Il sesso, come l’amore, la politica e la religione è tanto diverso in ognuno di noi che poter pensare di viverlo allo stesso identico modo di qualcun altro è impossibile; persi la verginità che non avevo neppure quattordici anni, avevo tanto fantasticato sulla mia prima volta dolce e romantica, con quello che avrebbe dovuto essere il mio primo amore, ma non fu così.
Il mio approccio al sesso fu particolare, probabilmente il mio approccio alla vita lo era.
Provai un forte dolore quando donai ad un semi-sconosciuto il mio imene, in una calda giornata estiva, seduta sul cofano aperto di una macchina. Probabilmente fu in quel momento degradante che l’essenza latente della mia anima iniziò a pervadermi, a prendere il controllo di ogni muscolo, nervo, cellula.
Avevo ormai sedici anni, mi piaceva giocare a fare la bimba viziata, arrogante e piena di sè, mi eccitava sfidare, provocare gli uomini più grandi di me, amavo, amo, sentirmi desiderata, una ninfetta in grado di risvegliare i più sudici e perversi desideri.
Un giorno saltai la scuola e mi rintanai in un bar, dove vidi un uomo, non ci fu nessun contatto verbale o fisico, solo un rapido e fugace sguardo.
Non sapevo dire di preciso che età avesse, ma supposi si aggirasse fra i trentacinque e i quaranta, aveva capelli folti e brizzolati, occhiali dalla montatura scura, era alto ed aveva spalle larghe, probabilmente, pensai, si teneva in allenamento, nonostante l’accenno di pancetta che tirava appena i bottoni della camicia azzurrina che aveva.
Mi incuriosì e lo cercai.
Marinai spesso le lezioni e altrettanto spesso mi fermai lì dopo la scuola, passarono mesi ed avevo perso le speranze, tanto da arrivare quasi a dimenticare il suo viso; credevo che se lo avessi rivisto non lo avrei neppure riconosciuto.
Una mattina, infastidita da urla più forti di quelle che erano solita ascoltare fra le pareti domestiche e con poca voglia di ascoltarne altre fra quelle scolastiche, mi fermai in quel bar; passai la mattinata seduta in uno di quei tavolini rotondi, grandi abbastanza giusto per una colazione, a bere caffè americani e a spostare su fogli a quadretti la merda che avevo in testa, troppo immersa nel mio mondo per rendermi conto di quello che avevo attorno.
Una voce mi fece sobbalzare, sgranare gli occhi confusa, una voce maschile, calda e profonda, un ‘Salve’ donatomi in maniera apparentemente distratta e rapida, mentre lui, l’uomo che avevo a lungo cercato con lo sguardo, sbirciando nella grande vetrata del bar ogni volta che, andando a scuola, allungavo il tragitto a piedi, mi sfilava accanto per sparire un istante dopo sotto l’insegna ‘Toilette’.
Non riuscii neppure a rispondere, tanto inaspettato fu quell’incontro e mi scoprii, notando la mia immagine riflessa nel vetro del locale, a fissare il vuoto con un buffo broncio disegnato sul viso.
Sentii lo scarico del bagno e dopo una manciata di secondi la chiave che scattava e tirai un mezzo sorriso sghembo, asimmetrico.
‘Ciao” snocciolai quando vidi la sua figura riapparire nell’ambiente e riabbassai lo sguardo sui miei quaderni, sentii i suoi occhi addosso e per la prima volta in vita mia mi sentii in difetto, in soggezione.
Mi presi il tempo di riempire i polmoni prima di rialzare gli iridi chiari sull’uomo che, notai, stava guardando la mia borsa gettata a terra ed i libri e quaderni sistemati un po’ sul tavolo, un po’ sulla sedia alla mia sinistra.
‘Dovresti essere a scuola, immagino.’
Arricciai il naso in risposta, probabilmente rendendo ancora più infantile il mio viso dai lineamenti delicati e tondi. A quella mia espressione lui si sciolse in una risata calda e cristallina.
‘Hai anche piantato qualche moneta?’
Mi chiese; ammetto che impiegai qualche secondo a cogliere la sua allusione, nonostante fossi appassionata di cinema e conoscessi a memoria, soprattutto, tutti i film animati che avrebbero dovuto restare relegati all’infanzia, ma ebbi comunque la prontezza di ribattere.
‘Non ho ancora incontrato né il gatto, né la volpe.’
Condii il tutto con un sorrisetto, ma sentii le gote divenir bollenti.
Rise. Di nuovo.
Faticai a sostenere il suo sguardo; aveva degli occhi scurissimi, quasi neri, non troppo grandi che, dietro le lenti degli occhiali, fissavano i miei, nemesi dei suoi, grandi, chiari e incorniciati da trucco nero impreciso e in parte sciolto.
‘Alessandro.’
Disse porgendomi la mano destra, che strinsi.
Aveva delle mani molto grandi e la mia, bianca, morbida e mangiucchiata, quasi spariva nella sua stretta sicura.
‘Giulia.’
Risposi, trovandomi ancora a sorridere appena, sempre contenuta. Non mi sbilanciavo mai, non perché non volessi o perché facesse parte della sceneggiatura che mi divertiva interpretare, non era da me.
Così credevo.
‘Lei ha finito la scuola, presumo, cosa”
Mi interruppe, scuotendo il capo.
‘Lei” Sbuffò. ‘Così mi fai sentire vecchio, Giulia.’
Lo sentii pronunciare il mio nome e deglutii l’aria. Mi sentivo nuda. Mi sentivo nuda e non capivo perché.
La risata che sciolse entrambi mi diede qualche secondo per tornare coi piedi a terra e annuii.
‘Scusami, scusami.’
Risposi un attimo prima che mi suonasse il cellulare che era poggiato sul tavolo, abbassai un attimo lo sguardo, un sms, mia madre. Notai l’ora, il mio pullman sarebbe passato da lì a minuti.
‘Merda.’
Commentai tornando a cercare quel pozzo nero e profondo che erano i suoi occhi.
‘Cosa?’
Mi domandò.
‘Ho preso il pullman.’
Mentii.
‘E ora?’
Chiese. Presi il cellulare e digitai rapidamente il testo di un messaggio.
-Resto a pranzo da una compagna, dobbiamo finire un progetto! Ci vediamo stasera.-
‘Risolto.’
Tirai un’espressione compiaciuta.
‘Appunto.’
Commentai poi, ricevendo un telematico sms di mia madre.
-Ok, baci-
Agitai il telefono.
‘Abbiamo iniziato un progetto oggi, sono da un’amica a concluderlo, ora.’
Si trovò nuovamente a scuotere il capo un paio di volte.
‘Beata gioventù!’
Commentò.
‘Le piace sentirsi vecchio, vedo!’
Volontariamente tornai a quel tono tutt’altro che confidenziale, nonostante il rigore delle mie parole forse smorzato dalla curva delle mie labbra.
‘Allora, ragazzina!’
Fu la prima volta che mi chiamò così e in quel momento sentii una morsa stringermi la bocca dello stomaco; sgranai gli occhi, credo, che rimasero però fissi nei suoi, quasi ne fossero affamati. Non riuscii a dire nulla, ma fu lui a spezzare quei secondi di silenzio.
‘Mangio un boccone e torno in ufficio, immagino tu non abbia nessun progetto da terminare.’
Con il capo fece cenno al bancone del bar.
‘Ti ordino qualcosa?’
Le mie ciglia sbatterono veloci un paio di volte, annuii, ma mi alzai in piedi avvicinandomi al barista, non so ben dire perché.
Lui mi seguì, ordinammo due primi da tavola calda; quei piatti che vorrebbero venderti come prelibatezze, ma che in realtà hanno quel disgustoso retrogusto industriale.
Tornammo al tavolo che liberai rapidamente di tutte le mie cianfrusaglie che gettai disordinatamente nella borsa, lui sedette con me, per poi andare a prendere il nostro pranzo, quando richiamato dalla bionda al bancone; una donna sulla quarantina, con labbra siliconate e trucco pesante che lo accarezzò languidamente con lo sguardo.
Le conversazioni durante quel pranzo improvvisato furono leggere e scorrevoli, gli dissi che frequentavo il liceo artistico lì vicino, che amavo il cinema, parlammo di film, mi disse che lavorava in un’azienda nella traversa parallela, senza scendere in dettagli che non osai chiedere, commentammo quello che stavamo mangiando e lo slogan squallido di una bevanda.
Mi ero sciolta, le parole scorrevano tranquille ed erano alternate a risate e silenzi presi, mai vuoti, pesanti o insostenibili, ma qualcosa non mi permetteva di rilassarmi del tutto; i miei nervi erano tesi come un attimo prima di esplodere in un orgasmo, quando tutto il tuo corpo si fa rigido, pronto ad impazzire di piacere.
Fui delusa quando guardò l’orologio e mi disse che era tardi, che sarebbe dovuto tornare a lavoro e si alzò, prendendo il suo ed il mio vassoio.
‘è stato un piacere, Giulia.’
Mi disse; sentivo la sua bocca riempirsi del mio nome.
‘Hai una bella testolina.’
Una bella testolina.
Una. Bella. Testolina.
‘Ci penso io, mh.’
Fa cenno ai vassoi.
‘Oh, no no!’
Rispondo con un vistoso scossone del capo.
‘Ragazzina, shhht!’
Non osai ribattere e rimasi intontita a fissarlo andare al bancone, posarvi i piatti e saldare il conto per poi uscire, senza prima però avermi salutato con un gesto della mano.
Restai al tavolo a fissare il nulla per non so quanto tempo prima di riprendere le mie scartoffie e ricominciare a scrivere e scarabocchiare; non trovavo la concentrazione, iniziavo una frase e finivo per cancellarla con una linea, oppure mi scoprivo a disegnar cerchietti casuali seguendo i quadretti dei fogli, fin quando non si fece l’ora di tornare a casa.
Una cena sbrigativa con mio padre che cercava di guardare il telegiornale e mia madre, svampita come al solito, che parlava velocemente di argomenti dello spessore della pagina di quei settimanali che le piacciono tanto.
Andai in camera mia, mi spogliai, ero solita dormire nuda, spensi la luce, mi stesi a letto e feci partire un film sul portatile; ero tanto sovrappensiero che non ricordo neppure di che film si trattasse.
Quando mi resi conto di cosa stavo facendo avevo già le cosce divaricate sotto le coperte ed umori caldi che inumidivano il mio sesso carnoso.
Indice e medio della mano destra torturavano il clitoride velocemente e con forza, mentre nella mano sinistra avevo una spazzola e mi stavo penetrando la figa con il manico.
Mi dimenavo nel letto, in preda ai gemiti che cercavo di trattenere mordendo le lenzuola; ogni centimetro del mio corpo era infiammato, la mia pelle morbida e candida era lucidata dal sudore, il viso arrossato e gli occhi chiusi.
Immaginavo di essere presa da quell’uomo, di sentire il suo corpo che schiacciava il mio contro la parete fredda del bagno del bar, mentre il suo sesso si faceva strada fra le mie giovani e bollenti carni.
Sognavo che il suo membro mi sbattesse con la stessa violenza ed irruenza che io, in quel momento, mettevo in quella spazzola, quel pezzo di plastica freddo che mi scorreva dentro, che si impregnava dei miei umori.
Riversai il capo indietro e mi lasciai andare all’orgasmo che sentivo montare immaginando i fiotti del suo sperma caldo sporcare il mio faccino delicato, pallido ed infantile.
Godevo, pensando ai segni che quell’uomo avrebbe dovuto lasciare sul mio corpo, lividi, graffi e morsi, come gioielli effimeri sul corpo morbido di una Ragazzina.
– Passarono giorni, quell’uomo era divenuto un chiodo fisso.
‘Deve essere mio.’
Pensavo; mi era capitato spesso di pronunciare tali parole in passato, lo ammetto, ma non erano altro che capricci, i miei, voglie momentanee, temporanee, in questo caso no.
Sentirlo sulla pelle divenne una necessità, non solo un desiderio.
Il clima iniziava a farsi più mite, tornai a casa dopo l’ennesima noiosa giornata fra le mura scolastiche con le solite pagine di compiti assegnati che puntualmente restavano bianche
Allungai, come ogni giorno, il tragitto a piedi che dalla scuola conduceva alla fermata dell’autobus; ormai ero solita guardare dentro il bar, affacciarmi alla grande vetrata e soffermarmi anche per interi minuti, sbirciare nella via parallela, quella dove sapevo essere il suo ufficio.
Mi sentivo tremendamente idiota.
Conoscevo giusto il suo nome, sapevo che preferiva la birra scura alla chiara e che i suoi gusti cinematografici erano molto affini ai miei.
Neppure quel giorno lo incontrai.
Appena arrivai a casa mi trovai immersa nella solita tensione che da tempo ormai rendeva densa e pesante l’aria. Fra occhiate malevole e frecciatine consumai rapidamente il pranzo, pietanze insipide gentilmente offerte dalla dieta di mia madre, quella settimana ne aveva trovata una nuova in una rivista, prometteva miracoli, avrebbe perso sette chili in dieci giorni, e mi rintanai nella mia stanza, iniziando il giro di telefonate ed sms per organizzare quel sabato sera, solito programma, solite scuse da inventare con genitori, fratelli o familiari vari ed eventuali.
Erano le tre del pomeriggio, non sarei uscita prima di sei ore; presi una raccolta di racconti ed aprii.
Pagina 142.
Graham Greene.
‘I distruttori’.
Era il mio preferito.
Lessi il racconto tutto d’un fiato; Trevor era il personaggio che preferivo. Un ragazzo dallo sguardo inquieto e profondo.
Pensai agli occhi di quell’uomo, cercai di immaginare la sua vita, le sue giornate.
Ogni supposizione, idea, pensiero, finiva con me nuda, ora nel bagno, ora china sul tavolino freddo dove avevamo consumato quel pasto, ora in piedi con il viso schiacciato contro la parete ruvida di un edificio nel vicolo parallelo, quello dove lavorava.
Dovevo uscire.
Mi alzai, riempii la vasca e mi immersi nell’acqua calda. Amavo quei momenti di coccole che ero solita donarmi, mi piaceva viziarmi, vedere il mio copro candido riflesso nel grande specchio del bagno appannato dal vapore.
Mi accarezzai i seni, erano tondi e sodi, non eccessivamente grandi, avevo i capezzoli turgidi, eccitati; li stuzzicai, con le dita della mano sinistra, mentre la destra scendeva fra le cosce.
Iniziai a massaggiarmi, a titillare il clitoride con delicatezza, sfiorandolo appena e provocandomi lievi sussulti, sentivo il calore dei miei umori, nonostante l’acqua.
Mi soffermai ancora un po’ sul quel punto particolarmente sensibile, prima di affondare due dita nella mia intimità calda ed accogliente.
Abbandonai indietro il capo, immergendolo fino a coprire le orecchie, i miei capelli ramati galleggiavano a filo d’acqua come tentacoli, mentre mi frugavo dentro.
I movimenti erano sempre più rapidi, forsennati, più mi avvicinavo al piacere più il mio corpo si faceva rigido, muovendosi a scatti.
Stringevo, strizzavo i seni che uscivano dall’acqua, esposti all’aria fresca dell’ambiente che rendeva i capezzoli ancora più duri e turgidi.
Esplosi in un orgasmo che mi fece scattare, a fatica trattenni un gridolino di piacere, ogni centimetro del mio corpo era in preda agli spasmi del godimento.
Mi abbandonai al calore dell’acqua, rilassandomi.
Quando riemersi mancavano ancora quattro ore all’appuntamento col solito gruppo di amici.
Mi vestii in fretta, il clima addolcito dall’avvento della primavera mi permise di evitare maglioni o felpe pesanti, indossai una t-shirt scura maschile con una stampa sopra, il logo di una qualche band rock, tagliata alla buona, in modo da scoprire le spalle esili, un paio di jeans chiari che aderivano alle mie gambe tornite, seppur tutt’altro che slanciate, risultare slanciata dall’alto del mio metro e cinquantadue era pressoché impossibile, anfibi bordeaux con la suola e i lacci neri, i capelli ricci e ramati raccolti in una coda alta e una linea d’eyesliner sugli occhi. Presi la borsa più piccola che avevo, in finta pelle nera con qualche borchietta qua e là, niente di eccessivamente appariscente o vistoso, ci misi il cellulare, un pacchetto di camel light da venti, buttai dentro i soldi così, recuperai la cima di marijuana che avevo nascosto nel cassetto del comodino e la nascosi nella coppa del reggiseno.
Uscii di corsa, salutando rapidamente ai miei e giustificando la dipartita con un cambio di programma dell’ultimo minuto, gli ricordai che non sarei tornata a dormire e mi chiusi la porta alle spalle.
Raggiunsi la fermata dell’autobus, il tabellone segnava l’arrivo entro quattro minuti; attesi sulla banchina con la sola compagnia di una sigaretta; arrivò stranamente in orario, salii, per scendere qualche chilometro dopo, dov’ero solita scendere per andare a scuola.
Percorsi a piedi la strada fino al bar, pensai di tornare indietro innumerevoli volte, scelsi un tavolo che mi permetteva di tener d’occhio il viavai della strada, ordinai un caffè americano e lo consumai fissando fuori.
Non so quanto tempo aspettai, non so neppure quanto volte uscii dal locale per affacciarmi al vicolo parallelo, scrutando edifici e passanti.
Ero fuori a fumare, quando lo vidi uscire dal vicolo e agitai la mano a mezz’aria, probabilmente risultando abbastanza goffa.
‘Hey!’
Cercai di catturare la sua attenzione, che si guardò intorno assottigliando lo sguardo alla ricerca della provenienza della mia voce, che non so dire se riconobbe, appunto, come mia.
Mi guardò dietro le lenti e mi mosse verso di me.
Io sentivo le mani sudarmi e le gote arrossarsi.
Abbozzò un sorriso quando fu abbastanza vicino da permettermi di vederlo.
‘Ciao ragazzina!’
Guardò l’orologio che aveva al polso.
‘Non è un po’ tardi per essere qui? Non è orario scolastico, questo.’
Scossi il capo.
‘O magari è troppo presto.’
Ammetto d’aver avuto difficoltà a rispondere.
‘Troppo presto?’
Mi scrutò, lo fece senza ritegno, non sembrava interessarsi di poter apparire invadente, i suoi occhi scuri scorrevano sul mio corpo, sulle mie forme fiorenti ed io li sentivo, li sentivo come fossero mani che mi stringevano la carne.
‘Dovrei vedere degli amici alle ventuno, ma non avevo voglia di restare a casa, così sono”
Impiegai qualche attimo per formulare quella frase, che spezzai.
Deglutii aria, accennai un mezzo sorriso.
”così sono uscita.’
Terminai la frase.
Lui in risposta fece cenno al bar con il capo.
‘Devo proprio piacerti questo posto.’
‘è familiare.’
Risposi.
Ebbi indietro solo un mezzo sorriso, lo vidi controllare l’ora e sgranai gli occhi.
Diedi un colpetto di tosse e mi guardai rapidamente intorno, ero terrorizzata andasse via.
‘Prendi un caffè?’
Mi sentii divampare, parlai molto più velocemente del solito e abbassai la voce.
‘Come scusa?’
Lui si sciolse in una risata, abbassai lo sguardo e scossi il capo, il tempo necessario per forzarmi di tirar fuori un sorriso.
‘Oh no, nulla.’
Lo vidi farsi serio, aggrottai la fronte.
‘Cosa hai detto, ragazzina?’
Sentii il mio corpo farsi ancora più teso, riempii i polmoni e mi presi un istante prima di rispondere.
‘Ho solo chiesto se volevi un caffè”
Questa volta scandii le parole, mantenendo comunque un tono di voce abbastanza basso.
Si avvicinò alla porta del bar, la aprì e mi puntò gli occhi addosso.
‘Entra.’
Lo feci senza ribattere, sentii che chiuse la porta dietro e mi voltai per cercarlo con gli occhi.
‘Vai pure a sederti allo stesso tavolo, ci penso io.’
Le sue parole erano cortesi, ma suonavano più come un imperativo, che come un invito.
Stavo per ribattere, aprii la bocca per farlo, ma la sua occhiata mi fece desistere.
Andai a sedermi, stesso tavolo, stessa sedia, lo tenevo d’occhio, lo vedevo ordinare alla bionda al bancone, attendere per poi dirigersi verso di me con una tazza di caffè americano nella mano destra, con due bustine di zucchero di canna sul piattino e un caffè in bicchierino di vetro, senza cucchiaino e senza zucchero.
Mi porse l’americano, lo ringraziai, posò il suo sul tavolo e si sedette davanti a me.
Ci fu una manciata di secondi di silenzio, puntò gli occhi nei miei, quasi volesse sfidarmi, ma non abbassai lo sguardo, sostenni il suo, per poi spezzare il silenzio.
‘Come lo sai?’
Con il capo feci cenno a quello che aveva ordinato per me.
Caffè americano con due bustine di zucchero di canna.
‘Sono un buon osservatore.’
Come dargli torto?
Grazie Rebis
Storia molto intrigante. Per favore, continua! :)
In tutte le volte in cui Maria ordina a Serena di spogliarsi, Serena rimane sempre anche a piedi nudi oppure…
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grazie amore