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A quel tempo avevo gli occhi marroni, di quel marrone caldo e liquido che sembra miele quando ci batte la luce, capaci di guardarti come se ti stessero già scopando prima ancora di toccarti.

Il mio corpo era un invito continuo: pelle dorata, morbida, sempre un po’ calda al tatto, come se dentro ci bruciasse un sole che non si spegne mai. Seni pesanti che si muovevano da soli sotto le magliette strette, capezzoli sempre duri, sempre visibili, sempre pronti. Vita sottile che si stringeva in un arco perfetto quando mi inarcavo all’indietro, culo alto, sodo, che ondeggiava lento quando camminavo in corsia, come se stessi già scopando l’aria. Cosce piene, lisce, che si stringevano intorno a un cazzo come se non volessero più lasciarlo andare. E tra le gambe… sempre bagnata. Non importa l’ora, il giorno, il turno. Bastava un pensiero, un ricordo, uno sguardo, e sentivo colare.

Sapevo muovermi.
Sapevo piegare la schiena quel tanto che bastava perché il camice si aprisse sul décolleté. Sapevo passare accanto a un letto e sfiorare con il fianco la mano di un paziente “per sbaglio”. Sapevo sedermi su una sedia incrociando le gambe lente, lente, lasciando intravedere il bordo delle calze autoreggenti. Sapevo leccarmi le labbra senza motivo, mordermele quando qualcuno mi guardava troppo, e poi sorridere come se non avessi fatto niente.

Quel sabato sera ero ancora pressa con messaggiare con Roberto

Arrivo da lui con il cuore che mi spacca le costole. Cappotto lungo, sotto solo un completino nero di pizzo e le autoreggenti.
Porta socchiusa. Entro.
Roberto è in piedi per la prima volta senza tutore, solo boxer neri, il cazzo già duro che tira la stoffa. Mi guarda come un lupo.

Non dice una parola.
Mi afferra per la nuca, mi spinge in ginocchio sul parquet.
«Apri la bocca, colombiana.»
Gli tiro giù i boxer, quel cazzo enorme mi schiaffeggia la guancia. Lo prendo in bocca meglio che posso, ma è troppo grosso, mi strozzo subito. Lui ride basso, mi tiene la testa con due mani e comincia a scoparmi la gola senza pietà.
«Respira dal naso… brava… prendi tutto il tuo papi.»
Mi cola la bava sul mento, le lacrime, il mascara. Mi viene in gola dopo pochi minuti, mi tiene giù finché non ingoio ogni goccia.
Poi mi alza, mi strappa il completino (letteralmente, sento il pizzo che si rompe), mi gira, mi piega sul bracciolo del divano.

«Mai preso nel culo, vero?»
Scuoto la testa, terrorizzata ed eccitata.
Mi sputa sulla figa, poi sul buco dietro. Mi infila un dito, poi due, poi tre. Urlo.
«Zitta. Rilassati o ti spacca.»
Appoggia la cappella al mio culo vergine, spinge piano.
Fa male da morire, poi passa, poi è solo pieno, pieno, pieno.
Comincia a spingere, prima lento, poi sempre più forte.
Mi tiene i capelli come redini, mi schiaffeggia il culo fino a lasciarmi i segni delle dita.
«Questo culo è mio adesso. Ogni buco è mio.»
Mi scopa il culo per venti minuti, mi fa venire due volte solo con quello, la terza volta quando mi infila tre dita in figa mentre mi incula.
Alla fine mi gira, mi mette in ginocchio di nuovo e mi viene in faccia, sul collo, sui tette.
«Marchiata» dice, spalmandomelo con il cazzo ancora duro.

Crolliamo sul divano, io tremante, lui che mi accarezza i capelli.
Il telefono sul tavolino vibra.
Lo prendo per silenziare e vedo:

«Amore ❤️»
Foto di una donna sulla cinquantina, capelli biondi.
«Roberto, dove sei? Ti ho fatto le melanzane alla parmigiana, la tua preferita. Torna presto, mi manchi.»

Alzo gli occhi.
«Tua moglie?»
Silenzio.
«Pensavo fosse morta di cancro.»
Ride amaro. «Quella è la balla che racconto a tutte.»

Mi alzo, mi rivesto con le mani che tremano di rabbia e umiliazione.
«Sei sposato.»
«Da 31 anni.»
Esco senza dire altro.
In macchina piango come una stupida, mi sento usata, sporca, stupida.
Lo blocco ovunque quella stessa notte.
Per settimane non dormo, mi manca quel cazzo, mi manca sentirmi sua.

Turno pomeridiano, reparto semivuoto.
Io e Salvatore sistemiamo i carrelli in magazzino, luce al neon che ronza, odore di disinfettante e caffè freddo.

Lui mi guarda di sbieco mentre conta le siringhe.
«Bedda, si vede che qualcosa ti manca forte forte… sembri una che ha perso la medicina giusta.»
Io arrossisco, fingo di controllare le etichette.
«Sarà la stanchezza.»
Lui sorride lento, accento palermitano che accarezza.
«Eh no, la stanchezza è un’altra cosa. Questa è mancanza di… terapia intensiva.»
Fa una pausa, piega una garza con calma.
«Quando manca la dose giusta, una resta con quella faccia lì: occhi persi, mani che tremano, e ogni tanto si stringe le cosce senza accorgersene.»

Io abbasso lo sguardo. Ha ragione: lo faccio da settimane, stringo le cosce quando nessuno guarda, come se così potessi calmare quel vuoto che ancora brucia.

Salvatore continua, voce bassa, quasi un sussurro tra gli scaffali:
«A me capita lo stesso quando sto troppo tempo senza… la cura completa. Mia moglie lo capisce subito: “Salvato’, ti vedo che sei gonfio di medicina non presa”. E allora mi sistema lei… oppure mi manda a prendere quello che mi serve, così poi torno a casa e le racconto tutto. Lei si bagna già mentre preparo la borsa.»

Mi mordo il labbro.
Lui si avvicina di un passo, senza toccarmi.
«Io non chiedo nomi, Karen.
Ma se c’è una medicina che ti manca… di quelle grosse, lunghe, che ti lasciano il segno per giorni… io lo capisco.
E so dove trovarne una che funziona allo stesso modo, magari pure meglio.»
Abbassa ancora la voce: «E soprattutto so che a casa mia c’è chi aspetta il resoconto… dettaglio per dettaglio.»
Silenzio.
Sento il cuore che mi batte nelle orecchie e tra le gambe.
«Non ti chiedo di parlare» dice, appoggiando l’ultima scatola sullo scaffale.
Perché sì, mi manca quella “terapia” che solo uno come Roberto sapeva darmi…
e Salvatore l’ha capito senza che io dicessi una parola.

Per commenti o dubbi pareri del racconto. Karen90x@proton.me

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