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Racconti Erotici Etero

Giustizia Distributiva

By 25 Aprile 2005Dicembre 16th, 2019No Comments

Se ti annoia un episodio del secolo scorso, perché sono trascorsi oltre 62 anni da allora, chiudi pure, ne hai ben ragione.
Come mai riaffiora ora un ricordo del genere?
Perché non &egrave stato mai cancellato del tutto, ogni tanto tornava alla mente, ed ora, trovando una vecchia e gualcita icona, con una data sul retro, Natale 1942, e una firma Татьяна, Tatyana, Tanya, &egrave vivo come allora.
Avevo incontrato Gastone Borro, e in seguito lui ricordò così il momento.
‘Non eravamo uomini che camminavano, ma automi silenziosi e barcollanti che, nell’andare si urtavano come ubriachi.’
Anche io, come loro, da più di quarantotto ore ero in marcia e avevo l’impressione che, da un momento all’altro, sarei caduto a terra’ mi coricai sulla neve, al riparo di una casa; per un po’ mi addormentai, ma poi compresi che non avrei vissuto molto a causa dell’assideramento’ stavo entrando nella nebbia’ sempre più fitta’
Ad un tratto percepii qualcosa di tiepido e di bagnato sulle labbra. Strano. Era qualcosa calda’ mossi le labbra, cercai di sentire con la lingua cosa mai fosse. Sì, tiepido, caldo, bagnato, lievemente dolciastro’
Cercai di aprire gli occhi.
Stavo uscendo dalla confusione mentale che mi aveva avvolto. La foschia andava lentamente diradandosi. Penombra, un lieve chiarore di fronte a me, come un lumino. Mossi ancora le labbra, qualche stilla di quel tiepido liquido entrò in bocca. Fu spontaneo succhiare. Non capivo cosa mai fosse. Intanto, intorno a me, andavano prendendo forma le ombre. Potevo muovermi, ma con fatica. Le braccia erano lungo il corpo, lo toccavano, ma non riuscivano a sentire la ruvidità della stoffa. Cercai di muovere le dita. Si muovevano. Mi toccavo, sentivo la pelle, non la stoffa.
Battei gli occhi, più volte.
Quello che premeva sulle mie labbra, che distillava in bocca calde e dolci gocce, era qualcosa di stoffa impregnata in un liquido.
Ero disteso.
Accanto a me, sul giaciglio dove stavo supino, il volto di una donna, ed era lei che bagnava la stoffa in una ciotola e me la poneva sulle labbra. Era latte. Latte caldo.
Il primo pensiero fu che mi trovavo, finalmente, nell’al-di-là dei russi. Avevo finito di penare.
Quel volto mi sorrise, con profonda dolcezza, e annuì lentamente, col capo, in segno di soddisfazione.
Viso di donna giovane e bella.
Mi guardò con aria soddisfatta.
‘Talianski?’
‘Da.’
Si puntò l’indice sul petto.
‘Tanya, Tanya Ivanova.’
Tirai fuori la mano da sotto la pesante coperta. Mano nuda, braccio nudo. Mi indicai.
‘Piero, Peter, Peter Markvich.’
Annuì sorridendo.
Rimisi la mano sotto la coperta. Ero completamente nudo,la pelle era liscia, come dopo un bagno ristoratore.
Parlare con Tanya era un problema. Sapevo al massimo dieci parole di russo, e credo che lei non conoscesse altra lingua.
Mi guardai intorno.
La luce che avevo visto era un lumino dinanzi a una icona.
Su una sedia, poco distante dal giaciglio sul quale ero disteso (e compresi che ero su una di quelle grandi stufe dove durante l’inverno, specie in campagna, si mettono a dormire) la mia divisa, il mio pastrano foderato di pelliccia. Doveva essere stato lavato perché era in perfetto ordine. Quindi, ero rimasto senza conoscenza per qualche tempo.
Tentai di mettermi seduto.
Tanya si precipitò a prendere, in un cassetto dell’imponente armadio, una pesante e ruvida maglia di lana che mi fece indossare, e mi porse delle brache della stessa stoffa, dei grossolani calzettoni, e mi indicò due stivali di feltro dicendo ‘valenki’.
Per indossare quegli indumenti dovevo restare quasi nudo. Indugiai. Fu lei a scoprirmi del tutto, tirando via la pelle e la coperta che mi coprivano. E mi aiutò a indossare quei mutandoni. Ero molto debole, mi reggevo a fatica, mi girava la testa. Sedetti subito su una sedia e lei si precipitò a coprirmi con una specie di pesante veste da camera. Si stava bene, però, la temperatura era tiepida, gradevole. Fu lei a infilarmi calzettoni e stivali inginocchiata di fronte a me.
La guardavo attentamente.
Era giovane, molto bella, e un viso dolcissimo, ovale, con i capelli biondo oro raccolti sulla nuca. Solo allora mi accorsi che, poco discosta,c’era una culla di legno dove dormiva beatamente una bellissima piccola bimba, bianca e rossa.
Tanya la indicò, sorridendo.
‘Irina.’
Evidentemente era la figlia.
Volevo sapere tante cose. Chi era, dove ero, da quanto tempo stavo li.
Cercai di chiederglielo con uno strano miscuglio di parole, di cui molte inventate’ russizzate’
Finii col ringraziarla.
‘Spassìba Tanya.’
Con parole a me sconosciute e con intelligente mimica, mi fece sapere che mi aveva trovato svenuto, fuori della sua isba, mi aveva trascinato dentro, spogliato, lavato, frizionato, messo tra le calde coperte del giaciglio, nutrito col latte che faceva gocciare tra le mie labbra.
E quando con le mani le indicai cinque dita, facendo il gesto del percorso solare, dall’alba al tramonto, scosse la testa, dicendo ‘niet..niet’, e per due vole agito le mani bene aperte.
Quindi, se avevo capito bene, erano venti giorni che stavo li.
Intanto, s’era data da fare, aveva tolto dal fuoco una zuppa di verdura, da una specie di madia aveva preso un pezzo di pane nero, e da non so dove aveva tratto una scodella con qualcosa di cremoso e di chiaro.
Mise tutto sul tavolo, dov’era anche una ciotola, un cucchiaio di legno. Mi fece segno di avvicinarmi, di mangiare,
Indicò la zuppa di verdura, ‘borsc’, poi la ciotola, ‘sm&egravetana’. Assaggiai la crema, era panna acida. Buona. Cominciavo ad avere una fame formidabile. Feci onore alla zuppa che mi sembrò squisita, al pane di segale, squisito come un dolce, e alla smetana.
Mi guardava mangiare e mi sorrideva.
Non finivo di fare piccoli cenni con la testa ripetendo ‘spassìba’.
Mi prese per mano e mi portò di fronte all’icona, dove ardeva il lumino. Fece il segno della croce, quello ortodosso, testa-petto-destra-sinistra, e mi fece cenno di farlo anche io. Eseguii, con piacere.
Prese la foto che era sulla credenza, in piedi, verso il muro. Un giovane uomo, dal volto serio, in divisa militare. Me la porse.
‘Andrei Gavrilovich.’
E nel contempo indicò sé stessa e poi, unendo gli indici delle mani, fece capire che erano una coppia, e per sottolineare la regolarità della convivenza ripeté il segno di croce, poi indicò Irina.
Tutto chiaro.
Guardandomi fisso e indicandomi col dito, ripeté il gesto della coppia.
Credo volesse chiedermi se fossi sposato o meno.
Non so perché, ma mi venne da sorridere e annuire.
Non ero sposato, stavo per compiere ventuno anni in quei giorni.
Prese la mia divisa, indicò la stelletta di sottotenente, e portò la mano alla fronte, come saluto militare.
Seguitavo ad annuire e sorridere. Come uno sciocco.
Avevo mangiato bene, cominciavo a sentirmi bene,
Presi le mani di Tanya e cercai di pronunciare alla meglio una frase che avevo imparato:
‘Ti takàya dòbraya, sei buona, Ti takàya nézhnaya, sei dolce.’
Portai le sue mani alle labbra, le baciai.
Mani sottili, bianche, bellissime.
Si avvicinò e accostò tre volte il suo viso al mio, baciandomi nel contempo sulle guance.
La guardai, commosso, Ed anche lei lo era. I suoi occhi erano pieni di lacrime.
Era veramente bella, Tanya.
La conferma la ebbi quando, svegliatasi Irina, che non ancora aveva un anno, come mi aveva fatto comprendere la madre, lei si mise ad allattarla, tirando fuori una piccola tetta bianca e rosa, con venuzze azzurre.
Il ‘maschietto’ stava prevalendo in me. Buon segno.
Tanya, indicandomi un bambinello in una mangiatoia, mi aveva fatto comprendere che l’indomani sarebbe stata la Natività, il loro Natale, il Natale ortodosso, e io non sapevo, allora, che cadeva due settimane dopo quello cattolico.
Mi sforzai a dirle che era anche il giorno del mio compleanno. Usai una mimica particolare, nella quale c’ero io, la sua piccola, Irina, il bambinello nella mangiatoia, ed indicai anche il suo grembo, e poi me stesso’ insomma, una gran confusione. Chissà se capì cosa volevo dirle.
Mi guardò con aria sorpresa, interrogativa, e arrossì un po’.
Mi indicò, dicendo parole per me incomprensibili, e poi indicò il suo grembo guardandomi interrogativamente. Io non seppi fare di meglio che annuire. La sua espressione io l’avrei tradotta con ‘però!’, che significava tutto e nulla.
Comunque, domani sarà Natale!
Guardai dalla stretta finestra. Stava calando il sole, tutto intorno neve.
Tanya andò a frugare in una cassa, tornò con una macchina fotografica a soffietto, Agfa, e con delle pellicole ‘Agfacolor experimentell’, così era scritto sulla scatola.
‘Come te le trovi?’
Certo non capì le parole, ma interpretò l’espressione del mio viso. Mi indicò fuori dalla finestra. Fece il gesto di un aeroplano che cade.
‘Kaputt!’
E poi fece il gesto di trascinare qualcosa in casa. Mi indicò la cassetta da dove aveva preso la macchina e le pellicole. Sopra era scritto ‘Luftwaffe’.
Non sapevo, allora, che quella pellicola mi avrebbe consentito il ricordo di quel Natale e, cosa rara all’epoca, a colori.
Ormai era notte.
Mi guardai intorno cercando dove dormiva Tanya.
Nel vasto locale, che comprendeva gran parte della superficie della casetta, troneggiava la stufa a legna, alta, imponente, ed era collegata ad un piano di pietra, poggiante su altre pietre, il ché formava una specie di grossa scatola lapidea nella quale andava parte del calore prodotto dalla stufa. Su quel piano, alte tavole di legno, un saccone riempito non so di cosa, e quello ero il giaciglio dove m’ero risvegliato. L’unico. Ampio.
Volevo chiedere a Tanya se lei avesse dormito li.
Ma come farmi capire?
Indicai lei, feci segno del dormire (testa ripiegata su mani congiunte) e indicai anche il giaciglio.
Mi guardò con aria dubbiosa, esitante.
Forse non ero riuscito a spiegarmi, o chissà cosa aveva compreso.
La notte avanzava.
Mi chiese, portando la mano alla bocca, se avessi ancora fame. Annuii.
Preparò anche per lei. Lo stesso cibo di prima.
Mangiammo.
Non sapevo come ringraziarla.
Ripetei ancora le stesse parole, spassìba, sei buona, e aggiunsi ancora una frase che mi venne in mente: angelo mio, Angel moy. Allungai la mano e le carezzai teneramente la guancia.
Mi disse qualcosa, con voce dolcissima, e prese la mia mano e la baciò nella palma.
Seguitavo a chiedermi. Se io avevo dormito su quel giaciglio, dove aveva dormito Tanya?
Lei, intanto, stava allattando la piccola, con le sue belle piccole, sode tette.
Aveva acceso un lume a petrolio. Quando finì di allattare mi guardò e spense il lume. Abbastanza buio, solo il lumino dinanzi all’icona e alla foto di Andrei.
Ero rimasto seduto, vicino al tavolo.
Aggiunse della legna nella stufa, sistemò Irina nella culla, e la pose vicino al giaciglio. Cominciò a spogliarsi, lentamente.
La fioca luce del lumino la rischiarava debolmente.
Mi chiedevo cosa avrebbe lasciato addosso, per la notte, e dove era diretta.
La guardavo fissamente, con gli occhi spalancati, per cercare di vederla in quella quasi oscurità. Per quello che potevo scorgere, era bellissima, ed era’nuda, completamente. Meravigliosa Tanya, ancor più desiderabile per la strana situazione in cui mi trovavo.
Incredibile, solo allora pensai al mio reparto, a dove li avrei potuto trovare, a cosa dovevo fare.
Tanya, intanto, così, nuda come era, s’era infilata nel giaciglio.
Mi guardò e mi fece cenno di andare lì anche io.
Che dovevo fare? Dovevo restare coi mutandoni che, intanto, sfregavano ruvidamente la mia eccitazione?
Pensai che, tutto sommato, non potevo desiderare di meglio.
Mi denudai completamente e mi misi accanto a lei.
Non doveva essere sconosciuto a Tanya il mio corpo.
Quando mi aveva trovato mi aveva spogliato, lavato. E durante quei giorni aveva pensato lei a tutto. Ed ero pulitissimo. Dovunque.
Allora, aveva dormito accanto a me quelle notti.
Chissà se mi aveva toccato.
Da come mi accolse, credo di sì.
Sentii le sue mani delicate sfiorarmi il volto, il petto, e scendere giù’ afferrare il mio ‘coso’ eretto come un obelisco, e carezzarlo con delicatezza. Ebbi la netta sensazione che non fosse la prima volta che lo vezzeggiava in quel modo. Mi voltai su un fianco e avvicinai le labbra al suo seno, lo lambii, ciucciai leggermente, perché sentivo il dolce tepore del suo latte. Poi anche io scesi con la mano lungo il suo corpo e sentii i sottili fili che dal pube scendevano tra le sue belle gambe, stavo iniziando a carezzarla, quando lei disse qualcosa e mi fece capire, tirandomi con le mani, che mi voleva su lei, tra le gambe che aveva dischiuso, e come mi posizionai così, le divaricò ancora e portò il mio fallo nel caldo umido della sua palpitante vagina. Incrociò le gambe sulla mia schiena, inarcò il bacino, mi attrasse a lei e il mio sesso affondò in quell’incanto delizioso e voluttuoso che mi accolse vibrante e goloso.
Io ero giovane ed eccitato, ma Tanya era affamata, avida, smaniosa, e sobbalzava sempre più, pronunciando parole che non comprendevo, che divennero un lungo gemito, incalzante. Sembrava un mare in tempesta, e il suo grembo era percorso da onde che si ripercuotevano nell’interno, come una incontrollata mungitrice.
‘ Ah’. Aaaaaaah’. Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah!’
Un sussulto più forte degli altri e poi giacque, mentre in lei dilagava il balsamo della voluttà che aveva saputo donarmi.
Le baciai gli occhi, le labbra.
Mi prese il volto tra le mani, e mi sembrò capire ciò che diceva.
‘Ya tebyà lyublyù!’
E lo ripeté all’infinito.
Poi seppi, molto dopo, che vuol dire ‘ti amo’.
Era insaziabile Tanya.
Quando fui supino, accanto a lei, non perse tempo. Si accertò che tutto era’ pronto, e si infilò su di ‘lui’, lanciandosi in una galoppata che i cosacchi del Don sparivano di fronte alla sua foga.
Poi venne ad accucciarsi tra le mie braccia, e cadde in un sonno che, però, interrompeva spesso per baciarmi e carezzarmi, mentre io non smettevo di frugarla tra le gambe, riscuotendo meravigliose e voluttuose contrazioni di natiche tra le quali alloggiava il mio arzillo arnese. La posizione era adatta, gli strumenti erano idonei, e ritornai in lei, titillandole il piccolo clitoride e carezzandole le tette, senza strizzarle per non far uscire il latte. Ed ancora una volta fu il mio latte a spandersi in lei.
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Ogni tanto, di mattino, Tanya usciva. Mi lasciava la bambina. Tornava poco dopo con provviste e qualche volta aveva anche un po’ di soldi in mano.
Utilizzando le poche parole che cominciavamo a scambiarci, con non poco sforzo, mi sembrò di capire che aveva un sussidio per il marito alle armi e che una sorta di cooperativa le dava quanto necessario per alimentarsi. Evidentemente doveva avere degli appoggi, perché le razioni erano più che abbondanti per una donna sola. Poi seppi che il segretario politico del villaggio, nonché capo della comunità cooperativa, era suo nonno che stranamente, pur essendo molto critico verso l’attuale politica, era molto rispettato perché era stato uno dei compagni di Stalin.
Ogni giorno era soprattutto Tanya ad imparare qualcosa di Italiano.
C’era un vecchio libro scolastico, con foto e disegni. Io cominciai col nostro alfabeto. Scrivevo su un foglio di quaderno vocali, consonanti, e le insegnavo a leggerle. Poi, indicando persone, cose, disegni, fotografie, ne pronunciavo il nome. E così via.
Erano trascorsi alcuni mesi, era giunta la stagione calda.
Chiesi a Tanya come potessi fare per raggiungere un reparto italiano.
Mi fece capire che non sapeva dove fossero, che dovevo stare nascosto, perché non era quello il momento di farsi vedere in giro. Lei aveva parlato di me con suo nonno, e proprio lui aveva consigliato la mia segregazione. Si sarebbe veduto in seguito.
Irina cresceva a vista d’occhio, cominciava a tentare i primi passi.
Tanya aveva preteso che mi facessi crescere la barba. Aveva nascosto in fondo alla cassa la mia divisa e tirato fuori abiti evidentemente del marito. Guardandomi allo specchio facevo proprio la figura di un mugik.
Inutile dire che conducevamo ‘regolare’ vita coniugale, e che eravamo sempre desiderosi l’uno dell’altra, e viceversa.
Avevo voluto imparare qualche frase nella sua lingua, e gliele ripetevo. Dapprima rideva divertita, correggeva la mia pronuncia. Poi le ascoltava, felice, ed era ancor più appassionata.
‘Ya tebyà lyublyù, dévochka moyà’ Ti amo bambina mia.
‘Lyubòv’ moy, pridì ka mné, ne magù zhìt’ bes teby’ Vieni da me, amore mio, non posso vivere senza di te.
Era la sua risposta, mi attraeva a se ed attendeva che la penetrassi lentamente, che la cavalcassi a lungo, che mi sciogliessi in lei. O era lei a impalarsi, guardandomi fissamente con quegli occhi azzurri e profondi, i capelli sciolti, il seno sussultante, gemendo di piacere, mungendomi appassionatamente, fin quando non si abbatteva su me, in estasi, voluttuosamente spossata, ansante, sudata. E sapeva di buono.
Il suo vocabolario italiano cresceva giornalmente. Quello che mi meravigliava era che, in ormai diversi mesi non avevamo mai avuto motivo non dico di litigio ma neppure del più piccolo disaccordo. Mi chiedevo se tanta dolcezza, parta mia, non fosse dovuta al fatto che forse se mi avesse messo alla porta sarebbe stata la fine per me. No, era che la sua tenerezza, la sua dedizione, il suo amore, la sua voluttà, la sua frenesia, quel suo donarsi e pretendere, non consentivano screzio alcuno.
Quel pomeriggio eravamo soli, Irina era stata portata dai nonni, e davamo sfogo al nostro desiderio, come se fossimo stati continenti troppo a lungo. Era supina, io, col capo sul suo dolcissimo seno, le carezzavo l’addome. Lo palpavo. Mi sembrava che Tanya fosse un po’ ingrassata, non molto.
Glielo dissi, guardandola.
Mi carezzò il volto.
‘Niet, amore mio, niet Piero, no, non sono grassa. E’ una nuova vita che cresce in me.’
Fu come un fulmine a ciel sereno. Tanya era incinta.
‘Aspetti un figlio?’
‘Dà, tuo figlio!’
Rimasi come fulminato.
‘Da quando?’
‘Due mesi. Sei contento. Figlio di Tanya e Piero, Ruski-Talianski.’
Mi sorrise, seguitando a carezzarmi il viso.
Poi scese con la mano, mi afferrò il sesso.
Annuì con la testa.
‘Lui padre’.’
Prese la mia mano e la portò tra le sue gambe.
‘Lei madre. Vieni.’
E volle sentirmi su lei, in lei. Mi tenevo sulle ginocchia per paura di farle male, di far male a mio figlio. Tanya fu dolce, tenera, ma poi divenne la solida avida, scatenata, fino a quando non rimase travolta da uno dei suoi sconvolgenti orgasmi. Dilagai in lei, incrociò le gambe sulla mia schiena, mi tenne stretto in lei, col grembo che palpitava.
Fu quella sera, dopo cena, mentre stavamo per andare a letto, che con voce incerta, e indicandole la pancia nuda, il grembo dorato, le chiesi:
‘E’. Andrei?’
‘Se lui si trova come te, solo, abbandonato, io sono contenta che lui trova donna che lo ama, e che lui, per ringraziarla regala a lei un figlio.’
La guardai sorpreso.
‘Io ho regalato un figlio a te?’
‘Si, si, amore, grande regalo, fammi ancora sentire come hai fatto per regalare un figlio a Tanya, tuo figlio.’
E come, se ‘glielo’ feci sentire. Oramai!
Dopo, mentre era tra le mie braccia, così calda e appassionata. Cercai di riportare il discorso sul bimbo, su Andrei, sul giudizio della loro comunità.
Mi guardò con occhi splendidi, stringendosi a me. Rimase pensosa per un po’ forse per preparare la frase, per cercare le parole. Le trovò, anche difficili.
‘Io con te, Piero; Andrei con altra. Come buoni compagni, fratelli cristiani. Amore e giustizia. Giustizia distributiva.’
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