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Racconti Erotici Etero

L’uccello delle bellunesi

By 3 Febbraio 2024No Comments

Mi chiamo Raffaella e vivo a Bolzano Bellunese
Bolzano è un piccolo paese ai piedi della Schiara una montagna dalle pareti chiare e verticali, percorsa da Ferrate che fanno capo al rifugio Settimo Alpini.
Avevo 14 anni quando venne la cugina di mio padre, Monica con il suo uomo Vincenzo. Lo aveva accompagnato perché come tanti altri voleva percorrere le vie ferrate della Schiara un una escursione di 2 giorni.
Così avevano fatto base da noi e mio padre lo avrebbe accompagnato mentre Monica che non praticava alpinismo all’epoca lo avrebbe aspettato a casa nostra.
Attivarono un pomeriggio d’estate e demmo loro la camera degli ospiti.
Il resto del pomeriggio trascorse per i preparativi la verifica dell’attrezzatura ed infine doccia e cena poi, siccome il giorno dopo sarebbe stata la prima di una giornata impegnativa, a letto presto.
Per mio padre voleva dire dormire, ma per Monica e Vincenzo proprio no.
Dalla mia camera sentivo Monica ansimare e mugolare, il letto cigolare ritmicamente, Vincenzo rantolare.
Incuriosita mi affacciai e arrivata alla loro camera delicatamente spiai dentro.
Alla luce della luna vidi le chiappe di Vincenzo che si muovevano ritmicamente giù e su tra le gambe di Monica che se ne stava nuda sotto il suo corpo.
Con il casino che facevano non si accorsero di me.
Ogni tanto Monica si inarcava con espressione di godimento e lo faceva sempre più spesso mentre Vincenzo continuava nella sua azione si fare scorrere il suo uccello nella passera.
Io mi feci prendere dall’eccitazione e mi ritrovai con la mano nelle mutande a torturarmi o clitoride fino a venire e a inginocchiarmi per terra perché le gambe non mi reggevano. Da stare in ginocchio continuai a masturbarmi fino a quando Monica esausta implorò Vincenzo di fermarsi.
Mi fermai anche io, e sgaiattolai in camera mia nel mio letto col le mutande fradice dei miei umori.
Nonostante mi fossi procurata più di un orgasmo mi rimase nella mente l’immagine di quel gran “toco di gnoco” di Vincenzo che sfondava Monica come un martello pneumatico.
Avrei voluto esserci io sotto di lui, avrei voluto andare con lui e seguirlo su tutte le ferrate sella schiara.
Quando dopo due ritornarono erano cotti dalla fatica e dal sole, ma gli alpinisti anche se provati non mostrano la fatica, sono i conquistatori dell’effimero che più di ogni altra cosa li rende felici.
E Modica ne ebbe una dimostrazione quella notte stessa, lei con l’uccello di Vincenzo piantato nella passera e io a farmi ditalini e a spiarli.
Quando partirono cercai di farmi promettere da Vincenzo che mi avrebbe portato, ma ottenni solo un “Vedremo.”
Fu un anno di ditalini, mentre mettevo su un po’ più di seno e arrotondavo le chiappe, e quando Vincenzo tornò era senza Monica.
Mia cugina era passata nel letto di un altro alpinista e Vincenzo non l’aveva ancora rimpiazzata.
Era venuto per portami sulla Schiara, ma io non volevo scalare solo la Schiara, volevo scalare lui e soprattutto quel campanile che aveva tra le gambe.
Dopo cena mentre era in doccia mi intrufolai in camera sua infilandomi nuda sotto le lenzuola, e nell’attesa cominciai a passarmi un dito tra le gambe pregustando quello che avrebbe fatto lui.
Quando entrò ero a occhi chiusi e gambe aperte e il seno mezzo scoperto, si capiva bene quello che stavo facendo e lo capì anche Vincenzo che rimase qualche minuto a guardarmi.
La cosa gli piacque perché l’accappatoio tradì subito la sua erezione.
“Piccola, cosa ci fai qui?”
“Non è chiaro?” dissi scoprendomi e mostrando la mia passerina vergine in tutto il suo splendore.
Vincenzo si sfilò l’accappatoio e venne nel letto accanto a me, cominciando ad accarezzarmi il seno, i capezzoli, a baciarmeli, a baciarmi il collo.
Mentre lui mi accarezzava, anche io accarezzavo i suoi muscoli, aveva un corpo di marmo, e quando arrivai tra le gambe gli afferrai il bastone, pure quello di marmo e me lo guidai verso la passera.
Il momento era giunto, io ero fradicia, ma nonostante la lubrificazione da un certo punto in poi fece fatica a farsi largo.
Allora prese posto su di me e si fece calare di peso.
Arrivò fino in fondo e quando emisi un urlo per il dolore mi tappò la bocca per fare in modo che non mi sentissero.
Attese che mi calmassi, poi cominciò un lento cullarsi dentro di me.
Eccitata come ero non ci mise molto a farmi venire, e quando fu sicuro che stavo godendo si lasciò andare, e un colpo dopo l’altro finì di sfondarmi la figa.
Quando venne fu una inondazione, ma la mia passera si mise ad aspirare come una ventosa spremendogli l’uccello per prosciugarlo.
Si accasciò di fianco a me e prese ad accarezzarmi nuovamente il seno.
Io presi a baciarlo, prima il viso poi il petto, e quando arrivai all’uccello dopo un po’ di baci presi a succhiarlo assaporando per la prima volta la sbora.
Lo risvegliai in un attimo e non appena fu eretto ne approfittai per infilarmelo nuovamente dentro e cavalcarlo.
Volevo gustarmelo lentamente, ma dopo qualche minuto ero una forsennata che praticamente di saltava sopra.
Mi fermai quando i suoi spruzzi contro il mio utero mi fecero godere nuovamente.
Mi ritornò sopra per una nuova passata poi mi mandò in camera mia, non potevano andare avanti tutta la notte se il giorno dopo volevamo incamminarci per il rifugio e poi salire per le ferrate.

Finalmente una ferrata, un percorso su roccia guidato da un cavo di acciaio che ti facilita la scalata delle pareti.
Al bivacco della Bernardina fui accolta da una visione: la “Gusela” alla forcella del Vescovà, un monolito di roccia non a caso chiamato il “cazzo” delle Bellunesi.
Tutta un’altra cosa dal vederlo dalla piazza di Belluno li potevi ammirare tutta la sua potenza.
Eravamo soli, aprii la porta ed entrai nel Bivacco, una piccola e buia baracca di lamiera con poche brande.
Non riuscivo a togliermi dagli occhi quel monolito e il farlo mi immaginavo come fosse ricevere dentro qualcosa di tanto maestoso.
Stavo appoggiata a una branda e mi ero sfilata l’imbrago, volevo per un po’ sentirmi libera.
Sentii le braccia di Vincenzo avvolgermi da dietro, abbracciarmi i seni, massaggiarli, torturare i capezzoli, mentre appoggiava il suo pacco già indurito sulle mie chiappe.
Mi sbottonai i pantaloni lasciando che Vincenzo li calasse, poi sentii le sue carezze da dietro sulla passera prima con le mani, poi con la cappella, poi lo sentii spingere da dietro sulle labbra ed infine entrare mentre le sue mani mi afferravano per i fianchi per tenermi bene in squadro contro la branda.
Entrò completamente da dietro e spingendo profondamente mi riempì di muovo. Stavamo facendo tardi per cui decidemmo di passare la notte in quota al bivacco.
Fu una fortuna essere soli, nonostante gli spazi angusti, scatenammo la nostra fantasia alla ricerca del massimo piacere.
La sera dopo, al nostro ritorno, ci attendeva una lauta cena, una salutare doccia e un letto comodo, quello di Vincenzo che usai per quasi tutta la notte tornado in camera mia solo la mattina per non farmi beccare da mio padre.

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