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Lia

“Do you need taxi? Do you want touristic tour? I’ll give you discount, beautiful, Bellissima!”.Le chiese in un inglese improbabile il tassista, sorridendo viscido.

“Madonna santa che giro ti farei fare” aggiunse, in dialetto, convinto che Lia non lo capisse.

“No, grazie, aspetto che mi vengano a prendere!”

Il tassista ridacchiò, imbarazzato: “mi scusi, non sapevo fosse italiana!” e si dedicò ad assillare un gruppetto di turisti.

Lia scrollò le spalle. Con quei capelli biondi, la pelle diafana e gli occhi cerulei, se fosse vissuta in Svezia nessuno avrebbe sospettato che fosse italiana.

Invece era nata in Italia e le capitava spesso di essere scambiata per una turista straniera, ci aveva fatto l’abitudine.

Dal padre aveva preso i colori chiari e il viso affilato; gli occhi all’insù le conferivano un’espressione felina, vivace e misteriosa allo stesso tempo.

Lo sguardo di Lia era addolcito dal nasino a patata, dal suo sorriso genuino “da brava ragazza” e dalle labbra stupende; anche struccate le sue labbra avevano una forma molto particolare con “l’arco di cupido” ben disegnato ed il labbro superiore più sottile di quello inferiore.

Da adolescente portava i capelli lunghi e ondulati sulle spalle, mentre da un paio di anni era passata a un caschetto “Bob” leggermente scalato e unito a una frangetta.

Con quel taglio somigliava tremendamente alla cantante Taylor Swift, da cui si differenziava per gli occhi molto più chiari e il fisico formoso.

Pensò con una punta di amarezza che, purtroppo, in pochi notavano quegli occhi stupendi; tutti erano attratti dal suo fisico a clessidra, un metro e settanta, tutto curve. Prorompente come quello della madre anche se non altrettanto burroso.

Soprattutto i seni saltavano subito all’occhio, tondi, molto grossi, una quinta abbondante. Stupendi. Chiunque, inevitabilmente, finiva per spostare lo sguardo verso di loro: incluso il tassista, prima, e suo fratello Luca, adesso, appena arrivato a prenderla.

Salì rapidamente in auto accanto a lui, tutto contento di rivederla: “sorellina, mi sei mancata tanto!”

Lia rise: “Sono stata via solo un paio di giorni, Luchino.”

Luca sorrise, la sua solita espressione malinconica sul volto: “lo so ma quando sei partita ho capito che difficilmente saresti tornata a vivere con noi. Rivederti dopo così poco tempo mi tira su il morale.”

“Con noi, Luca? Hai vent’anni, cosa ti impedisce di andartene da quella casa?”

Luca sbuffò: “la mamma non vuole e lo sai. Me lo ha detto anche ieri” e, imitando la voce stridula di Teodora, urlò: “al momento mi basta una figlia fuori casa, per te si vedrà più avanti”. Luca rise della sua stessa imitazione.

Lia scosse il capo e lasciò cadere il discorso. Suo fratello credeva di essere buffo, era solo succube. Non importava, in quel momento voleva sapere cosa diavolo fosse successo in quei giorni.

“Beh, riguardo lo zio, c’è poco da aggiungere a quello che ti ha detto la mamma. I medici dicono che potrebbe non riprendersi mai. Zia Mena è distrutta. Toni e Anna cercano di starle vicini ma stanno anche organizzando le cure per quando lo zio sarà dimesso dall’ospedale. Sarà necessario che trovino un infermiere che aiuti Toni e la zia. Saranno contenti di vederti. Sei stata premurosa”.

Lia lo interruppe, quasi impaziente: “Sì ma papà dov’è? Che è successo?”

“Non so niente, Lia. Di colpo, la mamma lo ha cacciato di casa. Mi aspettavo che lui la insultasse e iniziassero a litigare e invece, sai lui che ha fatto?”

“Cosa?”

“Ha preso le sue cose e se n’è andato senza dire una parola. Anzi, ci ha sorriso e voltato le spalle.”

“Vi ha sorriso? E tu che hai fatto?”

“Ho provato ad inseguirlo, mi ha sbattuto la porta in faccia uscendo. Lo sentivo quasi ridere mentre lo faceva.”

“E non hai provato a seguirlo in auto? Dov’è andato?”

Luca alzò le spalle.

Aveva capito che suo fratello non sapeva molto altro. Avrebbe dovuto sentire la versione di sua madre per saperne di più.

Papà. Dov’era finito suo padre?

Toni

L’ironia del destino voleva che Toni, dopo essere stato abituato per una vita a godere della frustrazione e delle invidie altrui, si ritrovasse improvvisamente inerte di fronte a un evento più grande di lui.

Sapevano entrambi che la malattia di Roberto li avrebbe costretti a sacrifici notevoli, ma non era quello il punto.

Lo tormentava la consapevolezza di poter fare poco per consolare sua madre; come di consueto in quel periodo, Toni rimaneva disteso nel lettone con sua madre, stringendola e cercando invano di darle forza.

Dal canto suo, Mena si accucciava tra le braccia di suo figlio e alternava pianto, sonno e momenti di scoramento in cui malediceva la sua sorte.

“Cosa faremo, Toni? Non possiamo permetterci le cure per tuo padre e io non voglio perderlo. Cosa abbiamo fatto di male per meritarci questo?”

“Mà, dovremo fare dei sacrifici. Lavorerò anch’io e cercheremo di risparmiare ogni centesimo. Però devi promettermi una cosa”.

Mena rispose senza aprire gli occhi umidi: “Cosa?”

“Ti devi togliere dalla testa l’idea che questa malattia sia una punizione o una maledizione verso di noi. La affronteremo insieme, non ci arrenderemo mai”.

Mena aprì gli occhi arrossati e pieni di lacrime e fissò intensamente suo figlio: “dovrai essere tu l’uomo di casa, Toni. Conto su di te”.

Toni annuì, le accarezzò appena il viso, raccogliendo una lacrima della madre con il dito; sorrise e l’abbracciò, avvertendo il calore del suo corpo. Cercò di non pensare all’erezione prepotente che spingeva sotto i pantaloni del pigiama. Scherzi dell’emozione, reazioni bizzarre: nulla di cui preoccuparsi. Aveva altri pensieri, adesso era lui l’uomo di casa.

In quel momento il telefono di Toni vibrò, discreto.

“È Lia! È tornata in Paese per starci vicina”.

Mena azzardò un lieve sorriso.

“Ringraziala tanto, però non so se mi va di vedere qualcuno”.

Toni la baciò sulla fronte e, con una certa dose di inaspettata fermezza, disse:

“Invece credo che dovremmo invitarli da noi. Farà bene a tutti”.

A tutti ma non al suo attrezzo. Non capiva perché fosse così duro, probabilmente era l’emozione di questo nuovo ruolo.

Sua madre annuì e chiuse gli occhi per riposare un po’.

L’uomo di casa aveva deciso. Amen.

Lia

Da sempre aveva considerato casa sua come una specie di convento. Niente scuole pubbliche, solo scuole di suore e preti, niente vestiti alla moda, niente amici, niente fidanzati. Solo messe, noia, silenzi.

Eppure, in quei suoi pochi giorni di assenza, il convento era peggiorato.

Sua madre la salutò appena; pranzarono guardando la televisione in silenzio, finché Lia non vide il piccolo Alessio finire rapidamente il pasto e sedersi sulle gambe della madre abbracciandola come un bimbo, mentre lei continuava a mangiare come se nulla fosse.

Lia lo sgridò affettuosamente: “Ale, lascia mangiare tranquilla la mamma, torna al tuo posto!”

“Non mi dà fastidio e nessuno ha chiesto il tuo parere” sbottò Teodora a voce eccessivamente alta.

Lia quasi sobbalzò per quell’urlo inatteso, imprevisto come se si fosse rotto un piatto.

Teodora se ne accorse e, a voce bassa, proseguì: “Volevo dire che per una volta che ho un figlio obbediente e devoto” e calcò il tono su “obbediente”, mentre Alessio immergeva il volto sul suo petto “non sarò certo io a fermarlo”.

Luca guardava la televisione senza fiatare.

“Dov’è papà?”

Teodora fece una smorfia disgustata: “Abbiamo litigato. È andato via. Ha fatto la sua scelta”.

“Per quale motivo avete litigato?” Dio, che era successo?

“Mi ha maltrattata una volta di troppo. Il resto non ti interessa, Lia. Vostro padre è un individuo spregevole e gli auguro il peggio. Staremo meglio senza di lui”.

“Ma cosa…”

“Basta, Lia!” urlò di nuovo, stridula. Alessio la stringeva forte, spaventato.

Lia non insistette; finì il suo pasto, uscì in giardino e provò per l’ennesima volta a chiamare suo padre al telefono. Numero non raggiungibile.

Iniziò a pensare. Sua madre sembrava stravolta e non era il caso di chiedere altro, almeno in quel momento; poteva solo aspettare.

Si ritrovò a percorrere le pietre lastricate che portavano alla dependance, il rifugio preferito di papà; sorrise ricordando che da bambina si recava sempre lì a trovarlo, percorrendo quelle stesse lastre con attenzione. Il gioco consisteva nel saltare da una lastra all’altra senza toccare con i piedi l’erba intorno.

Nella sua vita monotona quelle serate erano una boccata di adrenalina; aprì la porta della casetta e notò che nulla era cambiato da allora.

L’ingresso aveva un piccolo disimpegno con una porticina da cui si accedeva all’ampio soggiorno in cui il padre Sergio e i suoi amici fumavano, giocavano a carte e si divertivano tutta la notte.

Il suo ingresso era sempre accolto da urla, risate e altre rumorose manifestazioni di affetto da parte degli amici di suo padre, un gruppo di suoi coetanei, tutti adorabili nullafacenti, squattrinati e anche un po’ maniaci.

La piccola Lia aveva il suo incarico: portava le vivande che suo padre aveva ordinato per quelle serate; entrando nella casetta vuota sentiva ancora l’odore di tabacco ed alcol delle loro feste, le sembrava di percepire le immancabili urla di divertimento e gli schiamazzi al suo ingresso.

“Lia! Liaaaaa! Ciao Liaaaaa! Ecco Liaaa! Grazie Lia! Liaaaaaa che ci porti di buono? Liaa!!!”

La trattavano come la loro piccola mascotte e Lia fremeva per quelle attenzioni, dopotutto non solo era stata ammessa in quel “club” di grandi ma era addirittura al centro dell’attenzione! Dopo aver posato le vivande le era sempre permesso di rimanere con loro per una mezz’oretta prima di rientrare in casa e andare a letto.

Ricordava le loro risate, le battute volgari e il cibo addentato tra una bevuta e un rutto, senza troppo riguardo per la sua presenza in quella sala.

Eppure, avrebbe voluto che quei momenti non finissero mai. Suo padre spiccava in quel chiasso per il suo sguardo calmo, impassibile, quasi rassicurante.

I suoi stessi occhi cerulei che la guardavano e sembravano quasi chiedersi se non si sentisse a disagio in quel marasma, mentre lei gli sorrideva di rimando specchiandosi nelle sue pupille chiare e luminose.

Immancabilmente, scaduta la mezz’ora, suo padre Sergio le dava la mano come se fosse una nobildonna e la accompagnava alla porta.

“No Liaaaaaa! Non andare! Resta Liaaaaaa!”

Ridevano e lei si emozionava e sorrideva abbassando la testolina per la vergogna mentre cantavano stonati.

“Passerotto non andare, Liaaaaaaaaaaaaa!”

Usciva quasi si corsa, ridendo.

Fuori la aspettava sua madre, pronta a portarla a letto.

Ma Lia voleva sapere di più. Cosa succedeva in quelle feste dopo che andava via?

Una sera riuscì a sgattaiolare fuori casa mentre tutti dormivano e, senza farsi sentire, aprì piano la porta della dependance. In sala sentiva delle voci femminili che parlavano e delle voci maschili che ridevano. Vide la porta del disimpegno aprirsi e si nascose dietro il divano all’ingresso, appena in tempo.

Dalla sala uscì una donna molto bella, nuda, i lunghi capelli rossi e ricci, il seno appena pronunciato.

Indossava solo delle ballerine e dei collant neri con delle fantasie a fiori; prese delle sigarette dal suo soprabito all’ingresso, lo indossò e uscì a fumare. Dopo pochi minuti, ritornò rapidamente dentro la stanza.

Lia non aveva mai visto una giovane donna nuda e ne rimase incuriosita. Notò che anche lei non aveva peli sul pube. Perché quella donna stava nuda nella stessa stanza con suo padre e i suoi amici?

Non resistette alla curiosità e iniziò a guardare e origliare dal buco della serratura.

Vide la donna riccia sedersi accanto a suo padre e appoggiare le gambe sul suo inguine, mentre lui continuò a parlare; stava commentando una foto proiettata sulla parete:

“Vedete? Questa è la quintessenza dell’essere”.

La foto era quella di una ragazza distesa, con le cosce spalancate e la vagina oscenamente in vista.

“Non dimenticherò mai quando la vidi: aveva un abito verde, le calze nere, la pelle liscia. Tutta depilata. Sapevo che al primo approccio mi avrebbe respinto e così fu. Ma da quando in qua le parole significano qualcosa? Basta insistere. Il corpo è più espressivo del volto e soprattutto non mente!”

Risate collettive: “Coito ergo sum! “

“Tutto il resto è solo distrazione, bugia! Il lavoro, il successo, il progresso! La fedeltà! Tutte balle. Solo qui, io esisto!” e, con il dito, Sergio accarezzò il pube della donna riccia.

Il proiettore cambiò foto.

Apparve l’immagine di una studentessa bionda, poco più che una ragazzina sorridente, vestita con una casta divisa scolastica.

“Quella sembra Nadia! Cosa ci racconti, Nadia?”

Un’altra donna, bionda, matura e ugualmente nuda, si alzò da un divano e iniziò a parlare con voce ferma, divertita.

“Non è cosa da poco, signori, raccontare i fatti propri dinanzi a voi. Quindi, per soddisfare la vostra curiosità, ho deciso di ricordare quella volta in cui conobbi per la prima volta il membro maschile”.

“La prima e non ultima volta!” Dissero in coro ridendo.

“Prego, Nadia, inizia!”

“Ebbene, ero sempre stata una ragazzina curiosa. A scuola tutti i ragazzi più grandi si baciavano, si accarezzavano e parlavano di argomenti che non capivo. Volevo saperne di più ma gli adulti mi guardavano appena, sembravano solo interessati ai loro lavori e a spettegolare tra di loro. A casa non se ne parlava ed ero troppo piccola per acquistare immagini proibite”.

Lia la ascoltava rapita, pensando di aver avuto gli stessi dubbi, gli stessi tormenti.

Proseguì Nadia: “Mi confidai con una mia compagna di scuola che mi consigliò di parlarne con Carmelo, il bidello. Era un uomo di mezza età piuttosto alto e sempre sorridente, benvoluto da tutti. Lui avrebbe capito e mi avrebbe aiutata e dato un regalino. La mia amica organizzò l’incontro e Carmelo fu ben lieto di ascoltare i miei dubbi. Mi disse di capire bene i miei desideri e mi portò in un luogo appartato, un piccolo ripostiglio della scuola, dove avrei visto, secondo lui, qualcosa che mi sarebbe piaciuto”.

Sergio, assorto nel racconto, accarezzava le gambe della rossa, salendo piano con le dita.

“Lo seguì, chiuse la porta, e mi fece sedere su una poltrona. Poi si sbottonò la patta di fronte a me: guarda, Nadia, mi dice, tirando fuori un grosso cazzo piuttosto lungo, guarda, bambina mia, continuò maneggiandolo, hai mai visto niente di simile? Feci no con la testa e proseguì: è quello che si chiama un cazzo, cara, sì, un cazzo. Serve all’uomo a divertirsi e quella cosa che vedrai schizzare è il seme da cui sei nata”.

Nella stanza c’era un silenzio carico di eccitazione e Nadia, soddisfatta, proseguì.

“Era decisamente un grosso uccello, mi sembrava di vedere le vene pulsare e il suo colore era più scuro di quello della sua pelle. Rimasi interdetta a contemplarlo. Una folta peluria nera e due grossi testicoli lo decoravano.

Inizialmente era moscio ma, dopo che lo ebbe sollecitato, fu ben presto rigido come un palo della luce. La sua erezione lo aveva reso ancora più grosso e la sua asta, leggermente curva, presentava una tozza cappella violacea. Si avvicinò e vidi il suo cazzo puntare dritto verso il mio volto, proprio all’altezza della mia fronte.”

Nadia si interruppe avvicinandosi a suo padre e, facendogli l’occhiolino, gli aprì discretamente la patta dei pantaloni, consentendo a Sergio di tirar fuori e mostrare il membro a tutto il gruppo.

A quel punto, Nadia proseguì.

“Iniziò a darmi dei piccoli schiaffetti sulle guance con quell’affare duro e sentii chiaramente un acre odore di pipì e sudore maschile, un odore che mi diede le vertigini e gli dissi ridendo che quella puzza mi lasciava senza fiato”.

Lia vide suo padre tirare a sé la sua amica rossa e iniziare a massaggiarle i piccoli seni, sempre più assorto, mentre lei di rimando gli accarezzava l’attrezzo, piano, mentre Nadia proseguiva il racconto.

“Non avevo mai visto un uccello maschile e lo fissavo, attonita, mentre lui continuava con gli schiaffetti sul naso, sulle guance, finché a un certo punto mi chiese se sapessi cosa fosse la masturbazione. Gli dissi che non ne avevo idea e, estremamente eccitato da quella risposta, mi diede uno schiaffetto sulle labbra con la cappella. Fu la prima volta che assaggiai il sapore del cazzo”.

E si avvicinò a Sergio, dando un piccolo bacio sulla cappella di suo padre.

“Mi ricorda un po’ il tuo, Sergio. Stesso sapore, stessa grandezza. Però puzzava molto di più.”

Risero e continuò il racconto.

“A quel punto mi chiese di slacciarmi la gonna e iniziò a spiegarmi come avrei dovuto fare per procurarmi piacere. Appoggiò la mano sul mio giovane pube e mi spiegò che bisognasse carezzare con un dito, ma dolcemente, la piccola protuberanza in alto che si chiama clitoride, proprio qui, vedi? E mi indirizzò la mano. Ci siamo piccola, disse, proprio così! E mentre con una mano fai come ti ho detto, un dito dell’altra deve lentamente insinuarsi in questa fessurina tenera e sensibile; così, sì… senti qualcosa? Continuò. In effetti, avvertivo sensazioni voluttuose che in poco tempo mi portarono al mio primo, indimenticabile orgasmo”.

Lia commise l’imprudenza di provare quel piccolo movimento a sua volta e sentì le dita bagnate, come se la sua patatina non desiderasse altro che essere accarezzata. Si riscosse poco prima di lasciarsi andare sulla porta e rischiare di essere scoperta.

“Ora è giunto il mio turno, mi disse il bidello. Prendilo in mano e fai questo movimento, continuò accompagnandomi il polso con lenti colpi. Questa è la masturbazione maschile. Continua da sola, così. Piano piano devi aumentare il ritmo Più i tuoi movimenti saranno rapidi e precisi, più anticiperai il momento del mio godimento. Lascia sempre leggermente scoperto il glande, non coprirlo mai del tutto con questa pelle chiamata prepuzio. Così, su e giù”.

Nel frattempo, la rossa stava palesemente masturbando suo padre, dopo avergli inumidito il glande con un paio di leccate.

“Mi dedicavo con tanta attenzione nell’eseguire gli ordini del mio maestro da non accorgermi che, vinto da sollecitazioni così delicate, mi sborrò copiosamente sul volto, inzaccherandomi tutto il reggiseno. Così, nella mattina delle prime volte, assaggiai anche lo sperma del mio bidello insegnante”.

Nella stanza si sentivano gli ansimi di suo padre e dei suoi amici, evidentemente tutti alle prese con altre ragazze ed ormai evidentemente poco interessati al finale della storia.

“In ogni caso, dopo essersi calmato, rimise l’attrezzo al suo posto e prima di andarsene mi fece scivolare cinquantamila lire in mano, raccomandandomi di portargli altre amichette a cui insegnare”.

Tutti stavano ansimando di piacere e Lia vide suo padre afferrare la rossa dai fianchi e penetrarla da dietro, rimanendo seduto mentre lei si muoveva sopra di lui.

Lo vide baciarle il collo in estasi e, forse desideroso di aumentare il ritmo, alzarsi in piedi e spingerla verso la porta.

Ridendo, la rossa appoggiò le mani proprio sulla porta e si preparò ad accogliere di nuovo le spinte di Sergio, ormai eccitato come un toro.

Lia si ritrasse spaventata, sentendo la porta dietro di lei vibrare e cigolare per le spinte di suo padre. Dalla serratura si vedevano solo i piccoli seni della rossa che ballavano, i capezzoli duri come la pietra.

Le spinte, sempre più forti, durarono un tempo indefinito finché Lia non le sentì accelerare sempre di più fino a quasi scardinare la porta. Poi, delle urla di piacere.

Qualunque cosa fosse il sesso, papà doveva saperlo fare bene.

Aveva il cuore a mille e rimase lì, indecisa se continuare a spiare, quando d’improvviso la porta si aprì leggermente.

Suo padre, totalmente nudo, uscì dalla sala e ritrovò la piccola Lia di fronte a sé.

Era davvero una figura imponente, vigorosa. Non sembrava arrabbiato, pareva piuttosto incuriosito.

Nessuno dei due disse qualcosa e lei non riusciva a guardarlo negli occhi, mentre lui si avvicinò fin quasi ad appoggiare il suo cazzo barzotto e lucido di umori sulla fronte di sua figlia.

Invece, le accarezzò dolcemente i capelli. Così, era questo l’odore di cazzo di cui parlava Nadia? Odore pungente, acre.

Lia non capiva più nulla. Fu in quel momento che lui le prese delicatamente la mano e, senza dire una parola, la aiutò ad alzarsi e la accompagnò fuori senza che i suoi amici, ancora ebbri di sesso, la vedessero.

Dopo tanti anni, Lia continuava a ripensare a quella notte. Quella notte, quando tornò a letto, finalmente riuscì a concludere con soddisfazione la sua prima masturbazione, inzuppando totalmente le mutandine già umide e addormentandosi esausta dopo tutte quelle emozioni.

E anche oggi, vedendo quel divano vuoto dove abitualmente sedeva suo padre con l’amante di turno, non riusciva a non pensarci.

Si stese su quello stesso divano, elettrizzata da quei ricordi e iniziò ad accarezzarsi, piano, sfiorando appena le grandi labbra sotto alle sue mutandine e al suo Jeans e le sentì umide di rugiada, oggi come allora. Annusò delicatamente la fodera del divano e poi le sue dita e le sembrò di percepire quell’odore estatico, oggi come allora. In casa non la aspettava nessuno, avrebbe potuto dedicare un po’ di tempo a sé stessa e al suo piacere. Con calma. Papà. Dov’era finito suo padre?

Luca

Sua sorella rimase lì, distesa sul divano a toccarsi per un tempo che gli sembrò infinito, mentre lui la spiava dall’ingresso.

Non riuscì a resistere che pochi minuti, prima di iniziare a scappellare il suo cazzo ancora nelle mutande e a venire copiosamente quasi subito sporcandosi tutti i pantaloni.

Sperò ardentemente che si spogliasse e le mostrasse il suo bellissimo corpo. Invece rimase vestita, con la mano a darle piacere come lui non sarebbe mai riuscito a fare.

Rimase comunque a spiarla, venendo una seconda volta anche se da barzotto quando lei raggiunse il suo piacere.

A quel punto se ne andò, frustrato da un desiderio palesemente fuori dalla propria portata.

Anna

Gli aveva portato dei pasticcini per tirarlo su di morale e ricordargli che quei giorni infernali sarebbero passati, un giorno.

Voleva fargli una sorpresa e magari coccolarlo un po’ ed entrò piano in casa avviandosi verso camera sua.

Fu allora che Anna vide Toni seduto sulla propria scrivania, intento a masturbarsi su un classico video porno.

Era così preso che non si accorse di essere stato colto in pieno.

Anna non se lo aspettava e la cosa la lasciò stupita. Il suo primo pensiero fu piuttosto egoista: pensò che non avesse senso segarsi quando stava con una ragazza così bella e disponibile come lei.

Per quanto ne sapeva, Toni si masturbava molto raramente, se non mai.

E perché avrebbe dovuto? Anna non si era mai negata, anzi.

Cos’era adesso questa novità?

Scacciò quel pensiero bollandolo come meschino e ingiusto.

Tutti hanno il diritto di “fare da soli” quando vogliono. Lei stessa lo faceva. Anche piuttosto spesso.

La verità è che non si aspettava che anche Toni lo facesse, soprattutto in un momento così delicato.

Immaginava dovesse avere altro per la testa.

Era solo l’ennesima volta in cui Toni l’aveva spiazzata di recente.

Certo che aveva proprio un bel membro. Come sua fidanzata, ne era fiera. Forse la sua irritazione derivava anche dal fatto che lo aveva percepito sempre come il “suo” cazzo.

Se non fosse stata così infastidita lo avrebbe interrotto per “aiutarlo”. Curioso, nella sua giovane vita aveva già fatto drizzare innumerevoli cazzi e ad altrettanti aveva provocato masturbazioni e quella del suo fidanzato era l’unica di cui si stupiva.

Inopportuna? Forse o forse no.

Anna si sentì in colpa per quei pensieri strani e capì che non era giusto che lei decidesse per gli altri cosa fosse giusto sentire in una situazione come quella.

Ripensò alle parole di suo padre Luigi, il giorno dopo il fatto.

“Quello che è successo a Roberto è stato tragico e mi addolora. Spero che si riprenda e farò quel che posso per informarmi. Però ho bisogno che tu mi ascolti”.

Rimase interdetta, annuendo.

“Lo so che può sembrare cinico, ma questa non è la tua guerra. Aiuta Toni e sua madre. Stai loro vicina. Li supporteremo come potremo. Però li aspetta un periodo complesso e dovranno lottare con i loro demoni.

E tu non puoi farti trascinare in quella guerra”.

“Papà, credi che non sia abbastanza forte?”

“Sono solo preoccupato che tu soffra inutilmente”.

Sorrise ripensandoci. In tutto quel casino, lui era preoccupato per lei.

Tipico di suo padre. Protettivo fino al paradosso.

“Inutilmente?”

“Anna, ho aiutato centinaia di persone a guarire senza mai farmi trascinare nelle loro storie. Più sarai coinvolta e meno sarai lucida. Dovrai tenere quella sofferenza a distanza o ti farai solo del male. Ti costerà fatica ma ci saranno volte in cui dovrai lasciare che Toni sfoghi il proprio dolore per conto suo e a modo suo e altre in cui sarai tu a dover stare lontana da lui”.

Anna sorrise timidamente e disse solo: “Ma papà!” come diceva sempre quando il padre le faceva una predica e lei voleva fargli intendere che avesse capito.

Sorridendo di rimando, Luigi le accarezzò appena il volto e uscì.

Anna si riscosse e pensò che ci fosse un fondo di verità nelle parole di suo padre.

Doveva lasciargli i suoi spazi e prendersi i propri o sarebbero impazziti entrambi.

Tornò all’ingresso e dopo qualche minuto fece finta di essere appena arrivata, chiamando Toni.

Sperò che almeno se la fosse goduta.

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