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Racconti Erotici Etero

L’ETERNA GIOVINEZZA

By 12 Maggio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

Riporto di seguito lo scritto della protagonista.
L’autore Dunklenacht.

L’eterna giovinezza aveva il mio volto. Lo sentivo e lo giuravo ai petali dei tulipani ardenti, alle margherite amiche dei fili d’erba verde, agli usignoli canori, alle fonti tranquille e gorgoglianti. L’avrei portata su di me e dentro di me per sempre. Non sapevo chi me l’avesse donata, né come l’avessi avuta.
Eppure, l’eterna giovinezza era con me, era in me, non mi abbandonava mai e brillava nel mio volto, nei miei sguardi, nei miei morbidi capelli, che adornavo con tulipani ora viola, ora scarlatti.
Era una giovinezza di baci, di amori consumati e vissuti sui prati, o fra le spighe dorate del frumento d’estate, era fatta di sospiri, di fate che volavano tra le stelle e accarezzavano le torri. La primavera sfiorava dolcemente le mie membra e le rendeva di perla. Amavo toccarmi, accarezzarmi le forme venuste, i capezzoli rosa, il collo di cigno, le gambe sinuose, eppur perfette, con i piedi scalzi sfioravo l’erba e con le labbra baciavo le foglie dell’edera. Un picchio amico mi si posava sulla spalla. Una luce bianca, fatata, avvolgeva ogni cosa. E tutto trepidava di vita e di felicità.
– Sono meravigliosa di tutto ciò che ci circonda ‘ sussurravo al vento, mio fratello.
La brezza lieve mi avrebbe portata con sé, per uno dei miei dolci viaggi. Me lo ripetevo vagamente, mentre passavo sotto una quercia antica e uno stuolo di giovinette non proprio belle mi passava accanto. Alcune di loro mi chiesero il segreto della mia perpetua giovinezza’ Io sorrisi, un lampo di sole fece scintillare le mie labbra di corallo e le mie pupille incantate, poi, svanii in una nube di petali bianchi, come una visione.
Nessuno conosceva il mio mistero.
Non facevo che andare alla ricerca della felicità.
Fu così che partii, a bordo di un battello a vapore, su di un mare turchino, sopra il quale volavano gabbiani bianchi. Il marinaio parlava ai flutti, ai venti’
Alla fine, posai le mie membra nude sulla sabbia dorata di un lido sconosciuto’ Mi lasciai sfiorare dolcemente dalle ultime onde dell’oceano, che venivano a salutare il sogno. Bagnai piano le mie gambe senza veli nell’acqua di cristallo, per poi sospirare forte, all’ombra delle palme grandi, che sembravano castelli.
Abbassai le palpebre e sorrisi allegramente, come se tutto quello che vedevo fosse destinato a durare per sempre.
Gli abitanti del villaggio mi dissero che c’era una giungla, c’erano le tigri e persino dei serpenti. Forse, non avrei visto nulla, ma le loro favole destavano i miei desideri perduti ed accendevano il piacere.
Decisi di vestirmi da cacciatrice, misi un lungo manto scarlatto a frange nere e il fucile a tracolla. Non avevo mai sparato in vita mia e pensavo che giammai l’animo mio, tanto innocente e compassionevole, mi avrebbe permesso di farlo contro una creatura vivente. Uno dei selvaggi mi prestò uno dei suoi cavalli. Salii in groppa e mi feci guidare verso la giungla.
Vidi le liane, gli alberi maestosi e sempreverdi, le scimmie urlatrici che balzavano da un ramo all’altro e riempivano l’etere delle loro strida roche e cupe a un tempo. Di tanto in tanto, si discerneva una capanna, fatta di paglia. Io avrei voluto fermarmi ed andare a visitarla. Non appena ne scorsi una a breve distanza, scesi di sella e m’appressai, per poi andare a bussare all’uscio di legno.
Mi venne ad aprire un negro, erculeo e gigantesco, che catturò il mio innamoramento al primo sguardo. Pareva una statua di bronzo, di quelle che erano assai popolari presso gli antichi greci, ma aveva la pelle nera e portava in testa un copricapo rituale, rosso, ornato di rubini e di smeraldi. Indossava soltanto un corpetto e una sorta di gonna di paglia, di un giallo un po’ opaco, che non arrivava a coprirgli il ginocchio. Sotto, non aveva nulla ed impressionava anche per i suoi zoccoli di legno e la lunga lancia, che teneva in una mano. Mi sorprese allorché mi disse che ero bella ed avrebbe voluto comperarmi in cambio di non so quale tesoro.
Desideravo toccarlo e lui mi permise di farlo. Prendemmo confidenza e alla fine mi fece sedere accanto alla sua amaca. Fu soltanto allora che mi accorsi che il suo enorme fallo stava spuntando attraverso la paglia del suo costume rituale. Mi parve gigantesco e non cessava di ingrandirsi sotto i miei sguardi stupiti. Sembrava un serpente buono, nero e lungo; tanto m’attrasse, che lo strinsi tra le labbra, lo stuzzicai con la lingua e quasi lo inghiottii.
Poi, il negro mi spogliò e mi possedette carnalmente.
Ebbi l’impressione di sognare.
Alla fine, ripresi il mio viaggio a cavallo e giunsi in prossimità di una cascata, tra le rocce. La voce dell’acqua era sinistra e tutt’intorno cresceva una vegetazione lussureggiante, fatta di gigantesche foglie e arbusti d’ogni sorta. Fu là che m’apparve la tigre. Ne udii il ruggito, selvaggio, feroce ed infuocato. Poi, mi voltai e vidi il mostro, dal manto nero e marrone, le fauci spalancate, le bave che colavano attraverso le zanne aguzze, le zampe anteriori protese verso di me, gli artigli minacciosi pronti a cogliermi.
Gridai di piacere, presi il mio fucile e sparai in aria’ Non so se bastò per spaventarla, ma partii al galoppo e fuggii lontano. Forse, il terribile animale non era affamato.
Ritornai alla spiaggia e decisi di rimanervi. Invero, l’animo mio era fatto soltanto per il paradiso e l’eterna giovinezza, non per la crudeltà, né per la giungla.
Amavo spogliarmi quasi di tutti i veli, mettermi ritta su uno degli scogli, nell’ora del tramonto, rimanere immobile reggendo una conchiglia tra le mani e sospirare al mondo. Di tanto in tanto, il mare s’increspava e si faceva sentire la voce del tuono. Come una spada, un lampo di fuoco precipitava dal nero delle nubi nel cupo degli abissi marini. Poi, scendeva una pioggia di perle.
Strinsi amicizia con uno dei selvaggi, che un bel giorno mi portò al largo, con la sua piroga di legno.
Sulla spiaggia, mi adornavo di conchiglie dai mille colori. Trovavo anche delle stelle marine, che erano scarlatte e inoffensive. Volli farne tesoro, per la mia chioma morbida e senza tempo.
Invero, nemmeno io sapevo quale fosse il segreto della mia eterna giovinezza. Lo ripetevo al mare, al vento, ai pesci dai colori dell’arcobaleno, che nuotavano nelle acque preziose in cui amavo bagnarmi.
La mia avvenenza e il mio perpetuo splendore mi seguirono, allorché feci ritorno nell’Europa triste donde ero venuta. Abitavo nel paese degli arcolai, delle fornaci e degli spazzacamini. Dicevano che portava bene vederne uno sul tetto, con la ramazza in mano e il volto annerito’ Non so, forse, mi sbaglio.
Tutti i giovani più belli mi corteggiavano e mi porgevano i loro complimenti. Io avrei desiderato solo quelli.
Non ve l’ho ancora confidato, ma io amavo lavorare per delle ore all’arcolaio e filare, filare, filare.
Ricordo che una volta salii sulla sommità del campanile antico e il vento scompigliò forte i miei lunghi capelli d’oro puro. Una vecchia canuta, rugosa, sdentata e dai neri manti mi inseguiva, brandendo in aria una ramazza polverosa. Era animata dall’invidia e assai bramosa di strapparmi l’eterna giovinezza. Gridava con voce gutturale:
– Io sono la vecchiaia, con le sue malattie, il suo pianto, i suoi volti deturpati e orrendi, l’angoscia, l’infermità, la morte, il tormento! Sei mia! Sono venuta a prenderti, così smetterai per sempre di essere bella e felice!
Avevo il cuore in gola e tremavo di paura. Udivo il suo ansimare e i suoi odiosi passi alle mie spalle; rabbrividivo al suo cupo sghignazzare. Alla fine, presi a fuggire sui tetti spioventi e rossastri di quella cittadina delle Fiandre. Le luci del crepuscolo ardevano come fiamme attorno a me e alla megera, sembrava che bruciassero le tegole, i comignoli, le guglie e gli abbaini. Fuggivo, sì, fuggivo, inseguita, sui tetti, ansimante e innocente, le lunghe chiome al vento.
La carezza di un raggio di sole fece presto a risvegliarmi da quel brutto sogno ad occhi aperti.
Nessuno sarebbe riuscito a rubarmi il mio tesoro e la mia vita. Nessuno, nessuno mai.

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