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Racconti Erotici Etero

LA PIEVE DEGLI INNAMORATI

By 22 Novembre 2014Dicembre 16th, 2019No Comments

Le fronde dei faggi avvolgevano nel loro autunno i tetti spioventi di quel villaggio di montagna. Era come se il tempo si fosse fermato, come se nessuno più abitasse in quelle case antiche, fatte di pietra e di legno, dai muri grigi, dove persino i tordi ed i fringuelli di monte avevano cessato di dimorare, forse da secoli.
Una sola manifestazione si svolgeva annualmente in quello sperduto gruppetto di case sparpagliato in mezzo ai monti. Era una sorta di parata malinconica, che si teneva all’inizio del mese di agosto, l’unico, forse, in cui il clima non pietoso di quelle montagne concedeva uno spiraglio ai tepori vaghi dell’estate. Per l’occasione, la gente passeggiava in costume lungo le poche strade serpeggianti del villaggio, che parevano sentieri; potevate imbattervi in uomini vestiti come nel Settecento, che portavano dei tricorni sul capo e reggevano le briglie di qualche bel cavallo baio, nonché in donne in costume, giovani e avvenenti, che portavano il rossetto sulle labbra e avevano i capelli biondi naturali, come non era raro nei paesi germanici.
La voce sperduta di una campana lontana riscosse la bella e cara Lillé dal suo sonno pieno di sogni. Le era parso che le passassero accanto due giovani amanti, che si tenevano per mano, mentre uno stormo di colombe bianche si levava in volo… Aveva visto la giovane innamorata tenere nel pugno un mazzo di rose scarlatte, mentre il suo amico del cuore le baciava la mano.
Lillé si raccomodò i suoi bei boccoli da ragazza di vent’anni. Stava seduta sulla sedia a dondolo, tutta di legno, che un suo antenato aveva confezionato a mano, molto, molto tempo prima. Il camino che le stava dinanzi era spento; in esso, il fuoco aveva bruciato a lungo i rami di un vecchio rovere e di un faggio, prima di spegnersi nei suoi muggiti minacciosi e rossastri. Poi, la bella si alzò, s’incamminò verso la finestra, che era aperta, spalancò le imposte di legno, che cigolarono vagamente sui loro cardini. Dinanzi a lei, si disegnavano i tetti aguzzi delle poche case del villaggio, che sembravano di legno; al di sotto, nella piccola piazza, al centro del quale spiccava una fontana di marmo bianco, vi erano dei fanciulli, che giocavano a girotondo ed intonavano delle filastrocche buffe e melanconiche, ad un tempo. Poi, quasi all’improvviso, s’udì la voce roca di una mamma, che chiamava il suo pargolo da una finestra remota: era ora che rincasasse.
Poco dopo, ogni voce si spense, nella vaghezza del vento d’autunno. Oh, sì, le foglie vizze e dorate della stagione più vaga dell’anno si potevano scorgere quasi in ogni dove. E gli sguardi assorti, pieni di mistero, di Lillé si confondevano con i lucori di quel cielo autunnale, nel quale non volavano nemmeno le aquile delle Alpi, no… Non vi volavano né i fringuelli, né le rondini e le poche penne bianche e nere di qualche fagiano di monte, al pari delle voci stridule e sognanti di quella specie d’uccelli, avevano lasciato il posto ad un silenzio rotto soltanto dai muggiti della brezza che sibilava nella gola vicina.
Lillé se lo ricordava come se fosse stato ieri… Sì, rammentava quel giorno, in cui era apparsa al suo amato al margine del bosco, in mezzo ad un gruppo di fagiani di monte, dalle penne bianche e nere, dalle grandi code maestose, che, al suo passaggio, le si erano alzati in volo tutt’intorno, poco prima che lei sciogliesse i suoi bei capelli nella brezza che sibilava e bruiva presso l’antica pieve di S. Babila, il luogo convenuto per l’appuntamento. Ed il suo amato era corso da lei, s’era incamminato alacremente verso le sue braccia spalancate, sì, perché Lillé, dopo essere sbucata attraverso le fronde dei faggi, si era messa ad aspettarlo dolcemente in cima all’erta, presso il cancello rugginoso che segnava l’ingresso dell’antica pieve, costruita in cima al monte, vetta tra le vette, bianche, dorate o ammantate di boschi che fossero.
– Nel mio forziere ci sono molti ricordi del passato, un clarinetto di legno, delle monete d’oro e delle trine morbide, che vorrei donarti ‘ le aveva detto il suo amato, il giorno di quell’incontro, nel mentre in cui s’erano incontrati nell’amore, nella pieve di S. Babila.
– Anche se tu non avessi che l’affetto immenso che provi per me, non desidererei null’altro e la mia vita mortale avrebbe raggiunto il suo traguardo ‘ gli aveva risposto lei, che allora portava un gran foulard nero, per proteggersi dal vento d’alta montagna; vi giuro che quel drappo scuro aveva fatto risaltare ancor più la sua chioma morbida e dorata, al pari delle sue guance, che sembravano sempre di marmo bianco, come le statue che mani antiche avevano posto lungo il vialetto angusto, che circondava quella pieve. Rammento che quelle sculture raffiguravano delle vergini, nell’atto di concedersi all’amore dei loro amati.
– Qui giace gente morta e tu lo sai… Permettimi ancora una volta di baciarti la mano, quasi per consolarmi di questo pensiero: persone come noi, che un tempo vissero su questa terra, ora non ci sono più… Ci hai mai pensato? &egrave forse questo il nostro destino? Non ti tocca l’idea di svanire, un giorno, come poco fa i maestosi uccelli di monte svanirono in volo, tutt’intorno alla tua leggiadra avvenenza di giovane donna?
– Sì, tutti costoro, che un tempo erano, oggi non ci sono più… Tante sofferenze, tanti corredi di sposa, tanti bauli, pieni di trine e di merletti, di oggetti opachi e ormai dimenticati…
Le parole di lei si erano spente, quasi cabalisticamente, in quel dialogo, del quale l’unico protagonista era stato forse solo il vento, o quel silenzio, o la voce di un fagiano lontano, o del campanile aguzzo, che svettava presso la chiesa di S. Babila, dove crescevano le edere ed i muschi.
Quel giorno d’autunno, le memorie degli istanti dei quali or ora vi ho narrato scintillavano negli occhi di Lillé.
– No, io non ti rivedrò più, non ti rivedrò mai più ‘ mormorò la bella, nel silenzio della sua stamberga, mentre abbracciava la sua bambola di porcellana, quella che le avevano regalato i nonni, in occasione di una delle feste del villaggio, poco prima che morissero, sì, poco prima che morissero.
La giovane strinse quella bambola come se fosse stata sua figlia; poi, stanca, si staccò da lei e la ripose sul comò, che era stato costruito da un artigiano, con il legno degli alberi che crescevano su quelle montagne ed aveva il mistero e la malinconia sfuggente di quel luoghi, che non di rado sembravano ameni.
E lo furono davvero, nella mattinata assolata che seguì, quando i raggi del sole illuminarono a giorno il volto della bella, della quale vi ho narrato finora. Lillé era andata ad attingere acqua al torrente, era vestita semplicemente, con il costume tipico di quelle montagne, che tanto s’addiceva a quel suo corpo, come perennemente giovanile. Ella portava un secchio di legno per ogni mano; la lunga gonna rossastra, ricamata e con decori a fiori, le svolazzava intorno; il suo seno, lasciato nudo dal suo abitino ornato, si alzava e s’abbassava affettuosamente, quando gli occhi suoi rividero il suo amato.
Dopo il loro ultimo incontro, lui era partito per la guerra ed ora ritornava tra le sue braccia! Quell’angusto viale del villaggio di montagna di cui vi narro era ornato con i fiori giallastri dell’autunno. Lillé ne colse un mazzo, dopo aver lasciato cadere a terra i suoi secchi e l’acqua dei torrenti, per poi correre tra le braccia del suo innamorato. I due si possedettero nuovamente, affettuosamente, così come un lontano giorno si erano posseduti lungo le rive del torrente, in prossimità dell’osteria abbandonata, sperduta, smarrita in mezzo ai sassi, ai rovi ed ai cespugli che d’inverno si lasciavano ricoprire dalla neve.

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