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Racconti Erotici Etero

Carla

By 18 Gennaio 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

 

 

Carla


Conobbi Carla nel quartiere. Come molte altre sue coetanee giocava nei dintorni del parco dove io e miei amici ci incontravamo per fare quattro chiacchiere. Era una grande famiglia quella. Dove i più piccoli giocavano sotto gli occhi dei coetanei più grandi. Ma il tempo passava. Io superavo i vent’anni , avviandomi verso i trenta, mentre lei si avvicinava verso i diciotto. Fu in quel momento che iniziai a notarla. Bassina, era un pò in carne. Ma quello che colpiva era il suo seno. Già a quattordici anni sfoderava una quarta orgogliosa che poi con la crescita era diventata una quinta.
D’estate dovevo fare gli esercizi zen per mantenere la calma quando mi si avvicinava. Perché Carla aveva una grossa simpatia nei miei confronti. Ogni volta che mi vedeva mi abbracciava. Solo che il più delle volte io ero seduto sul muretto basso che usavamo al parco come panchina, sicché quando lei mi abbracciava io finivo inevitabilmente con la testa immersa nel suo seno, sempre generosamente scoperto. Quando poi, al limite del soffocamento mi staccavo, le leggevo negli occhi sempre quel sorriso indecifrabile che non ho mai capito se era per il piacere di vedermi o per avermi tenuto al caldo fra le sue tette abbondanti. Ogni volta ripetevo a me stesso che era poco più che una bambina e che i 9 anni che ci dividevano non mi autorizzavano a farci nessun pensiero che non fosse casto e puro. Ma voi lo sapete meglio di me: a volte la mente va dove vuole. E quindi le fantasie si sprecavano. Ma mai avrei immaginato, nemmeno nei pensieri più spinti quello che poi sarebbe successo.
Era un sonnacchioso pomeriggio di pieno agosto e la maggioranza di noi era partita per le vacanze. Pure i miei se ne erano andati. Io ero solo a casa per preparare l’ennesimo esame settembrino. Il professore, con raffinata crudeltà, lo aveva piazzato nella prima settimana del mese, così da costringerci a studiare sotto la canicola. Ma quel giorno il caldo avrebbe spezzato le gambe anche ad un rinoceronte africano, figuratevi a me. Decisi così di andarmene al parco per godere dell’ombra dei platani.
Le strade erano deserte e non c’era anima viva. Solo il frinire insistente delle cicale. Anche il parco era vuoto. Le altalene si arroventavano sotto la calura. Mi rinfrescai alla fontanella in cerca di refrigerio, ma nulla si poteva fare contro quel caldo opprimente.
Fu in quel momento che la vidi arrivare. Nello splendore dei suoi 19 anni. Camminava annoiata con le sue treccine e le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans. La postura non faceva che mettere ancora di più in risalto le sue tette.
Vedendomi mi corse incontro e quando mi saltò addosso sentii la consistenza del suo seno contro lo stomaco. La cosa, come ogni volta, mi turbava.
Scambiammo qualche parola all’ombra degli alberi. Lei era uscita per non dover ascoltare le chiacchiere dei suoi ed era felice di vedermi perché se non ci fosse stato nessuno sarebbe ritornata a casa.
Volevamo bere qualcosa ma il baretto era chiuso per ferie. Così la invitai a casa mia. Nel frigo avevo ettolitri di thé freddo.
Arrivammo a casa, madidi di sudore. Sembrava che il calore potesse sciogliere l’asfalto quel giorno. La feci accomodare sul divano mentre io in cucina prendevo tè freddo, bicchieri e ghiaccio.
“Se vuoi puoi accendere il ventilatore”. Non ricevetti risposta, se non il “clik” familiare dell’accensione e, in seguito, il suo ronzare sommesso.
Quando tornai di là, carico come un mulo di mille cose, rimasi incantato. Carla era seduta sul divano con la testa appoggiata indietro sullo schienale. Teneva gli occhi chiusi e si beava del refrigerio procuratole dal ventilatore. Il suo viso era calmo, con due rose rosse sulle guance. La sua bocca piegata in un tenero sorriso. Chissà a cosa pensava…
Le braccia erano abbandonate lungo il corpo mentre il suo petto ansimava su è giù, facendo salire e scendere il suo superbo seno. Rimasi incantato a rimirarla qualche secondo finché non mi feci coraggio e ruppi l’incantesimo dicendo: “Qui c’è il thé…”. Lei aprì gli occhi e mi sorrise, mentre si avvicinava a me aiutandomi a traghettare ogni cosa sul tavolino davanti al divano.
Cosa mi stava succedendo? Possibile che stessi perdendo la testa per una ragazzina? Era questo dunque il turbamento che il vecchio professore provava guardando la piccola Lolita?
Scaccia questi pensieri dalla mia mente e cercai di pilotare il discorso su un argomento neutro come la scuola. Ma qualcosa era entrato in me. Non importava dove guardassi: i miei occhi tornava sempre lì, sul suo seno. Una goccia di sudore scivolava nell’incavo dei suoi seni, mentre questo si alzavano e abbassavano seguendo il ritmo del suo respiro…
“Allora, hai capito?” mi disse lei strappandomi ai miei sogni.
“Eh? Si certo, certo…” risposi con poca convinzione.
“Cosa stavo dicendo?” mi chiese lei indagatrice. Ahi! E adesso cosa le rispondo? Mentre cercavo di inventarmi qualcosa lei concluse “Lo vedi che non m’ascolti…”.
“Ma non Carla…certo che t’ascolto…ero solo un po’ distratto ecco…stavo pensando…”.
“A cosa?”
“Ma no, nulla….l’esame…cioè fa caldo…” annaspavo. “E poi insomma copriti un po’…”. Ecco fatto! Avevo esagerato.
Sul suo viso si compose un’espressione di stupore. Guardò prima le sue tette, poi me. Poi mi disse: “Perché cosa c’è?”. Arretrai.
“ Ma no, niente Carla…e che insomma tu sei così…voglio dire…così davanti”
“Ma ti danno fastidio?”
“Fastidio” No, ma che fastidio è che…cioè…alla fine anch’io…cioè…non sono di legno”.
La vidi annuire pensierosa e chinare la testa sul petto. Sudavo e non certo per il caldo. Seguii un momento interminabile di silenzio, rotto solo dal ronzare del ventilatore.
Rialzò la testa. Aveva un enigmatico sorriso. Un brivido mi percorse la schiena.
“Ti piacciono?” mi chiese alla fine.
“Ma che domanda è? Si certo che mi piacciono…per quello che vedo”.
“Vuoi vederle meglio?” mi chiese lei tutto d’un fiato. Non ebbi il tempo materiale per rispondere che già si era tolta la maglietta.
Ora le sue tette mi apparivano in tutto il loro splendore, trattenute appena da un reggiseno che mi apparve minuscolo.
“Sono bellissime”. Non so nemmeno e fui io a pronunciare quella frase. Le teneva ora le mani sui fianchi e mi guardava spavalda spingendo in fuori il seno.
“Davvero stupende” stavolta ero io a parlare. “Copriti dai…”
“Aspetta” mi disse solamente. Non capii subito cosa significava quella parola. Lo realizzai una frazione di secondo dopo quando la vidi armeggiare con il gancetto del reggiseno.
Cercai di colmate la distanza che c’era tra me e lei sul divano allungando un braccio mentre un “No” usciva dalla mia bocca.
Ma arrivai tragicamente il ritardo. Il suo seno mi colpì come un pugno al volto. Rimasi pietrificato, con il braccio a mezz’aria terribilmente vicino alle sue mammelle ora scoperte.
Quel seno enorme si ergeva davanti a me in tutto il suo splendore. I sui capezzoli puntavano verso di me.
Per lei fu facile, afferrare la mia mano che pendeva a mezz’aria e guidarla sulle sue tette.
Le mie dita, strette nel palmo della sua mano adolescenziale si posarono lì dove lei voleva: esattamente nell’incavo del suo seno. Quel seno che tante volte avevo spiato vergognandomi e dandomi del pervertito ora era lì sotto la mia mano. Feci scorrere le dita verso il basso, incapace di staccarle dalla sua pelle quasi che questo avesse potuto rompere un sortilegio.
Eravamo fuori dal tempo e dallo spazio. Io, il professor Humbert e lei, la mia Lolita.
Le dita scivolavano lente sulla pelle accaldata e umida dei suoi seni. Arrivato ormai al suo stomaco imposi alla mia mano di virare, di staccarsi per saggiare la consistenza delle sue mammelle.
Dure, di una durezza eburnea, sopraffina. Il quella consistenza c’era l’essenza stessa di tutta la sua giovinezza, di tutta la sua freschezza.
Quella sensazione fu per me una scarica elettrica: mandai al diavolo tutte le remore e i dubbi che avevo e l’altra mano corse a dare soccorso alla prima su quegli immensi globi di carne. Li afferrai con entrambi le mani e li spinsi l’uno contro l’altro. Carla inspirò profondamente e chiuse gli occhi. Erano bellissimi. Con indice e pollice di entrambi le mani sfiorai i suoi capezzoli, trovandoli giù turgidi ed eretti. Quando li presi e delicatamente li strinsi, parole incomprensibili le uscirono dalla bocca.
Avevo fra le dita due ciliege dure e scure che rigiravo beatamente fra le mie falangi. Avevo la bocca arsa. Il caldo, l’eccitazione, la sorpresa? Non lo so. Ma avevo di che dissetarmi. Quei due bottoncini chiamavano solo le mie labbra. Mi avvicinai, lentamente quasi con reverenza. Le mie labbra toccarono poco a poco quei dolcissimi chiodini. Li baciai come avrei baciato il volto di un neonato. Fu un contatto di labbra più che un bacio.
Ma non le lascia il tempo di protestare per il timido contatto perché le mie labbra tornarono di nuovo all’attacco, serrandosi stavolta sui capezzoli scuri. Un gemito. E un altro accompagno la punta della mia lingua quando questa iniziò una pazza danza intorno ad essi, solleticandoli e schiacciandoli con la punta.
Carla sembrava persa in un sogno dolce e bellissimo. Sul suo viso c’era un’espressione estatica. Furono i miei denti a richiamarla ad una realtà non meno dolce del sogno quando le mordicchiarono i capezzoli. Fu scossa da un brivido e prendendomi il volto fra le mani mi stampò sulla bocca un bacio eccitato e rabbioso. La sua lingua saettò nella mia bocca, sorprendomi. Ero tutto sbilanciato in avanti e con le mani mi puntellavo sul divano. Quel bacio era sconvolgente.
Ma il bello doveva ancora venire.
Perché restare su quel divano quando a pochi passi la mia camera era immersa nella penombra e nella frescura? La presi per mano e la condussi di là. Lei si faceva guidare docilmente.
La stesi sul letto e tornai ancora a leccarle i seni come avevo fatto poc’anzi. Lei teneva le braccia sopra la sua testa: si era completamente arresa alle mie labbra. Non si mosse quando iniziai a scendere verso il basso, percorrendo prima il suo stomaco e poi la sua pancia.
Quando arrivai al bordo dei suoi jeans e le allentai la fibbia emise un sospiro colmo di desiderio. Il momento che tanto aveva atteso era forse giunto per lei? Aveva già fantasticato nel suo letto che qualche uomo la prendesse così? Un uomo qualsiasi o quell’uomo ero io? Impossibile rispondere.
Ma già le mie mani avevano aperto il bottone e facevano scorrere la chiusura lampo verso il basso, mettendo il mostra i suoi bianchissimi slip.
Le sfilai completamente i pantaloni e rimasi per un momento a guardare lo spettacolo che avevo di fronte. Lei era stesa di fronte a me, quasi del tutto nuda. Le braccia erano distese sopra la testa che era girata da una parte. Gli occhi chiusi, il viso sereno. Il suo seno per effetto della gravità si era un po’ abbassato sul suo petto pur senza perdere nulla del suo turgore. La pancia lievemente sporgente, precedeva il triangolo bianco del suo intimo, da qualche usciva qualche peletto nero ai lati. Le sue gambe, sode e giovanili, erano leggermente dischiuse.
Era ora di andare, di passare il Rubicone che avevo davanti. Il dado doveva essere tratto.
Mi abbassai su di lei, immergendo il viso nel suo slip. Respirai profondamente riempiendomi il polmoni del suo odore, dell’odore che promanava dal suo giovane sesso. Mossi le mie mandibole nel falso tentativo di morderla, mentre lei muoveva il bacino schiacciandomelo contro il viso.
Afferrai l’elastico degli slip sui suoi fianchi e lo tirai verso il basso. Lei favorì la manovra inarcandosi e sollevando il sedere. Il suo sesso era ora li davanti a me, in tutta la sua impudica nudità. Un fitta peluria nera lo ricopriva, anche se potevo intravedere le labbra dolcemente dischiuse.
Mi avvicinai col il viso, quando mi accorsi che lei aveva aperto gli occhi e mi osservava. Mi fermai all’istante, interdetto. Ma nei suoi occhi lessi una muta preghiera affinché continuassi quello che stavo per fare. Si mordeva l’indice per la tensione.
La mia fronte sfiorò la sua peluria che trovai incredibilmente soffice. Il mio naso stuzzicò dolcemente il suo fiore nascosto finché le punta delle lingua non iniziò a percorrere il profilo delle sue labbra. Leccai con leggerezza, senza forzare minimamente. Volevo che spiccasse il volo, che si sentisse portata via dal piacere. Percorrevo tutta la loro lunghezza stirandole un po’ con le dita, finché non arrivano in basso a stuzzicarle i perineo e infine l’ano inviolato. Ripetei quell’amabile percorso decine di volte, lentamente finché compresi che lei necessitava di un contatto più profondo.
Per questo le allargai un po’ quelle dolcissime pieghe di carne e lasciai che la mia lingua scivolasse all’interno. Dalla sua bocca uscì un lamento, mentre ormai percorrevo sicuro la sua intimità. La mia bocca era piena degli umori che bagnavano copiosamente la sua vagina. Con l’aiuto delle dita trovai la dolce protuberanza del suo clitoride. Era duro ed eretto, gonfio e scuro. Lo presi fra le mie labbra e ci giocai teneramente. La sentii contorcersi sotto di me e compresi che lei era prossima all’orgasmo. Aumentai il ritmo delle mie leccate, rendendole sempre più profonde e appassionate.
Lei venne gridando e stringendomi la testa fra le sue cosce. Poi si abbandonò sul letto, sfinita e ansimante.

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