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Racconti Erotici Etero

La Venere e Botticelli

By 20 Aprile 2013Dicembre 16th, 2019No Comments

Lo spogliatoio era angusto e malamente illuminato da un’unica minuscola finestra coperta da una tenda leggera; c’era a malapena lo spazio per due persone per muoversi senza incastrarsi l’una nell’altra, ma Francesca, ormai pratica, aveva imparato come destreggiarsi per spogliare Simonetta con rapida efficienza.

Dopo aver sfilato tutti i piccoli bottoncini dalle asole con dita agili la cameriera aiutò la sua signora a sfilarsi l’elegante abito da giorno che portava quel pomeriggio. Agilmente slacciò il nodo che reggeva le sottogonne e le sollevò sopra la testa della padrona.

Poi fu la volta dei lacci che stringevano il busto: Francesca li sciolse ad uno ad uno, liberando il torace della sua signora dalla costante pressione esercitata dalla stoffa e dalle stecche. Anche se ormai lo portava da anni, Simonetta provava sempre un senso di sollievo quando le veniva tolto.

La camiciola che indossava sotto di esso le scivolò dalle spalle, arricciandosi a terra intorno ai suoi piedi candidi e delicati. Infine la cameriera le infilò la tunica bianca, cucita ad imitazione delle vesti tipiche delle statue greche a soggetto femminile, che si trovava appesa all’unico piolo piantato nella ruvida parete dello spogliatoio. Simonetta, respirando agevolmente senza la costrizione del corpetto, coi seni liberi sotto la stoffa sottile e le gambe non ostacolate dalla gonna leggera, pensò che sicuramente gli antichi greci erano molto più saggi dei suoi contemporanei per quanto riguardava il vestiario, quantomeno di quello femminile.

La cameriera procedette poi a sciogliere dalla complicata acconciatura in cui erano stretti dalla mattina i lunghi ricci biondi, lucidi e pesanti, e a pettinarli con le dita arrangiando ordinatamente la soffice massa dorata lungo la schiena di Simonetta giù fino alle natiche e oltre.

I rumori del Maestro, che stava preparando i suoi colori nello studio adiacente lo spogliatoio, si fecero più sonori, sicuramente impazienti. La dama era pronta: congedò Francesca che stava finendo di appendere gli abiti della padrona al piolo, e la cameriera uscì subito da dove erano entrate per andare a raggiungere le guardie nella piccola saletta d’ingresso della bottega, la nobildonna invece varcò la seconda porta dello spogliatoio che conduceva al caotico mondo di colori di cui Sandro Botticelli era l’indiscusso signore e padrone. Nessuno aveva il permesso di entrare lì dentro quando lui disegnava o dipingeva. Tranne, ovviamente, le persone che gli facevano da modelle.

Non era la prima volta che Simonetta Cattaneo Vespucci ricopriva quel ruolo, anzi: il Maestro, così come altri pittori della città, l’aveva dipinta in più di un ritratto a mezzobusto.

Stavolta però si trattava di una tela in cui lei sarebbe comparsa a figura intera, un dipinto che avrebbe rappresentato la nascita della dea Venere dalle acque del mare: per questo indossava la leggera tunica greca, confezionata appositamente per l’occasione su ordine del pittore.

Botticelli aveva già sbozzato la sua sagoma nelle sedute precedenti, quindi Simonetta sapeva esattamente dove mettersi e che posa assumere. Entrò calpestando coi piedi scalzi il pavimento di pietra, gelida nonostante fosse ormai estate, e dopo un breve saluto cui lui, impegnato a fare la punta ad un carboncino, rispose con un inintelligibile grugnito si piazzò sul telo appositamente disposto nella posizione migliore per ricevere luce da una delle ampie finestre, in piedi con il volto leggermente inclinato a destra, un ginocchio appena flesso, il braccio sinistro lungo il fianco e il destro a giocare con una ciocca di capelli che le ricadeva davanti, sul petto.

Per lunghi minuti si sentirono solo il rumore del carboncino sulla tela e i suoni attutiti provenienti dall’esterno. Il Maestro si spostò un paio di volte dalla sua postazione, pulendosi le mani dalla nera polvere di carbone prima di avvicinarsi a lei per modificare leggermente l’angolo di inclinazione della testa o del braccio, per spostare una ciocca di capelli.

Simonetta sentiva il suo respiro addosso e la cosa la turbava, dato che indossava un unico indumento ben più sciolto e rivelatore di quelli a più strati che portava abitualmente, e che in questo caso avrebbe voluto addosso quasi come una corazza per separarsi dalla vicinanza di lui. Era la donna più ammirata di Firenze, se non dell’intera penisola italica, e moltissimi uomini rendevano omaggio alla sua bellezza dedicandole dipinti, sonetti, o anche solo compiendo gesti galanti o elogiandola espressamente in complimenti fioriti. Ma nessun uomo, a parte suo marito, si era mai trovato ad una distanza così ravvicinata dal suo corpo coperto unicamente da un sottile strato di tela, e lei era acutamente consapevole del fatto che i suoi seni, non più costretti dentro il busto, erano ad un soffio dalle dita agili e delicate del pittore, così come le cosce e le natiche, prive com’erano della protezione delle numerose sottogonne che indossava di solito. La pelle le formicolava ogni volta che percepiva il calore del corpo dell’uomo così vicino al proprio.

Già durante le sedute precedenti la prossimità del pittore, non molto più vecchio di lei e e attraente tanto da aver colpito la sua attenzione anche prima di iniziare a posare per lui, l’aveva turbata al punto di essere grata della scomoda posizione in cui era costretta per lunghe ore, col braccio e i capelli che le celavano parzialmente la zona del seno e nascondeva così alla vista dell’uomo il turgore dei suoi capezzoli. Non poteva però sopprimere il brivido che le sollevava la sottile peluria dorata delle braccia ogni volta che lui la sfiorava per modificare la sua posizione, e non era certa che il Maestro non l’avesse notato.

Ad un tratto lui gettò stizzosamente il carboncino a terra, dove esso andò in mille pezzi, e gli fece seguire uno dei preziosi fogli sui quali appuntava qualche dettaglio prima di riportarlo sulla tela e lo spago che usava per tracciare archi di cerchio. Nervosamente si passò le mani tra i capelli, lasciando sbuffi neri sulla fronte, ed esclamò: “No, no, no! Così non va! Anzi, fa schifo!”

La prima volta che l’aveva visto fare così Simonetta si era allarmata, ma ora, dopo aver assistito a numerosi di quegli episodi, se ne stette tranquilla ad aspettare che si sfogasse, in attesa delle istruzioni per cambiare posa che sarebbero inevitabilmente seguite: era tutto parte del processo creativo.

“Non ha senso!” proseguì lui “No, no, proprio non ce l’ha.” E prese a camminare avanti e indietro per lo studio mugugnando.

Po si bloccò, tornò precipitosamente alla sua postazione di lavoro, scarabocchiò qualcosa con un frammento del carboncino raccattato da terra e infine alzò la testa e guardò Simonetta.

“Venere non può nascere vestita.” Abbandonò di nuovo il suo posto e si avvicinò a lei, con gli occhi illuminati da un fervore creativo più intenso del solito. “Togliti la tunica.”

Interdetta la giovane nobildonna rimase immobile, pensando che il Maestro scherzasse. Lui invece, impaziente, vedendo che non si muoveva le afferrò la veste su un fianco, lasciando segni di carbone sulla stoffa candida, e la sollevò per sfilargliela. Come inebetita lei sollevò ubbidiente le braccia come faceva quando Francesca la spogliava e lo lasciò fare. Solo quando si trovò completamente nuda davanti a lui si rese interamente conto della portata del gesto.

Botticelli fece un mezzo passo indietro, percorrendo con lo sguardo, come ipnotizzato, ogni centimetro della sua pelle.

“Così bella…” mormorò. “Perfetta, la donna perfetta.”

Si voltò precipitosamente, tornando dietro la tela e prendendo a scarabocchiare furiosamente. Simonetta sentì un senso di… delusione? attraversarla dalla testa ai piedi. Per un momento aveva pensato, aveva immaginato. Scosse impercettibilmente la testa come per scacciarne i grilli: era una donna sposata, ed era lì con lo scopo di fare la modella per un grande artista. Per quanto bello ed affascinante egli fosse, per quanto la sua vicinanza la facesse vibrare.

Lui intanto tracciava segni sui suoi fogli, sulla tela, si interrompeva per scrutarla con un’intensità da far quasi male e ricominciava a disegnare.

Poi balzò di nuovo verso di lei dimenticandosi di pulire le mani, afferrandole le braccia per mutarne la posizione, lasciando neri segni di carboncino sulla pelle candida. Le spostò i capelli lungo il fianco sinistro, sotto il braccio e in avanti: le lunghe ciocche bionde le arrivavano oltre le anche, e lui le arrangiò in modo che coprissero il triangolo dorato che le celava il pube. Le sue dita si attardarono a pettinare i boccoli chiari come per sistemarli, ma finirono per sfiorare ed immergersi fra quegli altri ricci più scuri che stavano sotto, e più giù tra le labbra che già si arrossavano del sangue che improvvisamente vi fluiva copioso.

L’espressione del pittore apparve quasi confusa mentre l’oggetto del fervore che lo muoveva cambiava di piano: non più quello etereo della figura che prendeva forma sulla tela, ma quello più sublimemente concreto del corpo di carne e sangue e pelle liscia e calda che aveva sotto le dita. Per un attimo parve che la terra gli mancasse sotto i piedi.

La dama, con lo sguardo basso, non poté non notare la conseguenza fisica di questo sconvolgimento prendere forma nel rigonfiamento sempre più evidente che tendeva la tunica dell’uomo, e non poté non sentire la propria risposta pulsare nel basso ventre.

Come combattendo gli impulsi che lo attraversavano Botticelli strinse le labbra e mosse le mani di Simonetta che, a sua volta preda di sentimenti contrastanti e vittima della tempesta che si andava formando nel suo corpo, rimase passiva sotto il tocco di lui, incapace di fare il passo che l’avrebbe scagliata nel baratro e allo stesso tempo di ritrarsi da lui.

Una piccola, bianca mano venne posizionata sui capelli, all’altezza del pube, come a coprire ciò che aveva scatenato, l’altra venne sollevata e il braccio posto di traverso sul petto, com’era prima, a celare i capezzoli. Ma anche questa operazione aveva i suoi pericoli: il contatto tra i polpastrelli del Maestro e la tenera, candida carne del seno di Simonetta. Fu una scossa, l’attimo in cui il sasso, smosso da un piede incauto, perde il suo equilibrio ed inevitabilmente rotola giù per il pendio, acquistando velocità ad ogni sobbalzo.

In un istante furono l’una nelle braccia dell’altro, le bocche che si divoravano nella fretta del primo desiderio, i corpi premuti fino ad espellere il più piccolo strato di aria che li dividesse, petto contro seno morbido, ventre contro marmorea erezione, cosce contro vibranti cosce.

Le mani del Botticelli ancora sporche di carboncino tracciarono grige spirali e lunghi ghirigori sulla schiena perfetta della donna più bella di Firenze, sulle sue natiche tonde, sulle sue cosce tornite. E poi ancora, staccandosi da lei per ammirarla, sul ventre arrotondato e sul piccolo seno impertinente.

Simonetta ansimava, gli occhi color nocciola brillanti e umidi, le labbra arrossate di eccitazione e di baci: da tempo non si sentiva così, da quando l’ardore dei primi mesi di matrimonio si era diluito nell’abitudine. Schiuse le cosce quando le mani del pittore tornarono a sfiorarle i ricci, lasciandole entrare tra le pieghe della sua intimità più segreta.

Esse affondarono in una pozza bollente di succo vischioso, penetrando agevolmente fino alle nocche dentro di lei.

Impaziente ora, ogni pudore femminile e nobiliare dimenticato, la dama sollevò la tunica del pittore, gli calò le brache quel tanto che bastava ad estrarre il membro congestionato e lo afferrò nella piccola mano bianca, ancora più candida in contrasto con la carne scura ed arrossata che stringeva muovendosi su e giù seguendo il ritmo delle dita che le tormentavano l’intimo.

Improvvisamente Simonetta si trovò sospinta contro il bordo del tavolo dove il Maestro teneva i colori, colori che vennero spazzati da un lato per far posto alla sua schiena delicata. Spalancò le gambe per accogliervi il pittore, il petto che saliva e scendeva furiosamente al ritmo del suo respiro concitato, eccitato. Solo in quel momento, stesa, aperta e vulnerabile, con la punta del pene di lui che bussava all’ingresso della sua vagina, incontrò i suoi occhi per la prima volta da quando si erano baciati. Occhi semichiusi, febbricitanti eppure intensi, gli occhi con cui guardava le sue opere.

Incapace di distogliere lo sguardo Simonetta vide lì rispecchiato il piacere che la invadeva mentre il suo membro affondava lentamente, agevolmente dentro di lei, pollice dopo pollice fino a riempirla. Sollevò le cosce e gliele strinse intorno come se temesse che l’uomo scappasse, i talloni poggiati alle natiche di lui che premevano quasi a sollecitarlo a spingersi ancora più a fondo.

Il pittore non se lo fece ripetere e, afferratala per i fianchi con le dita impiastricciate di carboncino e umori, si mosse con foga crescente, ritraendosi e affondando, ancora e ancora.

Lei si aggrappò al bordo del tavolo scosso dai colpi per non arretrare di fronte alla sua carica e per ancorarsi al mondo mentre esplodeva in un orgasmo che le fece vedere nero per qualche istante, sbattere la testa contro la dura superficie di legno ed inarcare il corpo negli spasmi, in una posizione che offriva i seni alla calda bocca di lui. Il Maestro si chinò in avanti ed afferrò un capezzolo tra le labbra, succhiandolo, leccandolo, stringendovi intorno i denti e prolungando così i brividi in un secondo, ancora più intenso climax. Nemmeno lei sapeva come fece a non gridare, mordendosi il labbro fin quasi a sanguinare e soffocando il desiderio di urlare in piccoli gemiti inconsulti.

Riprese il dono della vista in tempo per vedere il volto del Botticelli contrarsi in una smorfia che pareva di dolore e portarsi un pugno alla bocca per bloccare ogni suono, e dopo un ultimo, poderoso colpo che fece tremare e cigolare pericolosamente il tavolo sentì il dilagare umido e caldo del suo seme dentro di sé.

Il pittore la ripulì delicatamente con un panno umido, dopo, per eliminare dalla sua pelle ogni traccia di carbone e degli umori macchiati che vi aveva spalmato con le dita.

Senza dire nulla, quasi come se niente fosse successo, la condusse di nuovo alla sua postazione sulla tela: c’era ancora un po’ di tempo prima che la luce calasse, e il pittore la voleva sfruttare.

Trasognata Simonetta si rimise in posa, coprendosi il seno con il braccio destro e il pube con la mano sinistra che stringeva l’estremità della sua folta chioma. Si accorse che una goccia del suo seme le stava colando lungo la coscia, lentamente, diretta al ginocchio. Un pensiero malizioso le attraversò la testa: chissà se lui l’avrebbe inclusa nel suo dipinto?

Anziché far vagare i suoi pensieri sugli eventi mondani cui avrebbe preso parte, sugli intrighi di palazzo, sulla sua famiglia come faceva di solito, la nobildonna lasciò che il suo sguardo vagasse sul pittore, studiandone le fattezze e come esse mutavano col variare dei sentimenti che egli provava nel dipingere, gioia, soddisfazione, stizza, concentrazione, mentre il suo corpo ricordava il suo tocco, i suoi baci, il suo membro potente.

E capì che lo voleva ancora.

Qualcosa dovette trapelare dai suoi occhi, o dalla sua espressione, dal lieve dischiudersi delle labbra e delle cosce perché nella luce che andava diminuendo il Botticelli posò per l’ultima volta il carboncino, si pulì meticolosamente le mani e si avvicinò di nuovo a lei.

Si riempì le mani dei suoi seni e, inginocchiatosi davanti a lei, la bocca della sua femminilità e dell’essenza della sua eccitazione mista al proprio sperma. Con le dita affondate nelle natiche le succhiò il clitoride e le spennellò la vulva di saliva prima di penetrarla con la lingua.

La tenne ferma, devastandole il basso ventre di piacere con le labbra e con i denti, nutrendosi dei suoi ansiti e dei suoi singulti finché non la sentì fremere sull’orlo dell’orgasmo. Solo allora la lasciò andare e la sospinse di nuovo verso il tavolo, frontalmente stavolta.

Le fece posare le mani sul bordo e, con un lungo colpo, affondò in lei da dietro, strappandole un gemito. Si mosse lentamente, entrando fino a trovarsi con le cosce contro le natiche di lei e uscendo fino a lasciare fuori solo la punta, senza fretta ma godendosi lo scorrere della carne nella carne, del duro desiderio maschile dentro la liquida eccitazione femminile.

Simonetta gemeva, piegata in avanti con le mani pesantemente appoggiate sul tavolo e la consapevolezza concentrata al punto di congiunzione dei loro corpi, distratta solo dalle dita del Maestro che le percorrevano la pelle come se volessero dipingere una donna nuova, un essere fatto unicamente di piacere.

L’orgasmo si costruì lento come l’incedere della verga dentro di lei, partì dal seme di una scossa che le contrasse la vagina per espandersi alla vulva e al clitoride, invaderle il basso ventre, lo stomaco il torace le cosce le braccia le dita su fino alla testa e giù fino alla punta dei piedi: tutto il suo corpo vibrava all’unisono di tensione inesplosa, una tensione con cui il Botticelli giocava titillando ora i capezzoli turgidi, ora le mammelle morbide, ora i fianchi sinuosi, affondando con calma crudele nel più intimo recesso del suo corpo.

E infine scese con le dita fino al clitoride, miccia della deflagrazione che seguì.

Solo la mano del pittore sulla bocca impedì ai suoi singulti, alle sue grida di raggiungere le persone in attesa dietro la porta dello studio, ma il suo corpo si scosse e vibrò e si scosse ancora, contro il tavolo e intorno alla virilità che la trafiggeva con lenti colpi cadenzati.

Solo quando i tremori si furono calmati, e solo qualche occasionale contrazione attraversava il bellissimo corpo della Venere, il Botticelli accelerò il passo, prendendola con la furia concentrata che riservava ai momenti culminanti delle sue creazioni.

Nel momento in cui perse il controllo, sciogliendosi dentro di lei per la seconda volta quel giorno, le morse la spalla per soffocare il proprio grido animale. Tremò come lei aveva tremato poco prima, schiantandosi dentro di lei negli ultimi, quasi disperati colpi con i quali le inoculava il proprio seme.

Giacquero accasciati, ansimanti, nell’ultima luce del giorno che se ne andava.

Con dita tremanti Simonetta poco dopo si infilò di nuovo la tunica greca e si avviò allo spogliatoio incerta sulle gambe, cercando di ricomporsi.

Se anche la cameriera, nel rivestirla, sentì odore di sperma, non ne fece parola.

Botticelli non riuscì a finire il dipinto mentre Simonetta era ancora in vita: dopo quel pomeriggio durante le sedute di posa raramente il carboncino toccava la tela.

Lo concluse solo dopo la morte di lei, per tisi, a soli 23 anni. Ne dipinse il corpo a memoria fin nei minimi particolari. D’altra parte, lo conosceva bene…

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