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Il Gioco del Mentore, Tra Dolore e Piacere – Sguardi, Carezze e Ordini

By 20 Novembre 2025No Comments

Arrivai volutamente in ritardo.

L’avevo chiamata per dire che arrivavo minacciando di non farmi aspettare, in quel momento era di sicuro già davanti al citofono, in preda all’ansia. Premetti il pulsante col suo nome, la porta fu aperta all’istante, come mi aspettavo. Entrando sogghignai, ancora una volta avevo visto giusto.
Non ero mai stato in quella casa, l’androne aveva odore di umido che il deodorante per ambienti non riusciva a mascherare. Non era sgradevole ma dava un’impressione malata, come se ci fossero rose, da qualche parte, sul punto di marcire.
Evitai l’ascensore, qualche rampa di scale mi avrebbe fatto bene, anche se la borsa di attrezzi che progettavo di usare era piuttosto pesante. Salivo e pensavo alla donna che mi attendeva turbata e in apprensione. L’avevo incontrata in una scuola di tango. Spesso in questi posti incappavo in qualche soggetto interessato ai miei giochi.
Lei era piccolina, appena grassottella ma ancora soda, una biondina un po’ slavata, apparentemente insignificante. Anche se ad uno sguardo più attento mostrava notevoli qualità nel fisico morbido, dalle proporzioni armoniose.
Quarantacinque anni portati senza troppe ingiurie, non troppo intelligente, ne brillante, un carattere malinconico, con un tratto rassegnato. Sembrava che si infagottasse per nascondere le sue forme tutt’altro che spiacevoli. Vedova.
Il marito, morto da poco, non le aveva lasciato grossi rimpianti, non essendosi mai preoccupato di capirla e privo della fantasia necessaria per soddisfare la sua indole passionale ma le aveva lasciato comunque una situazione economica tranquilla. Il che non guastava.
Un matrimonio monotono: poco sesso, niente figli, nessuna fantasia. Era morto all’improvviso senza nemmeno sospettare il vulcano di passioni, lussuria e desiderio che covava nel ventre della donnina che aveva accanto.
Lei, per pudore, non aveva mai osato nemmeno immaginare di poter accennare alle smanie che covava, si limitava a fantasticare su quelle che riteneva impulsi inconfessabili e si sfogava masturbandosi di nascosto, morendo di vergogna e sensi di colpa.
Ho un fiuto infallibile per certi caratteri e con tatto la avevo avvicinata. Dopo qualche incontro innocente e qualche accorta domanda, aveva iniziato a confidarsi.
In breve: si era sposata col primo che le aveva dato retta, per sfuggire alla famiglia. Una madre succube e bigotta, un padre rigidissimo, aggressivo e autoritario puniva la moglie per qualsiasi ombra di mancanza, umiliandola quando erano in pubblico e con volenze fisiche quando erano celati dalla porta della camera da letto.
Era impossibile non udire i colpi e i lamenti dietro quella porta ed era impossibile non sentire quando i gemiti cambiavano tono, sostituiti da un altro tipo di agitazione. Poi il silenzio. Anche le mancanze della figlia erano punite a furia di cinghiate, seguite da abbracci e carezze che le davano un senso di ambiguità e pericolo.
Il matrimonio l’aveva liberata dalla oppressione del padre e dalle sue attenzioni che con il tempo e la maturazione del suo corpo si erano fatte sempre più morbose.
Purtroppo quella unione affrettata non l’aveva liberata da certi impulsi che, a partire dalla pubertà, si erano fatti sempre più pressanti. Sempre più spesso era stata lei stessa a  provocare le punizioni del padre. Le cinghiate che riceveva avevano iniziato a stimolare brucianti pulsazioni al basso ventre e la lasciavano singhiozzante, con le cosce in fiamme e la vulva scivolosa e sensibilissima quando poi si masturbava strizzandosi i capezzoli.
L’interesse sincero che dimostravo alle sue confidenze la incoraggiavano ad aprirsi sempre di più e le sue confessioni si facevano sempre più esplicite. Le facevo sentire che non la giudicavo e iniziò a raccontarmi i sogni che la tormentavano, perfino le sue fantasie più inconfessabili.
Cominciai con cautela a dimostrare comprensione e iniziai ad suggerire che i suoi racconti potevano essere in qualche modo concretizzati. Che c’era la possibilità per lei di vivere nella realtà quelle che fino a quel momento erano state solo fantasie irraggiungibili.
Oramai ero il suo confidente più intimo. E quando finalmente le dissi che avevo deciso di realizzare le sue fantasie, rimase scioccata e per un attimo scandalizzata.
Ma oramai si era messa completamente a nudo. Fremendo abbassò gli occhi e annuì, sorprendendo se stessa per ciò che stava accettando.
Non le diedi il tempo di riflettere e le spiegai in dettaglio cosa volevo. Diedi l’appuntamento che mi aveva portato su per quelle scale, fino alla sua porta.

Bussai.
La porta si aprì subito. Lei era vestita secondo le mie istruzioni: di nero, un maglioncino morbido, la gonna corta lasciava scoperto il bordo decorato delle calze autoreggenti, nere, velate.
Era truccata pesantemente, occhi bistrati e bocca rosso fuoco, come prescritto. Al collo un collare da cane, grosso, con le borchie. Tremava un po’ mentre si sfregava le mani davanti all’inguine, nervosa e mi guardava con un mezzo sorriso a metà tra la speranza e la paura. Il maglioncino modellava morbidamente il seno pieno.
Entrai e chiusi la porta dietro di me, poggiai la borsa esaminando la donna che avevo di fronte con attenzione. Lei continuava a guardarmi di sottecchi, il mezzo sorriso imbarazzato ancora stampato sul viso, piena di aspettativa.
Le mollai un ceffone con la mano piena sulla guancia. Poi, senza che potesse riprendersi dallo shock, la presi per le spalle e la feci girare bruscamente, Quasi perse l’equilibrio sui tacchi a spillo e con un laccio che avevo pronto in tasca legai i suoi gomiti dietro la schiena mentre lei era ancora frastornata dallo schiaffone.
Agganciai con un dito il collare e la attirai di schiena contro di me.
Soffiai nel suo orecchio – Non è educato che l’Allieva guardi negli occhi il Mentore. L’Allieva guarderà d’ora in poi le mie mani. Da quelle riceverà la maggior parte delle istruzioni ed anche delle punizioni.
Lei annui impercettibilmente, sibilando semi strangolata dalla mia presa sul collare. Il dorso delle sue mani, costrette indietro dalla posizione dei gomiti, casualmente sfregavano sul mio inguine.
La scostai da me, i gomiti uniti dietro la schiena la costringevano in una posa ingobbita, le spalle costrette all’indietro facevano sporgere il seno. Guardava in basso, la guancia ancora arrossata.
Indicai il pavimento, lei non capì e alzò il viso guardandomi istintivamente, i suoi occhi spaventati incontrarono i miei. Si guadagnò un altro ceffone.
Ansimando si ritrasse di tre quarti, le ginocchia semi piegate, goffa, chinata, con gli occhi tondi tondi pieni di lacrime, la faccia tutta arrossata.

Con calma indicai di nuovo il pavimento. Lei con lo sguardo smarrito e spaventato si inginocchiò, sperando fosse la cosa giusta da fare.
Rimasi per un po’ in silenzio, guardandola in quello stato. Ansimava, il suo sguardo vagava smarrito sul pavimento, non osava sollevarsi oltre il livello delle mie mani.
«Il Mentore deve rimanere in piedi in mezzo all’ingresso?» chiesi. «Non c’è un posto più comodo?»
Lei annuì, «Non ti alzare, fammi strada in ginocchio» risposi.
Si mosse camminando goffa sulle ginocchia, respirando rumorosamente. Mi guidò in un salottino, arredato in modo convenzionale, con buon gusto. una casa di donna sola, pulitissima e ordinatissima. Mi accomodai su un divano a due posti, di pelle, apprezzando il fatto che non fosse sintetica.
Indicai il mio ginocchio destro e le dissi «poggia la guancia qui». Lei avanzò tra le mie ginocchia e ubbidì. Le carezzai la guancia e poi la grattai un poco dietro l’orecchio, volevo che si sentisse una bestiolina da compagnia. Restammo un poco così.
Mi guardai intorno assorbendo l’atmosfera del luogo: un covo tipicamente femminile, non c’era nulla tra i mobili, i ninnoli e i soprammobili che facesse sospettare che ci fosse mai stata la presenza di un uomo in quella casa.
Davanti al divano c’era un robusto tavolo da salotto di legno grezzo, lucidato a cera, con tozze e solide zampe anch’esse di legno, presi nota mentalmente di tutti gli usi interessanti che ne avrei potuto fare in futuro.
Un profondo sospiro dell’allieva richiamò la mia attenzione, le accarezzai la nuca e il collo, poi con un dito spinsi la sua fronte facendole alzare la testa.
Con la punta delle dita di entrambe le mani esplorai la sua fronte, le arcate sopracciliari le palpebre, i suoi occhi si chiusero «tienili chiusi» le dissi.
Come se fossi uno scultore che plasma della creta massaggiai gli zigomi e le guance. Presi possesso del suo viso, i pollici, partendo dalle pieghe delle narici raggiunsero i lati della bocca, iniziarono a seguire le labbra, premendo con forza, forzandole in pieghe scomposte, fino a raggiungere i denti. Costrinsi la sua bocca ad aprirsi e con i pollici esplorai l’interno delle guance.
«tieni la bocca aperta e tira fuori la lingua» Lei ubbidì.
La sua lingua era pulita, tenera. Con l’indice percorsi il suo centro entrando in fondo, quasi subito si manifestò un riflesso automatico con un conato di vomito. – dobbiamo lavorare su questo «dissi con un tono tranquillo» devi saper prendere il cazzo fino in fondo alla gola senza stupide reazioni.
Lei grugni senza riuscire a controllarsi, dagli occhi chiusi sortirono lacrime. Continuai a prendere possesso della sua bocca e della sua lingua con l’indice e il medio della mano destra mentre la sinistra le teneva la testa per la nuca.
Mentre continuavo a sondare con le dita il punto in cui si scatenavano i conati, con la mano sinistra percorsi il centro della schiena, tra le scapole costrette, fino ai gomiti legati. sciolsi il legaccio e lasciai che si raddrizzasse mantenendo le dita al loro posto e costringendo la sua testa all’indietro.
«vediamo un po’ come sei fatta, tira su la maglia, voglio vedere meglio queste tette»
Mentre continuavo a tormentare la sua gola la guardai sollevare la maglietta arrotolandola in alto fino a scoprire il seno «basta così» la fermai.
Il suo petto in mostra era pieno e sembrava sodo, con la mano libera sondai la consistenza di quella carne, era soffice ma elastica. Un reggiseno a balconcino ne esaltava il volume, lei cominciò ad ansimare, rantolando sulle mie dita in fondo alla sua bocca.
Con la mano a coppa liberai un seno per volta per vedere i capezzoli, erano duri e prominenti, li sfregai con i polpastrelli e lei reagì con una contrazione involontaria.
«vedo che sei un tipo sensibile, sarà interessante vedere come reagisci quando gli stimoli si faranno più intensi».
«Ma adesso vediamo di insegnarti un minimo di controllo sulla gola. La tua bocca deve imparare ad accogliere cazzi fino in fondo, non ci possiamo permettere che tu vomiti su chi vorrà usare questo buco. Devi imparare a controllarti bambina, sei d’accordo?»
Vidi che il suo sguardo si fece interrogativo, non capiva il riferimento a chi l’avrebbe potuta possedere oltre a me. Sogghignando la lasciai ai suoi dubbi.
Sentii un grugnito e un mugolio mentre prendevo un suo capezzolo tra l’indice e il pollice, e iniziai a stringere, il suo corpo di riflesso tentò di sottrarsi alla stretta ma si bloccò immediatamente perché la manovra non faceva che aumentare il dolore, «Bene, hai capito la situazione».
«Ora facciamo un gioco istruttivo. Con le dita adesso andrò più in fondo alla gola, se avrai un conato di vomito riceverai altro dolore come questo» strinsi cattivo il capezzolo e ricevetti un mugolio di dolore in risposta. «È chiaro?» Lei annui e cercò di farfugliare qualcosa di incomprensibile con gli occhi sgranati e sbavando nel tentativo. «Bene bambina, iniziamo» dissi amorevolmente.
La punta delle dita arretrò, fino alla punta della lingua. Dopo un momento di attesa, le dita iniziarono il percorso nella direzione opposta, sfregando la superficie ruvida fino all’inizio della gola. Alla contrazione involontaria che seguì, strinsi con forza il capezzolo, lei, semi soffocata da quello che aveva in gola mugolò di dolore. Il suo corpo si contorceva tentando di sottrarsi ma io mantenevo la stretta e storcevo la sua carne. Se cercava di ritrarsi il dolore aumentava, era costretta a restare dov’era.
Tornai ad invadere la sua gola con due o tre dita, varie volte, ogni volta un po’ più in fondo, dai suoi occhi chiusi uscivano lacrime mentre rantolava, un po’ per il soffocamento e le reazioni incontrollabili e un po’ per il dolore che somministravo al capezzolo tutte le volte che la punivo.
Vidi che riusciva a guadagnare un po’ di controllo sulle reazioni involontarie ma poi mi resi conto che era oramai al limite e che non avrebbe potuto imparare di più in quel primo incontro.
Non insistetti ulteriormente, l’accarezzai mentre singhiozzava senza controllo, raccolsi con un dito le sue lacrime e le portai alle labbra pensando ad un’altra strategia per quell’allenamento.
Guidai la sua testa sul mio grembo, per un po’ di riposo. Feci in modo che la sua guancia paffuta sentisse Il mio cazzo, duro attraverso la stoffa dei pantaloni.
Dopo un po’ il suo respiro si fece più calmo e smise di tremare e singhiozzare.
«Apri gli occhi, tieni la bocca aperta e tira fuori la lingua».
Lei eseguì senza alzare lo sguardo, la sua espressione si dibatteva tra lampi di ribellione e di paura, mentre guardava qui e là, senza riuscire a prendere una risoluzione.
La tolsi dall’imbarazzo con il mio ordine: «Mettiti a quattro zampe e metti il culo verso di me, voglio vedere il resto» indicai lo spazio ai miei piedi.
Ubbidì così in fretta che mi sorprese, riprese a respirare forte per l’eccitazione.
Attesi un poco, perché assaporasse quel momento di umiliazione. Poi lentamente inizia a sollevare il gonnellino scoprendo le sue natiche.
Il suo respiro si mozzò, poi riprese affannoso. Capii che sentiva il mio sguardo bruciarle la pelle, ansimava per la vergogna.
Con un leggero sorriso agganciai con il dito l’elastico delle mutandine e iniziai tirare giù l’indumento. Il respiro si blocco di nuovo e poi riprese sempre più ansimante man mano che le mutandine, lentamente scivolavano fino a metà delle cosce. Ora il suo ano e il sesso erano in piena vista.
Vedevo le grandi labbra della sua fessura. Con le mani sui glutei allargai lo spacco per ammirare meglio il buchetto rugoso.
«Scommetto che quel fesso di tuo marito non si è mai goduto questo buco. Ti hanno mai inculato?»
Lei fece un gesto negativo con un singhiozzo e scuotendo la testa tanto forte da fare ondeggiare i seni appesi.
«È un spreco! Dovremo provvedere, servirà un allenamento adeguato. Voglio che questa strada sia resa comoda per chi se la vorrà godere! Ho molti progetti su di te lo sai?».
Le diedi una pacca sonora su una chiappa: «Anche se hai la lingua di fuori e la bocca aperta, non significa che tu non debba rispondere quando ti rivolgo una domanda diretta!»
Lei farfugliò qualcosa di indistinto: «Ho, hehuho hi ha hai hihuhaho!» cercando di parlare senza chiudere la bocca. «No, nessuno mi ha mai inculato SIGNORE!» Ribadii io con un’altra sonora sculacciata per sottolineare l’ultima parola «Devi sempre chiamarmi signore, bambina».
Mi rilassai sul divano, stendendo le gambe e incrociandole sulla sua schiena. «Hai proprio tutto da imparare! Vedrai che ci divertiremo. Io lo farò sicuramente!»
Dopo un po’ mi ripresi e ripoggiai i piedi in terra: «vicino alla porta, quando sono entrato ho lasciato la mia borsa. Forse puoi andare a prenderla per me? Vai così come sei, piccola e portala qui tenendola in bocca, come una brava cagnetta» ordinai.
Si girò accennando a guardarmi, con la lingua ancora di fuori, il suo sguardo liquido e assente, ebbe un lampo di paura e il suo sguardo non raggiunse i miei occhi. Le lacrime avevano disfatto il trucco degli occhi, il rossetto era sbavato intorno alla bocca, un po’ di saliva schiumosa sul mento. Un delizioso mascherone.
La vidi andare, lenta e goffa a quattro zampe, il culo esposto, le mutande calate a mezza coscia, il seno che pendeva ondeggiando ad ogni passo.
Mi guardai intorno cercando un punto solido cui, se mi fosse servito, l’avrei potuta legare con le braccia in alto, magari costringendola a stare sulla punta dei piedi, una risorsa che poteva essere utile durante le prossime sedute di allenamento. Non vidi risorse adeguate, mentalmente presi nota che avrei dovuto accontentarmi di una porta, appendendola casomai per i gomiti.
Un certo trambusto e rumore di sfregamento sul pavimento, mi segnalò il suo arrivo. Apparve sulla porta che dava sull’ingresso, aveva i manici del borsone da palestra tra i denti e cercava con fatica di farlo avanzare. Il borsone era grande e anche alzando la testa il più possibile, data la sua posizione carponi, non riusciva a fare altro che cercare di trascinarlo sul pavimento, aiutandosi anche con le mani.
Appariva affannata e sul suo corpo si notava un velo di sudore. Il suo seno ballonzolava goffo a causa dei suoi tentativi. Mentre trafficava per avvicinarsi, il mio dito indicò il tavolo del salotto e lei deviò per eseguire.
Mi avvicinai accosciandomi di fianco a lei. Tolsi i manici dalla sua bocca «brava cagna» dissi mentre le accarezzavo la testa e la grattavo sotto il mento. Poi con una mano sul petto e una sul fondo schiena guidai il suo corpo in ginocchio, seduta sui talloni e con il busto inarcato in avanti perché il seno sporgesse. Le feci allargare le ginocchia. – metti le mani sulle cosce con i palmi in alto.
Lei eseguì ed io dissi: «Questa posizione si chiama “Nadu” e tu la eseguirai al comando a voce oppure se indicherò davanti a me col palmo in avanti e le dita unite».
Lei annuì senza alzare lo sguardo terrorizzato.
lo spacco tra le cosce era leggermente aperto, con il medio percorsi l’apertura provocandole un brivido di riflesso. Era fradicia, portai il dito al naso per avvertire l’odore di femmina eccitata e poi lo pulii sulla sua lingua. «assaggia, sai di troia in calore» Non osò ritrarsi e lasciò che io ripulissi il dito sulla lingua mentre i suoi occhi tradivano vergogna guardando qui e la.
La mia attenzione tornò alla borsa, la aprii: «mentre ti descrivo qualcuno dei giocattoli che ho portato puoi accarezzarti la fica con una mano, ma non ti azzardare a venire. Quando sei con me puoi venire solo se e quando ti do il permesso di farlo o te lo ordino».
Lei obbedì strusciando il sesso con la punta delle dita, osservai le sue pratiche, è sempre interessare osservare le strategie con cui una femmina si accarezza, se sfrega le grandi labbra, oppure punta diretta al clitoride o si penetra con le dita. Lei si limitava a strusciare le dita sul sesso chiuso, premendo appena.
Mi accorsi che non aveva osato abbassare la testa e che i suoi occhi puntavano al soffitto mentre la lingua continuava a sporgere dalla bocca spalancata. L’insieme era grottesco e mi strappò un sorriso di scherno appena accennato su un angolo della bocca.
«Puoi abbassare la testa, voglio che tu veda i giocattoli che prima o poi userò su di te per divertirmi. Tu vuoi che io mi diverta, vero?»
Lei, sempre con la lingua di fuori e gli occhi che si erano fatti torbidi e sfocati per le carezze tra le gambe, rispose farfugliando «heho hiiohe io hoio che hei hi hieha ho he» io tradussi approvando: «certo Signore io voglio che lei si diverta con me».
Presi un suo capezzolo tra le dita e strinsi appena «ma voglio che tu parli da ora in poi in terza persona: – Certo Signore questa allieva spera che lei si diverta con lei – Non usare mai il verbo voglio, una allieva al massimo può sperare. Qui quella che conta è solo la mia volontà, i desideri e le volontà di un’Allieva non esistono. Capisci?»
Rispose annuendo «heho hiiohe ueha aieha ha hahiho».
Non cercai nemmeno di capire quello che farfugliava, la mia attenzione tornò alla borsa, da cui estrassi alcune matasse di corda ben arrotolate, le mostrai all’Allieva: «non so se in questa seduta le useremo ma stai certa bambina che andando avanti con le sedute di allenamento la tua carne sentirà quanto è ruvida questa canapa. Non amo le corde di fibra sintetica, amo la schiettezza delle fibre naturali, meno lisce e più pungenti». sfregai la sua lingua con una delle matasse perché assaggiasse quel tipo di contatto.
Poggiai le corde in ordine, parallelamente al lato minore del piano del tavolino.
Tornai alla borsa da cui estrassi un fascio di canne tutte della lunghezza di circa un metro, di diversi spessori: «per queste ci sarà bisogno di maggiore allenamento, non sei ancora in grado di apprezzare gli orgasmi che questi attrezzi possono procurare una volta che avrai superato la soglia del dolore». Anche le canne andarono in ordine sul tavolino.
Lei guardava sbigottita la parata di oggetti che si andavano aggiungendo sul ripiano mentre la sua mano le procurava leggeri brividi e piccole contrazioni all’addome. Ansimava di piacere e di paura.
Le mostrai alcuni coni di gomma di varie dimensioni, la punta arrotondata, alla base avevano una strozzatura che poi tornava ad allargarsi in una specie di ventosa: «questi servono ad allenare il culetto delle bambine buone – dissi con un leggero ghigno».
Un frustino da cavallo, uno scudiscio sottile, varie cinghie, una frusta di pelle morbida, una paletta di cuoio, un fallo di silicone e un vibratore sferico e grosso che assomigliava a un cono gelato, varie pinze e mollette andarono ad allinearsi in bell’ordine sul tavolo.
Non estrassi tutto il contenuto della mia borsa delle meraviglie e tornai a sedere sul divano, lasciando che, mentre continuava a masturbarsi, osservasse e valutasse ciò che le promettevano gli attrezzi sciorinati su quel piano.
Seduto sul divano allargai le gambe per distanziare i piedi. Schioccai le dita: «la testa qui» indicai il mio piede sinistro. «il culo qui» indicai il mio piede destro: «a quattro zampe!».
Allo schiocco lei si riscosse e si affrettò a prendere la posizione che le avevo indicato.
Poggiai la sinistra sulla sua nuca e la destra alla cima del solco tra le natiche. Guardandola ai miei piedi, mezzo svestita in modo sconcio con le tette pendenti dal torso.
Non vedevo ma intuivo la sua bocca spalancata, con la lingua fuori. Accarezzandole una guancia, con le dita presi possesso di quel buco umido sfregando col medio e l’anulare la lingua, in fondo, quasi alla gola. L’altra mano dopo alcuni giri sul sedere aveva trovato la via del solco tra le natiche ed aveva iniziato ad esplorare e carezzare il perineo, tra le grandi labbra e l’ano.
Iniziò a respirare forte.
Con la mano destra, l’indice e il medio roteavano delicatamente sulle grandi labbra, che si schiusero. Le dita scivolarono tra le piccole labbra, scoprendo l’ingresso caldo e umido della vagina.
Intanto, il pollice destro si era posizionato sull’ano, dove roteava e premeva leggermente, ammorbidendo gradualmente l’orifizio. Mentre il respiro di lei si faceva affannoso e il corpo era scosso da brividi, spinsi leggermente le dita in fondo alla sua gola.
Cercò di indietreggiare per ritrarsi e il suo ano premette contro il mio pollice, che così penetrò parzialmente lo sfintere che si apriva involontariamente a causa dei conati provocati dalla violazione della gola.
Con una mano le scopavo la bocca sempre più in profondità e lei, rinculando di riflesso, si impalava sempre di più sul mio pollice dell’altra mano mentre l’indice e il medio entravano in profondità nella vagina. Contemporaneamente il mio anulare trovava il clitoride.
Lei si dibattava tra le mie mani, sopraffatta da tutti quegli stimoli simultanei e perse ogni freno. Divenne carne pulsante modellata dalle mie mani.
Le dita nella sua gola le causavano conati incontrollabili, mentre la stimolazione combinata del clitoride e degli orifizi posteriori scatenava in lei un’ondata di sensazioni parossistiche, portandola oltre i limiti della sopportazione.
Perse qualsiasi cognizione di sé, emettendo grugniti e rantoli. Sbavava e schiumava dalla bocca e umori viscidi le riempivano gli orifizi.
Le mie mani la manipolavano con insistente ferocia, annullando ogni sua coscienza di sé,
in preda al groviglio di sensazioni senza più un io, senza più nessun pudore.
Portai quella carne al limite, oltre il suo limite, una massa vibrante in preda a una sinfonia di spasmi, convulsioni e riflessi incontrollati. Era quasi all’apice, sul ciglio di un orgasmo esplosivo.
Fu allora che mi fermai. «non avrai mica pensato di poter avere un orgasmo senza il mio permesso! vero?! Cosa ti salta in mente, stupida puttana!»
Il suo corpo pulsava e vibrava, smaniava di desiderio e di insoddisfazione, dimostrava un disappunto quasi rabbioso. «Verrai solo quando te lo ordinerò» dissi con freddezza, sfilando le dita dai suoi genitali e assestando una pacca dolorosa sulle natiche offerte e frementi.
Un’altra sculacciata sonora e poi un’altra ancora. Lei grugnì e rantolò un guaito sulla mia mano che ancora le invadeva la bocca con le dita.
Le schiaffeggiai le natiche, scandendo a ogni colpo: «Io – sono – il – padrone – del – tuo – corpo! – Del – tuo – piacere – e – del – tuo – dolore!». Le natiche erano, oramai, una massa dolente e rosso fuoco. il suo corpo si contorceva tentando di sottrarsi a ogni colpo senza osare farlo.
Sotto i colpi incalzanti sulle natiche in fiamme, i suoi guaiti disperati si fecero grugniti gutturali e respiri profondi. Oltrepassato il dolore, iniziava a provare fitte di piacere.
Spostai i colpi schiaffeggiando a mano piena il perineo e le grandi labbra  ottenendo ululati rochi sempre più intensi. «Devi – venire – adesso!» le ordinai.
Completamente abbandonata al piacere, la sua schiena si inarcò in spasmi, offrendo la sua intimità alle mie spinte. mentre le sue cosce e le braccia erano in preda ad un tremore incontrollato e le sue tette sbattevano tra loro a causa degli spasmi violenti.
Gemiti gutturali si mescolavano agli ansiti, mentre grufolava e sbavava. Le mie dita si spingevano sempre più a fondo nella sua bocca, fino a farla quasi soffocare.
Gemeva e si contorceva, in preda a un piacere doloroso e sfrenato. I miei colpi sempre più insistenti tra le natiche e sul sesso la spingevano in un orgasmo senza fine.
Iniziai ad alternare sculacciate a penetrazioni con le dita nella vagina e nell’ano, seguite da dolci carezze.
 
Questo trattamento la portò a uno stato di delirio frenetico, in cui pianti, grugniti, sospiri e spasmi si susseguirono in modo caotico e continuo, facendola perdere nello stupore.
Quando smisi, lei cedette di lato, tremante e appoggiata alle mie ginocchia, un pianto sommesso la scuoteva. Era vinta, indifesa, affannata e attonita.
«Ora vieni di nuovo» ordinai. E il suo corpo rispose al mio comando con contrazioni, sobbalzi, sospiri e singhiozzi che segnalavano un nuovo orgasmo provocato dalla mia voce. Approvai mentre annotavo il risultato che avevo ottenuto.
Aspettai che si calmasse un poco. Poi, con le mani, guidai il sui viso contro il mio cazzo duro sotto i pantaloni, contro le sue labbra. Aveva gli occhi persi e offuscati, il trucco pesante sciolto dalle lacrime gli macchiava il viso di bistro.
«tiralo fuori e lo prendilo in bocca, ficcalo fino in fondo alla gola».
Mentre le sue mani e la sua bocca obbedivano al comando, comprese che la sua educazione era iniziata.
 
Il Mentore l’avrebbe guidata nella sua nuova realtà. Leccava e succhiava il sesso del sui Signore e seppe che l’addestramento sarebbe stato sempre più intenso. Avrebbe subito e affrontato prove e sessioni che la avrebbero plasmata, sarebbe diventata una schiava sessuale.
Il membro dell’uomo che le invadeva la gola, paradossalmente le fece scoprire una nuova forma di liberazione. Capì che per tutta la vita aveva cercato questo compimento: essere una schiava sessuale.
Quando finalmente il membro dell’uomo cominciò a pulsare invadendo la sua gola di sperma lo ingoiò grata. Piangendo, come se quel liquido fosse il suggello della sua nuova condizione.
Il Padrone le accarezzò la testa.

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