Skip to main content
Racconti Erotici Etero

IL TE’ INGLESE

By 23 Febbraio 2005Dicembre 16th, 2019No Comments

Il t&egrave inglese evocava i profumi d’Oriente e le leggende di Persia.

Ne gustavo le maliziose fragranze, succulente e delicate, appena velate di piacevole amarezza.

E discernevo uomini con cappelli di paglia, che venivano dalla Cina, danzatrici nude, o velate di seta, templi indiani o giapponesi, dove anime ferventi s’apprestavano alla meditazione e alla purificazione.

Vedevo pagode d’argento, dove si consumavano amori sacri e sfrenati.

La teiera era inglese, anch’essa d’argento. Maestri d’altri tempi l’avevano finemente lavorata con la sapienza e il talento che oggi più non conosciamo.

Il t&egrave doveva provenire dall’Indonesia, paese magico, affollato di sogni. Oh, sì, davvero, laggiù, i sogni navigavano su grandi barche dorate, sospinte soltanto dal vento del silenzio.

Sorseggiavo, ero ormai un vecchio, canuto, il volto solcato da numerose rughe, eppure, quel profumo sì intenso, evocava in me un mistero, suscitava un incantesimo sulla mia pelle, ed i miei occhi ricontemplavano la giovinezza perduta.

Vidi una carrozza di fuoco, che mi portava con sé nel regno della leggenda e del piacere.

La tirava una pariglia di cavalli bianchi, volava veloce, lontano, dove soltanto il pensiero poteva arrivare.

Scesi, vidi una donna che mi veniva incontro, apriva lo sportello della carrozza e saliva sul predellino, per darmi l’affettuoso benvenuto; forse, non l’avevo conosciuta mai.

Eppure era bella, mi carezzava con i suoi lunghi boccoli biondi, le sue labbra rosse sfioravano le mie, aveva appena vent’anni, sospirava. Le sue mani bianche erano sì morbide e delicate.

Ripeté a lungo il suo saluto, fatto di baci felici che pareva durassero mille e mille istanti.

Poi mi prese per mano e mi condusse in una sorta di pagoda dorata, avvolta in un fumo d’argento, che tutto avvolgeva e addormentava nel suo sopore. Ebbi l’impressione di sognare, no, di avere una visione, fatta di stelle perdute, che vagavano nell’etere di perla.

Vidi ciò che non si poteva vedere, udii ciò che non si poteva udire.

La fata dai bei boccoli biondi mi guidava tenendomi per mano, correvamo, sì, correvamo, lungo corridoi di cristallo, illuminati da candele profumate d’incenso, che ardevano su candelabri di platino, tempestati di smeraldi.

Scimmie addomesticate facevano le capriole, giocavano a suonare il piffero o la trombetta, o ci salutavano con i loro gesti vivaci e spiritosi.

Vidi altresì un elefante, dipinto di giallo, con una sorta di copricapo, sulla sommità del quale era stato posto un rubino di incommensurabile valore.

Piansi.

Oh, sì, piansi di passione, non certo per i fumi turchini, verdi e violetti che esalavano quelle pareti fatate, piansi per la folle corsa, che consumai abbracciato alla bella dai boccoli biondi, per i suoi occhi che brillavano di sincero affetto, per la sua pelle di velluto, che non di rado mi lasciava sfiorare con le labbra.

Poi, sorrisi.

Oh, sì, sorrisi con lei, la quale, nel suo bel fare, lasciava che mille stelle, come diamanti, scintillassero sulla sua bocca semiaperta, scarlatta: erano i suoi denti d’avorio, ricavati dal granito per il suo volto dagli scultori eletti dagli dei.

Una porta decorata con angeli e demoni si aprì e si chiuse, dietro di noi.

Rimasi solo in una stanza, decorata di seta rossa. Dinanzi a me vidi la Grande Sacerdotessa, nuda, si teneva con le mani i seni grandi, decorati di diamanti, aveva indosso soltanto un mantello, di un tessuto magico, mistico, di cui non ricordo il nome, che volava nel vento.

Dietro di lei c’era una trifora di cristallo, da cui penetrava una luce verde e fantastica, che io non vi so descrivere.

Con la mano, la Grande Sacerdotessa mi faceva segno di avvicinarmi, di sdraiarmi nudo accanto a lei, di intrecciare le mie membra alle sue.

Sarebbe stato un amplesso fatato, religioso, mistico. La sentii: la sua carne era come evanescente e consacrata, fuggiva al tatto, ma non ai baci ardenti. La solleticai, passai avidamente la lingua sulle sue membra, e lei godette, lasciandosi andare ai sospiri e al piacere.

Sentivo un vento di fuoco sulla pelle, lo sentiva anche lei, lo sentivano le nostre membra, era forte, e meraviglioso al tempo stesso.

La vidi socchiudere gli occhi, ed abbassare le lunghe ciglia nere, bellissime. Era truccata e nuda, come si conviene ad una dea.

Ammirai il suo ombretto azzurro, le sue guance ricoperte di cipria rosa, le sue labbra madide di rossetto.

La Grande Sacerdotessa piangeva di piacere.

E questo, sì, faceva parte del rito, che andavamo consumando.

Non fece resistenza, anzi, mi avvinse a sé, venusta e magica. La penetrai e ci imbarcammo così nel mare tempestoso dell’orgasmo, che sbatteva a destra e a manca il nostro legno immaginario, tormentandolo e sconquassandolo coi suoi venti, e mandandolo alla deriva.

Nessuno, nessuno ci poteva fermare’ La sentii gridare forte, e invocare i suoi dei, chiamandoli per nome, uno a uno. Ed essi vennero, la presero tra le loro braccia, per poi lasciarla cadere nel ferro fuso del piacere.

Sentii di non avere tra le mani che un corpo: l’anima della Grande Sacerdotessa l’aveva lasciato, per volare in Cielo e leggere sul grande libro del destino le più ascose verità.

Quando aprii gli occhi, reggevo con una mano la mia teiera d’argento, e con l’altra, la mia tazza di t&egrave inglese.

Leave a Reply