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Racconti Erotici Etero

Carnevale a ca’ Ramin

By 27 Giugno 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Il Carnevale, allora, iniziava con tre giorni di anticipo con i balli nella Corte del Fondaco dei Turchi. I veneziani sono sempre stati appassionati ballerini e molti erano i luoghi di divertimenti danzanti, il più famoso quello delle Zattere, ma si ballava anche nelle corti dei monasteri (permesso solo prima del tramonto).
Si organizzavano “feste da ballo in campiello”, a pagamento, come viene ricordato nel dipinto di Gabriel Bella: “Festa dà soldo in Campielo” uno scorcio della vita veneziana e delle sue feste. Allegre danze di giovani nel campiello, il fumatore di pipa con “velada”, tricorno e la lunghissima pipa; i suonatori vicino alla scaletta.
I ‘gioveni’ cercavano qualche maschera ‘foresta’, venuta da fuori, per mostrarle le bellezze e le attrattive della città, della festa, ed anche qualcosa d’altro.
Non poche le dame dell’aristocrazia che scendevano in incognito, con costumi non troppo sfarzosi per non farsi riconoscere, che non disdegnavano, anzi andavano alla caccia, qualche ‘rustego’ gancér disposto e pronto ad agganciarla. L’indomani, poi, ciacolavano tra loro, le dame, si confidavano le fuggevoli avventure e finivano sempre per invidiare le tose de calle che potevano farsela liberamente co’ quei tocchi de marcantonio!
Dal canto loro, zoveni e non zoveni, paroni de sessola o gondolieri, poareti o gran signori cercavano di divertirsi, soprattutto di’ variare.
La festa del Giovedì Grasso si teneva in Piazzetta S. Marco. Era la festa celebrativa di un’importante vittoria della Serenissima Repubblica, contro il patriarca Ulrico, devoto dell’imperatore, a causa di una bolla del Papa Adriano IV che assegnava tutta la Dalmazia al Patriarcato di Grado. Approfittando della guerra in corso tra Venezia e le città di Padova e Ferrara, Ulrico, aiutato da feudatari della Carinzia e del Friuli, assalì la città di Grado e costrinse alla fuga il patriarca Enrico Dandolo.
Il Doge Vitale Michiel II non fece passare molto tempo per riparare l’oltraggio, puntò la potente flotta veneziana verso Grado, sconfiggendo il povero patriarca Ulrico e i dodici feudatari ribelli, annientando così tutto il loro orgoglio. Condotti a Venezia, per intercessione del Papa furono rilasciati, ma Venezia chiese come risarcimento che ogni anno per il Giovedì Grasso il Patriarca di Aquileia mandasse ai veneziani un toro e dodici maiali ben pasciuti. Gli animali venivano accolti quindi come prigionieri in Palazzo Ducale, posti sopra a delle ricostruzioni lignee rappresentanti i castelli friulani . Tale onore era affidato alla Corporazione dei fabbri, assistiti da quella dei macellai (becheri) che poi li macellavano per tutto il popolo veneziano: dal nobile al condannato; da qui nasce il detto veneziano: “tagiar la testa al toro” poiché con il taglio netto della testa del toro era posta la fine dello spettacolo.
Nel 1420 questa usanza fu abolita quando il Friuli passò sotto la dominazione di Venezia in quanto la festa si era trasformata in gioco senza malizia che durò fino alla fine della Repubblica, e della sua origine storica rimase solo la partecipazione del doge. La festa del Giovedì Grasso trovava il suo culmine nelle acrobatiche imprese dei funanboli che eseguivano le loro imprese. Il famoso “volo del Turco” spettacolo che si tenne per la prima volta nel 1548 da un equilibrista turco (da qui il nome) che con bilanciere in mano salì camminando su una fune da una barca in mezzo al bacino S.Marco sino alla cella del campanile di S.Marco
Un giovane turco, acrobata di mestiere, fu protagonista di un’impresa mai vista a Venezia. Da una barca solidamente ancorata nel molo, davanti alla Piazzetta, riuscì ad arrivare fino alla cella campanaria del Campanile di San Marco, camminando su di una corda soltanto con l’aiuto di un bilanciere.
Fu una cosa impressionante, ed entusiasmò talmente il popolo veneziano che da quell’anno l’impresa, chiamata ormai “Svolo del Turco”, fu sempre richiesta a gran voce e per secoli si rinnovò durante il Carnevale.

Nelle versioni successive lo “Svolo” fu ripetuto sempre da acrobati professionisti, fino a quando alcuni popolani della categoria “Arsenalotti” non vollero provare essi stessi, prendendo la cosa così a cuore da diventare, nei secoli, la categoria specializzata in tale impresa.

Con gli anni lo “Svolo” divenne una cerimonia ufficiale che si divideva in tre fasi, che il cosiddetto “Turco” (o “Angelo” per le ali finte che aveva addosso) doveva svolgere:
1) salire sulla corda fino al campanile facendo spettacolo;
2) scendere poi con piroette fino alla loggia del Palazzo Ducale dove il Doge, assieme a tutto il potere politico e agli ambasciatori stranieri, riceveva dalle sue mani un mazzo di fiori o delle carte con dei sonetti;
3) risalire sul campanile.
Spesso in cambio del mazzo di fiori il Doge premiava il “Turco” con una somma di denaro.

Lo spettacolo non era sempre uguale: durante il carnevale del 1680 tale Sante da Ca’ Lezze riuscì a salire fino alla cella campanaria con un cavallo vivo, salì poi sopra l’angelo dove si esibì in mille piroette. Durante il carnevale dell’anno seguente salì addirittura con una barchetta, facendo finta di vogare con vera maestria da commediante e, arrivato alla cella campanaria risalì sulla testa dell’angelo con giochi da equilibrista.

Gli incidenti non mancarono, come quel tale Nane Bailo, di una famiglia di famosi arsenalotti, che nel 1759 si schiantò tra il raccapriccio della folla. Fu probabilmente a causa di questi incidenti che più avanti l’acrobata fu sostituito da una grande colomba di legno che, scendendo, spargeva fiori e coriandoli sopra la folla.
I Veneziani durante il Carnevale usavano travestirsi nelle fogge più strane e bizzarre. Un documento: “Maniere introdotte sì dagli Uomini, che dalle Donne per Vestirsi in Maschera ai tempi del Carnevale in Venezia nel secolo XVIII” elenca dei travestimenti usati dai Veneziani durante il Carnevale.
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Angela non era Furlana, perché veniva dal Cadore, dalla campagna di Feltre, ma aveva scelto di mascherarsi da contadina furlana, anzi da ortolana, con cappellino, e cestello con colombe, ovi, e insalata.
Gironzolava in Campo Santa Maria di Zobenigo.
Il nome del campo deriva dall’antica famiglia Jubanico che nell’anno 900 circa ne fu la fondatrice della chiesa di Santa Maria Zobenigo, dove giungeva il tratto di mura fortificate, a guardia della città, fatte erigere dal doge Tribuno nel X secolo, e dove, durante la guerra tra Chioggia e Venezia, c’era l’usanza, da parte dei Veneziani, di gettare una catena verso l’opposta riva di S. Gregorio per impedire l’ingresso alle barche di possibili nemici all’interno del Canale.
Al Campo &egrave anche legato il nome di Michele Steno che, nel 1355, durante un ballo in casa del Doge Marino Faliero, a quanto si dice, fu impertinente con la dogaressa tanto che il Doge lo fece cacciare dalla sala.
Per vendicarsi, lo Steno incise sulla sedia del Doge la seguente frase:
“Marin Falier da la bela mujer,
altri la gode, e lu la mantien!”
Il Doge Faliero giurò di lavare col sangue questa offesa, ma venne scoperto il suo noto tradimento e decapitato. Lo Steno invece, giunto alla vecchiaia, si vide eletto Doge a sua volta nel 1400.
Ricordi di storie lette, o ascoltate. Ritorno alla mente di poesiole dell’età scolastica, mentre Marcolin si avviava dove, fuori del piccolo negozio, conosciuto come ‘fondego de Nane el fritoìn’, s’allineavano bancarelle dove alla focaccia dolce, la fugassa, s’alternavano peoci gratinai, le cozze, e polenta e baccalà. Il tutto, logicamente, generosamente annaffiato da un’ombra de quel bon!
Il frutto delle abbondanti libagioni si manifestava allegramente. Il vecchio Marcolìn si manteneva malamente in equilibrio sulle gambe, ma ad ogni bella donna che passava, ripeteva stentoreamente la vecchia poesia goliardica:
Mona, cossa mai xestu, che ti ha tanta
Forza, e vertù de far tirar i cazzi,
che ti fa deventar i savi pazzi,
e i coraggiosi in ti se perde, e incanta.
Quei, che d’esser gran teste se millanta,
per ti deventa tanti visdecazzi,
ti fa che i vecchi fazza de regazzi,
e che fazza peccai la zente santa.
Ti ti &egrave quella, che fa che sti avaroni
Deventa generosi in tu’un momento,
e che volta bandiera i buzzaroni;
per ti el più desperà torna contento,
per ti se perde onor, robba, e cogioni.
Mona, mo cossa mai gastu là drento?
Angela sorrise divertita , ed era indecisa sul dove dirigersi. La folla andava aumentando. Lancio di coriandoli, stridore di trombette, ‘lingue di menelik’ che si srotolavano fin sotto al naso dei passanti. Era la prima volta che si immergeva in un caos del genere. Non da molto si era trasferita a Porto Marghera dove era stata assunta da una multinazionale, come infermiera professionale con qualche esperienza maturata nel pronto soccorso di Belluno.
Venezia e il suo mitico carnevale.
Mariella constatava che c’é molta originalità nel modo di fare, di agire, di considerare la vita dei Veneziani, specie di quelli che si dicono ‘caga in aqua’, quelli, per intenderci, del vecchio centro storico, che vogliono ben distinguersi dai nati in ‘terraferma’.
Forse quel cavaliere, elegantissimo, in domino nero e con una maschera di seta sul volto, era uno dei ‘venessiani de Venessia’. Camminava con un certo sussiego, con andatura tipicamente settecentesca, appoggiandosi elegantemente al bastone nero col pomo d’argento. Certo, pensò Angela, che era proprio ‘in gringola’ quel cavaliere.
Quando le fu vicino, il cavaliere abbozzò un inchino.
‘Dove ti va, mascarina, bella furlana, sta attenta che i te robba. Ti rapiscono.’
‘Non c’&egrave paura, cavaliere, so difendermi.’
‘Certo, capisso, ma mi go’ lo stocco, nell’anema del bastòn, mi te defendaria megio!’
‘E chi me difende da te, cavaliere?’
‘Cavaliere difende non offende. ‘Andiamo a San Marco.’
Le porse il braccio. Si avviarono verso il Ponte delle Ostreghe, percorsero lentamente la calle Larga XII Marzo, attraversarono San Moisé, sbucarono a San Marco, dal lato opposto alla Basilica.
Era un turbinio di gente, risa, richiami, maschere’
Furono fortunati, al ‘Quadri’ proprio in quel momento si stava alzando una coppia, e furono i primi che riuscirono a sedersi. Le lampade radianti, che erano tutt’intorno, permettevano di stare all’aperto anche se il clima non era particolarmente mite. Angela ordinò un cioccolato caldo, con panna, e il suo cavaliere, compitissimo, la imitò. La donna non permise, nel modo più assoluto, che fosse lui a pagare. Ognuno la propria consumazione.
Si vedeva che era una persona di classe. Parlava con molta proprietà di linguaggio, agiva con compostezza, elegantemente ma senza ostentazione. Alzò appena la maschera per bere. Angela era a volto scoperto.
La donna avvertiva come un alone magnetico sprigionare da quel domino, era curiosa di conoscere chi si nascondesse sotto quel cappuccio. Certamente una persona gentile, garbata, ‘di classe’, ma che aveva anche un certo potere dominante. Andava rimuginando: domino’ dominio’ dominus’ signore. In un certo senso si sentiva dominata, affascinata, dalla personalità che si celava sotto la maschera. Forse ‘pensava- era quella la dote di Casanova, il grande seduttore veneziano. Forse é una peculiarità dei maschi di questa seducente città. Insomma, era incantata e sentiva che qualcosa andava rimescolandosi in lei, il cuore batteva più in fretta, la mente era come annebbiata, il ventre si contraeva.
Fu la voce di lui a scuoterla.
‘Allora, bella mascherina, che non so come ti chiami, ti piace il cioccolato?’
‘E’ buono, grazie, lo assaporo a lungo, in bocca, prima di mandarlo giù’ Mi chiamo Angela’ e lù?’
‘Son Bepi, per gli amici Bepi’ Sai come si chiama il cioccolato caldo, quando &egrave molto denso, come quello che stiamo assaporando? Si chiama ‘bacio dei morosi’. Proprio perché si gusta a lungo, in bocca, si spande dappertutto, e finisce col dolce della panna!’
Si spande dappertutto’finisce con la panna’
Nel pensiero di Angela le parole si trasformarono in qualcosa di particolarmente sensuale; qualcosa che si spandeva in lei’
Si limitò a guardarlo e sorridere. In effetti era incantevole; gli occhi un po’ trasognanti, languidi, romantici.
Bepi mostrò come se un brivido di freddo lo percorresse.
‘Cosa ne dici, Angela, di andare al calduccio? A Ca’ Ramìn c’&egrave un ballo”
‘Si, ma so che &egrave riservato solo a pochi invitati”
‘E chi te dise che io non sia invitato?’
‘Davvero?’
”Ndemo, va. E’ vicino”
Avere un invito a Ca’ Ramìn era un raro privilegio, e Bepi doveva essere qualcuno ‘importante’ se era tra gli ospiti.
L’ingresso sul campiello, illuminato da un festone di ‘palloncini’ multicolori, era sorvegliato da due armigeri, con tanto di corazza, e dalle celate aperte si vedevano occhi attenti e scrutatori. Bepi e Angela si avvicinarono. Bepi alzò la mascherina. Era un bell’uomo, che poteva avere poco più di trenta anni, dal volto sereno, sorridente e ‘notò Angela- occhi ‘assassini’. I guardiani lo guardarono e accennarono a un saluto, si fecero da parte per lasciarli passare. Bepi, quindi, era conosciuto. Non aveva neppure dovuto mostrare l’invito!
Salirono al primo piano, dove, nel grande salone delle feste, c’era abbastanza gente, una orchestrina che suonava, camerieri in polpe che giravano con vassoi offrendo bevande e pasticcini, e coppie che ‘ciacolavano’, in disparte, o ballavano.
Bepi salutava col capo, sorridendo, a destra e manca.
Condusse Angela in un angolino appartato, nella sala adiacente, le disse di accomodarsi in poltrona, sarebbe tornato subito. Infatti, riapparve ben presto, con due coppe scintillanti, piene di champagne. Brindarono. La invitò a ballare. Cercò di stringerla a sé, ma il suo domino, e la gonna di lei, non consentivano di godere il piacere di quel contatto. Lui si chinò galantemente baciandole delicatamente il collo. Angela era sedotta da quel modo elegante di corteggiarla. Accettando di andare con lui era stata una scelta chiara, inequivoca. Nane, il suo moroso di Feltre, era lontano. E poi’ questa era tutt’altra cosa’ la faceva sentire una signora’ non aveva subito cominciato a brancicarla, toccarla qua e là, palpeggiarla, pizzicottarla senza garbo. Certo, tutto finiva più o meno nello stesso modo, ma, appunto, est modus in rebus! La reminiscenza scolastica le portò alla mente anche un’altra frase: ‘estote parati’, siate preparati. Lei lo era’ e come’!
Bepi le offrì un pasticcino, glielo portò alle labbra, un po’ maldestramente, tanto che alcune briciole le caddero nella scollatura. Fu pronto a raccoglierle, frugando dolcemente con la mano, a lungo, tra quelle belle e sode tette. Del resto, il Cadore era, ed &egrave, la terra delle più prospere e rigogliose balie. Palpava, Bepi, sì, palpava, anche sfacciatamente e incurante di eventuali sguardi curiosi, ma palpava con grazia, con gentilezza, con eleganza. Angela stringeva e allargava le gambe. Stava’ bagnandosi’
Le sussurrò all’orecchio.
‘Credo che tu voglia rinfrescarti un po”’
‘Dove?’
‘Vien”
La prese per mano, si avviò verso una porticina, sul fondo della sala. L’aprì: un pianerottolo, delle scale. Salirono due piani. Un ballatoio, due porte. Bepi si avviò a quella di destra. Ne aveva la chiave. La dischiuse, entrò in ciò che, a prima vista, aveva tutta l’aria di essere un piccolo appartamento da scapolo. Infatti, a destra un salotto-studio, dall’altra parte una camera da letto, e il bagno. Dunque, rimuginò Angela, Bepi era di casa a Ca’ Ramìn.
‘Va pure al bagno, cara”
Quando Angela ne uscì, lui era a letto, e si vedeva che non indossava pigiama. Lei pensò di mostrarsi sorpresa. In effetti non lo era, se non per i tempi: rapidi e decisi. Credeva che ci sarebbero stati degli ‘avvicinamenti’ progressivi. Comunque, dato che hoc erat in votis, accennò ad un lieve sorriso e sedette sul letto, dandogli la schiena, iniziando a togliere le scarpe. Lui le fu dietro; con delicatezza abbassò la zip della blusa. Le baciò le spalle, le lambì con la lingua facendole venire la pelle d’oca; sganciò il reggiseno, accolse nelle sue mani, con dolcezza, la magnificenza delle poppe; le soppesò, titillò i capezzoli. Angela, intanto, aveva sfilato anche le calze. Si alzò per far cadere la gonna e il tanga. Rimase in piedi, nuda. Si voltò verso Bepi, sentì il volto di lui che affondava nel suo grembo serico. Fu istintivo dischiudere le gambe. La lingua la frugava, con discreta insistenza, titillava il clitoride, sfiorava le piccole labbra stillanti la linfa della sua voluttà, si introduceva; ne esplorava le pareti; le leccava con insistenza. Lei sentiva mancarsi. Gli afferrò la testa, la strinse a sé. Lo allontanò dolcemente, sedette sul letto, si sdraiò. Ora Bepi stava interessandosi alle belle tette, con diligenza. Intanto, s’era infilato, in ginocchio, tra le gambe di lei, poggiate sui talloni. Il fallo eretto. Angela lo prese con due dita e lo portò all’ingresso della vagina, sollevando il bacino. Impaziente, quasi implorante, e lo accolse con un lungo respiro.
Un amplesso meraviglioso, al di là di ogni aspettativa, immaginazione. Una completezza inenarrabile, un appagamento paradisiaco. Lo sentiva muoversi in lei, con maestria, col desiderio di darle piacere. E ci riusciva. Stava raggiungendo sensazioni sconosciute, una marea voluttuosa che saliva’ saliva’ la travolgeva’ la sconvolgeva’ l’annientava’ Il gemito che usciva dalle sue labbra era quasi un lungo e roco mugolare’ in crescendo’ fin a un ‘Beeeepi’, urlato, mentre lo stringeva ardentemente, serrandogli le gambe sulla schiena, in attesa dell’invasione benefica del suo balsamo dissetante e appagante, placante’
Restò quasi senza fiato; ansante e sudata. Lo sentiva ancora, pulsare, deliziosamente.
Si unirono ancora, stupendamente, insaziabili, ingordi, fin quando non caddero, quasi senza accorgersene in un dolce sopore che divenne sonno. Pesante, ristoratore.
Non era ancora giorno pieno. Poca luce filtrava dagli scuri. Angela aprì gli occhi, rimase per un momento pensosa. Poi ricordò tutto, splendidamente. Sentiva lo scrosciare della doccia. Il posto accanto a lei era vuoto. Il silenzio era rotto da qualche sciabordio, dal rumore dei motori del vaporetto: quando accostava all’imbarcadero, quando ripartiva. Certo che tanti baci, tante sensazioni, tante carezze, tanta tenerezza, tanta dolcezza, tante coccole, non le aveva mai avuto. Anche il modo di accoppiarsi, pur nella sua passione, era particolare; distensivo. Appagante. No, non era usurpata la fama dell’amante veneziano. Per di più era accaduto a Venezia. E certamente Bepi apparteneva al ceto che una volta era formato dai ‘cavalieri’, i tratti e i modi del nobile, dell’aristocratico, non si smentivano. Una voluttuosa sommatoria che ancora la faceva sdilinquire. Si alzò, avvolgendosi nel lenzuolo che tirò dal letto. Si avvicinò alla finestra. Affacciava sul canale. C’era ‘caìgo’, nebbia fitta. I pochi suoni giungevano ovattati. Sentiva che anche la sua mente era avvolta da una specie di appannamento. Scuoteva il capo. Incredibile. Lei, a Venezia, con un Veneziano che abitava in Ca’ Ramìn’
Si guardò intorno, andò verso il comò, c’era un lume, lo accese. Sul piano un portafoglio dal quale usciva qualcosa. La tirò fuori. Era una carta d’identità. L’aprì. La foto di Bepi, anche lì bello, affascinante. Lesse, curiosa. Era intestata a Giuseppe Zoltan, nato a Santa Giustina di Belluno, di professione cuoco.
Santa Giustina era a sette chilometri da casa sua. Il paese di Nane.
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