguitando a restare abbracciata a me, con le sue magnifiche tettone sul mio petto, stava stringendomi il fallo.
Avvicinò le labbra al mio orecchio.
‘Cossa dise Caboto, sento che ‘l ga’ ancora la vela issata’ sento l’albero’ Spetta caro’ spetta”
Si levò, piano piano, stillando calde gocce vischiose sulle mie cosce. Si voltò, si mise carponi. Il sederone verso me, le tettone lievemente pendule.
‘No te sbalàr, tesoro, va drito in canalasso”
E con una mano scostò una natica, offrendomi l’incanto del rio che mi accingevo a navigare..
Entrai con maggior piacere di prima.
Una mano a cincischiare le tette, l’altra a titillare il tumido clitoride.
E le pareti della vagina parevano impazzite.
Davo colpi decisi, i nostri corpi cozzavano, i testicoli battevano sulla sua carne, e lei contraccambiava con spinte altrettanto focose. Questa volta fu prima lei, travolta dal mio impetuoso pompare, dalle mani irrequiete, a gemere, mugolare, pronunciare parole senza senso, a dimenarsi sempre più, fin quando non urlò, roca, che stava entrando in paradiso, e terminò con Maaaaaaarco, os&egraveo de fogo’ tesoro’ amore’. Ooooooooooooooooooh!
Si gettò giù. Con la pancia per terra, braccia e gambe stese, ed io ancora in lei, che la riempivo di nuovo, mentre mi strizzava fino all’ultima goccia con palpiti voluttuosi.
Fui io, dopo, a tirarmi su. Sudato, ancora ansante, ma pienamente pago.
Quelle erano ‘ciavade’, lo ripeto alla noia. E quel po’ po’ di femmina che ancora era stesa per terra, con i vigorosi glutei all’aria, quella sì che era quanto di meglio si potesse desiderare. Avevo goduto pazzamente, anche l’os&egravelin confessava il surmenage affrontato, ma il desiderio di lei non era spento.
Mi inginocchiai vicino alla testa, che poggiava sul pavimento.
Mi chinai su lei.
‘Siora Rosetta? Sta bene?’
‘No podarìa star megio, benedetto, so’ distrutta’ , disfatta’ strachìsia..ma xe stà un piaz&egravere che mi non go’ mai goduto’ che belo, Marco, che belo”
Allungò una mano, mi carezzò il volto, l’abbassò, afferrò il mio fallo morbido e appiccicoso. Lo strinse.
‘Amor de la mamma’ te magnarìa tutto.’
E seguitò a carezzarlo.
Lentamente, si mise seduta, gambe semiaperte, folto bosco ricciuto e rorido tra esse; tettone sode; volto estasiato.
Si guardò per tutto il corpo.
‘Ostrega che casìn’ go da netàr tutto, a cominzar da mi’ Anca ti, però, Marco’ Meno mal che gavemo la doccia’ fora ‘ ‘ndemo”
Si alzò in piedi, meravigliosa, mi prese per mano e mi condusse nel bagno, aprì la doccia in attesa dell’acqua calda, vi si mise sotto e mi tirò a sé.
Cominciò a lavarmi, delicatamente, ma quando la mano incontrò ‘lui’ che tra acqua calda e carezze stava riprendendo fiato, si poggiò con le natiche alle piastrelle, mi attirò a se, sempre senza lasciare la’ presa, si flesse un po’ sulle ginocchia e vi s’impalò con decisione. All’improvviso, sollevò le gambe e con esse si aggrappò ai miei fianchi, mi abbracciò, e cominciò a dimenarsi, con le tette che si strofinavano sul mio petto.
Le misi le mani sotto le natiche, e dovevo star bene attento che quel suo cavalcare sfrenato non mi facesse piegare le gambe. Era una furia, una valchiria lanciata sfrenatamente, e divenne impetuosa, veemente quando fu presa nel vortice di un orgasmo che non accennava a finire, si ripeteva sempre più focoso, fin quando non restò quasi inerte, e dovetti sostenerla, sempre per i glutei, mentre mi scaricavo ancora in lei. Sentii le sue gambe scivolare giù, e lei quasi senza conoscenza, con la vagina che premeva in basso’ poi sgusciai fuori’ Eravamo stremati’ per poco non cademmo entrambi per terra’ l’acqua calda seguitava a piovere sui nostri corpi’
Rosetta dovette ripulire e rassettare; togliere ogni traccia. Cercai di aiutarla alla meglio.
Quando tutto fu finito, mi sorrise, mi abbracciò e baciò appassionatamente.
‘Ma chi lo avrebbe mai creduto’ e dire che ti chiamano Caboto’ con quel mànego che ti gà’ altro che Caboto’ Cristoforo Colombo, ma che dico’ ‘
Mi strinse forte e mi disse che dovevamo passare al bar, per rimetterci in forze.
Prendemmo cioccolato con panna e cialdoni croccanti. Tutto buono ed’ energetico! Mi ci voleva.
Sul vaporetto le sussurrai che c’era gente, dovevamo comportarci’bene.
‘Morettasso belo, me piasi’me piasi’mmmmmmmm.’
Scendemmo alle Guglie, c’era Gianni ad aspettarla.
‘Hai visto chi ho incontrato, Gianni? Il tuo amico, Marco. Ma che bravo che &egrave. Mi ha parlato della sua passione di esploratore e della sua smania di speologo. E’ interessante’ gli ho detto che quando può venga a trovarmi, che mi piace sentirgli trattare certe cose come le sa trattare lui..’
Si voltò a me.
‘Grazie di tutto, Marco, e vieni a trovarmi presto.’
Gianni mi guardava sbalordito.
Nel salutarmi mi bisbigliò che ero un imbroglione e chissà cosa avevo raccontato alla madre.
Alzai le spalle.
‘Fattelo dire da lei, Gianni. Ciao.’
‘Ciao, Cabo!’
La siora Rosetta che aveva sentito queste ultime parole, gli si rivolse con tono aspro e severo.
‘Mòcala Gianni, no’ star a chiamarlo così..!’
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