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Racconti Erotici Etero

Profondo sud

By 29 Aprile 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Jo’burg 2004
Quando sentivo parlare del deep south, il profondo sud, pensavo subito a Dover, il punto più meridionale dove qualche volta m’ero imbarcata per andare a Parigi.
Poi, la mia mente si allontanava fino alla splendida Sicilia, al suo sole, alla spiaggia di Naxos.
Quello era il massimo sud che avevo raggiunto.
Un sud legato a ricordi non sempre piacevoli.
Durante tutta la settimana Bill s’era mostrato silenzioso più del solito e distaccato.
Sempre gentile e formalmente premuroso, ma anche nell’intimità percepivo che c’era qualcosa di stentato, più di ‘dovuto’ che di ‘sentito’. Avevo la sensazione che, accoppiandosi, stesse adempiendo a un dovere del proprio stato. Ed &egrave logico che ne risentissi.
Già, normalmente, dovevo concentrarmi al massimo e mettercela tutta per raggiungere il necessario e sufficiente piacere prima del suo troppo precipitoso svuotamento della sacca seminale, adesso, poi, mi sembrava più distratto del solito ed ancor meno preoccupato delle mie esigenze.
Eravamo sposati da dodici anni, trascorsi senza infamia e senza lode, nella monotona ripetizione della routine quotidiana.
Ero nel suo studio, come ‘barrister’s aide’, assistente del grande avvocato, un principe del foro, an outstandig barrister, a soli quaranta anni. E mi sembrava che apprezzasse molto la mia attività, mi trattava con un lieve accenno di confidenza che, in genere non concedeva neppure ai suoi più anziani collaboratori.
Dopo due anni di diligente collaborazione, proprio il giorno in cui compivo ventisei anni, e lui aveva festeggiato i quarantadue, mi invitò al lunch, per la prima volta, perché, disse, aveva qualcosa di importante da dirmi.
Quando tornai al mio posto, sulla scrivania trovai un mazzo di fiori con un biglietto, non di quelli intestati che di solito usava, ma completamente bianco, con la sola firma: ‘Bill’.
Aveva firmato ‘Bill’, lui che tutti chiamavano Mister Moss o, cosa che lo lusingava, anche ‘Master’. Solo Paul Posthle, il senior partner, di dieci anni più anziano, si permetteva di chiamarlo Bill.
Dieci minuti prima di mezzogiorno mi telefonò per dirmi che mi attendeva al portone, dove aveva fatto giungere un taxi. Non mi lasciò neanche il tempo per ringraziarlo dei fiori,
Disse all’autista di andare al Clarence.
Fummo accolti dal Maitre che ci accompagnò al tavolo prenotato.
Mi chiese se gradissi il menu che aveva ordinato.
Non lo ascoltavo nemmeno. Mi andava bene tutto.
Parlò del più e del meno, accennò alla sua vecchia mamma, nell’Essex, a suo padre che era stato magistrato. Era figlio unico.
Chiese qualcosa di me, tanto per far vedere, perché io sapevo che prima di assumermi aveva raccolto notizie dettagliate su me, sui miei familiari, sulle mie abitudini.
Mio padre era stato un Ufficiale di Sua Maestà, e una polmonite fulminante lo aveva spazzato via alla vigilia della sua promozione a generale.
Mia madre Mary collaborava a una rivista giuridica.
Andrew, mio fratello maggiore, era in Pakistan, con la famiglia, come consigliere militare presso la nostra ambasciata in quel Paese.
Al termine, mi propose di gustare un ‘espresso italiano’ al bar.
Sedemmo in un angolo appartato.
Il cameriere venne col le tazzine che depose sul tavolino.
Fu allora che Mister Moss mi prese una mano, tra le sue, e leggermente chino verso me mi desse.
‘Pearl, volete sposarmi?’
Rimasi paralizzata da quella domanda. Credei di non aver compreso bene, di aver sognato. Lui comprese il mio sbigottimento.
‘Si, Pearl, vi ho chiesto se volete sposarmi.
Non dovete rispondermi subito.
Adesso torniamo allo studio.
Se non avrò alcuna risposta comprenderò che &egrave un ‘no’.’
Il resto della giornata trascorse normalmente.
Era venerdì, ci saremmo rivisti il lunedì successivo.
Avevo progettato di festeggiare il mio compleanno il pomeriggio di sabato, a casa mia, così vi sarebbe stata anche mia madre, oltre qualche collega di studio e poche amiche.
Rientrai a casa frastornata.
Mamma si accorse che c’era qualcosa di strano.
Le raccontai tutto, dettagliatamente.
‘Cosa intendi fare, Pearl?’
‘Non lo so, mamma. Non ho mai pensato di sposare Bill Moss. Fra l’altro non mi ha mai degnata d’uno sguardo.’
‘Ma tu sei una belle ragazza, Pearl, lo sai bene, lo specchio e i tuoi corteggiatori te lo hanno sempre detto, solo che ti sei tuffata nel lavoro, perché devi divenire una ‘barrister in petticoat’, un avvocato in gonnella. Ma ti interessa tanto?’
‘Si, mamma, moltissimo. E ci sto riuscendo.’
‘Se dirai di no, potrai rimanere con Mister Moss?’
‘Non lo so.’
‘Io credo che tu debba rifletterci attentamente, Pearl Plomer.’
‘E’ quello che farò.’
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Il lunedì, non appena fui al lavoro, chiesi a Mister Moss di parlargli, mi disse che mi attendeva.
Mi ricevette alzandosi in piedi, sorridendomi, tendendomi la mano.
Mai fatto prima.
Disse di sedere in una delle poltrone che formavano il suo angolo privato. Lui si accomodò sull’altra.
Mi scrutò attentamente.
‘Dovete dirmi qualcosa, Pearl?’
‘Non so come cominciare.’
‘Vedete, Pearl, se siete qui &egrave segno che non c’&egrave un rifiuto totale alla mia richiesta, altrimenti, come vi ho detto, sarebbe bastato il silenzio diniego, refusal by default. Quindi, devo arguire che ci siano delle condizioni.’
‘Nessuna condizione, Mister Moss, ma desideravo farle presente che non vorrei abbandonare il mio progetto di poter esercitare come barrister.’
‘Ottimo, Pearl.
Una bella targa nuova e lucida: ‘Moss & Plomer, Barristers’.
Che ne dite?’
Non potei nascondere la mia commozione.
Bill mi baciò la mano.
‘Quando potrò porgere i miei omaggi a Mistress Mary Plomer?’
Le cose si svolsero celermente ma ordinatamente.
Due mesi dopo eravamo sposi.
Dodici anni dopo, di ritorno dalla Sicilia, mi disse che era rammaricato di dovermi informare che il suo interesse per me era notevolmente diminuito, anzi era cessato del tutto, perché ora era attratto e si trovava a proprio agio con Holly Smithson, la giovane e burrosa dattilografa di venti anni.
Lui ne aveva cinquantaquattro, io trentotto.
Non feci alcun dramma.
Decidemmo di inviare una lettera ai nostri clienti, informandoli che da ora in poi ci sarebbero stati due ‘studi’ separati: uno intestato a William Moss e l’altro a Pearl Plomer, e li pregavamo di scegliere con chi avrebbero preferito proseguire i rapporti professionali.
Nessun cambiamento di indirizzo, perché occupavamo tutto un piano dell’edificio, con due entrate. Avevamo due distinti studi, e c’erano due entrate.
Bastava chiudere una porta interna.
Devo dire, anche con un certo orgoglio, che quasi la metà dei clienti, tra cui molti importantissimi, scelsero me.
Così potemmo dividere le pratiche ed anche il personale.
Fui anche felice che molti collaboratori optarono per proseguire la loro attività con me.
^^^
Fu l’anno successivo che, in occasione di un ricevimento presso l’Ambasciata della Repubblica Sudafricana, conobbi il loro ministro della giustizia. Mi offrì una collaborazione perché era in corso una revisione della loro organizzazione. Due anni nel suo Paese. A Johannesburg, con qualche puntata a Pretoria per gli immancabili incontri collegiali.
Sud Africa, quello sì che &egrave profondo sud.
Partenza da Londra alle sei del pomeriggio, arrivo a Johannesburg, normalmente detta Jo’burg, alle sette dell’indomani mattino.
Ero venuta per due anni.
Ci sono da oltre venti!
La Costituzione del 1983 ha chiesto che mi trattenessi.
Mi sono trattenuta.
Quando giunsi nel Transvaal ero inquieta e confusa.
Vivevo in una sorta di agitazione perenne.
Avevo sospeso un’attività professionale soddisfacente e largamente redditizia, l’avevo affidata nelle mani di validi collaboratori, e non sapevo, allora, che il mio studio avrebbe avuto solo poche mie visite, annuali, durante più di quattro lustri.
La mia tensione, ovviamente, risentiva anche di quella che mi sforzavo ipocritamente a definire ‘vedovanza sentimentale’ mentre era una vera e propria esigenza sessuale.
Non rimpiangevo gli amplessi di Bill, no, non era nostalgia di qualcosa di prelibato, di una ghiottoneria, era semplicemente ‘fame’, sano appetito sessuale, del resto più che normale in una femmina sana alla vigilia dei quaranta anni.
La cosa, oltre che agitarmi, andava sempre più procurandomi eccitazioni quando incontravo un certo tipo di uomini, ed ancor più quando assistevo ad alcune trasmissioni hard. Come un’adolescente, si. Del resto ero io che andavo a scegliere spettacoli dal contenuto erotico-sentimentale, e le mie mani non rimanevano inerti durate quelle visioni.
L’accettazione di andare a Jo’burg incontrò, sulle prime, alcune perplessità.
Popolazione per l’80% di colore.
Non ero razzista, almeno così credevo, ma pur ammirando certi statuari campioni della bellezza negra, (ecco, vedete, ho adoperato il termine negro e non di colore), non so se mi sarebbe stato facile carezzare uno di quei corpi attraenti, stuzzicanti, ben dotati.
Vinsi ogni indecisione, e una bella mattina giunsi a Jo’burg.
Ad attendermi c’era un colosso d’ebano, elegante, vestito con cura e senza affettazione, con un volto simpatico, con modi gentili e cordiali nel contempo, ma nero come la pece, alto circa due metri, e certamente vicino al quintale di peso.
Si presentò.
‘Sono John Sowe.
Il suo segretario, se riterrà di confermarmi.
Se mi da il ticket faccio ritirare il suo bagaglio e l’accompagno in Hotel. Fuori ci attende l’auto.’
Gli tesi la mano, la strinse abbastanza vigorosamente.
Quel contatto, strano, non mi dispiaceva.
Mi sembrava che mi prendesse per mano per condurmi, guidarmi, proteggermi.
Non so cosa si svolse, impulsivamente, nel mio pensiero, ma mi venne da accostare il colore della sua pelle a quello della mia. E me lo immaginai nudo, così nero e lucido e, logicamente, con tutto in proporzione.
La statura di Bill &egrave un metro e settanta, quella di John la supera di un buon 15%. Una bella percentuale, però!
Il profondo sud influiva sul mio pensiero.
Mi sussurrava, il mio pensiero: ‘che ne diresti, Pearl, di una bella sturata alla tua conduttura? John ha certamente lo scovolo adatto’!
Guarda caso, to sweep, dragare, significa anche scopare.
Quando, in camera, mi spogliai per godermi una doccia ristoratrice, la pattina delle mutandine era bagnata.
Se quello era l’inizia, figuriamoci il seguito.
Essermi allontanata dal mio ambiente, aveva fatto cadere ogni residuo di pruderie, mi aveva disincrostato da quella patina di ipocrito moralismo dietro la quale spesso ci nascondiamo.
Africa, gente semplice e naturale.
Risveglio prepotente dei sensi.
Razzismo?
Non ricordavo cosa significasse.
‘Non &egrave il colore del batacchio che fa suonare la campana.’
Vecchio detto delle nobildonne del Missouri. Loro si che se ne intendevano.
E le loro campane suonavano a festa coi coloured clappers, i battagli neri, degli aitanti schiavi.
John sarebbe tornato dopo due ore.
Mi agghindai di tutto punto, senza esagerare e sempre con abito sportivo, e scesi.
Mi attendeva nella Hall.
Gli proposi una bibita.
Andammo al bar.
John mi raccontò che aveva trentacinque anni, aveva studiato, oltre che all’Università di Jo’burg, in Olanda e in Inghilterra, e che era addetto alla Commissione di Studio per la riforma della Giustizia.
Era single, di razza Swazi, Cristiano.
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Fui accolta con festosa cordialità, in Commissione, e mi misero subito a mio agio.
Nel mentre stavo rapidamente raggiungendo un ottimo equilibrio in merito al lavoro, forse anche per minori tensioni del genere, prendeva sempre più consistenza un disagio di diverso tipo.
Mi ero sistemata molto bene in una villetta, a Maven, una zona residenziale a cinque chilometri dal centro, ad est. Eppure ero inquieta, agitata’ forse &egrave più esatto dire ‘eccitata’. Mi sentivo sola, troppo sola, in tutti i sensi e soprattutto sessualmente.
La mia sessualità s’era risvegliata del tutto e in modo prepotente. Forse ciò era dovuto alla lunga castità, sta di fatto che avevo sempre più urgente bisogno di un maschio. Nel contempo, le avances, neanche tanto velate, di possibili e interessanti partners non mi attraevano.
Incredibile dictu, mi attraeva John, mi accendeva, mi intrigava, mi affascinava.
In breve, me lo sarei fatto subito e dovunque.
Lui mi guardava in un certo modo, ma non aveva mai fatto intendere che io potessi interessargli.
Ero assetata di sesso, riarsa, ma anche in quelle sempre più precarie condizioni, non volevo contentarmi della prima bibita che incontravo, non volevo una polla qualunque, ma quella determinata fonte.
Mi sedevo di fronte a lui, accavallavo le gambe, esibivo generose scollature, non usavo reggiseno, dimenticavo di indossare il perizoma, curavo al massimo l’aspetto fisico, palestra, nuoto, tennis’ Non sapevo che altro fare.
Mi era venuta in testa anche di abbordarlo senza mezzi termini, e chiedergli chiaramente di venire a letto con me.
Ancora oggi, presso alcuni popoli cosiddetti primitivi, ogni tanto qualcuno viene posseduto dall’amok, un raptus, cio&egrave un impulso improvviso, incontrollabile e spesso violento, che conduce a gesti imprevisti, in uno stato di eccitazione tale che non fa pensare alle possibili conseguenze.
Eravamo ai bordi della piscina, John ed io, e dovevo tuffarmi per fare qualche vasca.
Lui indossava slip aderentissimi, che evidenziavano la generosità della natura.
Io non sono di quelle che puntano alla dimensione, né alla quantità, sono una buongustaia, prediligo la qualità. Anche perché so bene che certa esuberanza &egrave superflua, finisce col non essere coinvolta. Insomma’ resta fuori!
Non fu, quindi, l’aspetto a scatenare in me la tempesta dei sensi, quanto la funzionalità.
Ricordi classici mi portarono alla mente Ovidio, e bastava arrangiare le parole, ‘magna virga sed apta mihi’. La verga &egrave grossa ma &egrave adatta per me!
Mi sarei tolta di dosso il costume e gli avrei abbassato lo slip.
Illico, immediatamente, sul posto.
Tornai subito in cabina, prima di entrarvi feci cenno a John di raggiungermi.
Entrai, stesi il telo a spugna sul pavimento, mi tolsi il costume, mi sdraiai.
John non mostrò sorpresa, chiuse la porta, sfilò lo slip. Si avvicinò a me, mi alzò le gambe, le divaricò.
Il suo sesso era potentemente eretto.
In silenzio, si inginocchiò, si accertò che fossi ben lubrificata, e mi penetrò, lentamente e deliziosamente, con quella specie di palo che, entrando, andava stirando ogni piega della mia vagina.
Proprio come Miller descrive nel suo Tropico.
Un meraviglioso spianamento condotto con calma e decisione, e che cominciò a farmi sobbalzare, palpitare, ansimare, gemere, sempre più forte.
Mi portai una mano alle labbra perché temevo che fuori si udisse la testimonianza del mio godimento.
Il ritmo di John era quello di un battipalo, accorto però a non sbattere troppo dove il mio grembo terminava. Sentivo il glande carezzarmi il muso di tinca.
L’eccitazione così a lungo compressa, esplose in un orgasmo che, a quanto vidi, sorprese lo stesso John. Attese che mi rilassassi. Era sempre rigido e invadente, in me. Quando comprese che stavo ricominciando a risalire l’erta del piacere, riprese a muoversi, sempre più rapidamente, e d’improvviso mi sentii invasa da un getto di lava incandescente che si spargeva soavemente in me.
Ero soddisfatta.
Quando lo sfilò provai una strana sensazione: di rammarico perché mi abbandonava, e nel contempo di sollievo perché quel grosso scovolo faceva tornare alle sue dimensioni naturali la mia beata e beante vagina.
John si alzò, si chinò su me, mi baciò a lungo sulle labbra, andò al lavandino, si sciacquò, si asciugò, indossò di nuovo lo slip.
Uscì.
Non aveva detto una parola.
Ero ancora distesa sul telo.
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Quando uscimmo dalla piscina, chiesi a John se voleva venire a casa mia.
‘Of course darling! Naturalmente, cara!’
Per lui, quindi, quanto accaduto era naturale e, di conseguenza, era ovvio che venisse da me.
Non immaginavo tale evoluzione, ma ne ero entusiasta.
Quindi, non era stata una ‘botta e via’.
Meno male.
Ero stata sfamata, certo, ma mi era stato fatto assaggiare una leccornia davvero squisita.
Mi sorpresi a sorridere mentre pensavo che non ero stata mai tanto golosa di cioccolato, dark chocolate, fondente.
Si mi aveva fatto proprio fondere.
Guidavo io, eravamo con la mia auto.
John era già stato a casa mia, ma si era sempre comportato da gentile e premuroso collaboratore professionale.
Entrammo, lasciò la sua sacca nell’ingresso.
Gli dissi che poteva accomodarsi nel tinello, nella living room, io andavo a cambiarmi. Aggiunsi che mi sarebbe piaciuto andare con lui per il lunch. Conoscevo un ristorantino molto grazioso.
John mi guardò, mi sorrise, ma invece di avviarsi al tinello, mi seguì in camera, e quando mi voltai era già nudo come un verme, e’ col suo grosso verme, un vero boa, ben svettante.
Non attese nemmeno che mi spogliassi, mi prese per mano, andò a sedersi in poltrona, mi alzò la gonna e rapidamente mi liberò del perizoma, mi sollevò come una piuma, mi voltò, mi fece sedere su lui infilandolo nel contempo nella vagina che ancora ricordava la precedente voluttuosa penetrazione.
Tenendomi per i fianchi mi alzava e abbassava.
Penetrava in me fin quando possibile. Poi fuoriusciva quasi del tutto, rientrava e il grosso glande, turgido, alesava l’entrata e seguitava a spianarne le grinze.
Evidentemente, anche John aveva dell’arretrato perché non pensavo che tale sua esuberanza fosse abituale. E se lo era, beata me!
Come in precedenza, attese che fossi sull’orlo dell’orgasmo per dimostrarmi, in perfetto e voluttuoso sincronismo, il suo godimento.
Ricordavo il titolo d’una fiaba araba: la fonte meravigliosa, e il nome della fontana presso una moschea: lo zampillo di Allah!
Rimasi seduta su lui, sempre soavemente invasa.
John mi carezzò il seno, a lungo, mi titillò tra le gambe, poi, sempre con le sue grosse mani, mi sollevò ancora, mi voltò, sì che ero a cavalcioni, e cominciò a ciucciarmi i capezzoli. Il suo lungo succhio, insistente, mi svuotava, si ripercuoteva nel mio cervello, nel mio grembo.
Senza lasciare la tetta, si dette da fare per spogliarmi del tutto, agilmente. Pose le mani sotto le mie cosce, mi alzò un po’, mi riabbassò infilando in me il suo irreclinabile arnese, e riprese il suo andirivieni che mi faceva impazzire.
Dopo che per qualche tempo ero restata appoggiata col capo sulla sua spalla, mi guardò.
‘Cosa ne dici di un lunch, Pearl?’
Era la prima volta che mi chiamava Pearl.
‘Sono piena, John’ pienissima’!’
‘Pensaci bene, c’&egrave sempre un posticino per qualcos’altro.’
Mi fece alzare. Andò nel bagno.
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John era formidabile anche nel mangiare.
Anche in quel campo era un passista, andatura sostenuta e regolare, senza strappi.
Beef steak and roast potatoes. E per finire una bella fetta di torta.
Io gli feci compagnia, presi una paillard con insalata e una stewed apple.
Ogni tanto mi guardava, con un lieve sorriso sulle labbra.
Mi disse che ero veramente splendida, una vera perla.
Mi chiese se mi piacesse la vita all’aria aperta, un po’ selvaggia, primitiva, ma tanto bella e attraente.
Aveva intravisto l’angolo verde dietro la mia villetta, il back garden, un luogo appartato, dove si poteva rinascere come Tarzan e Jane, e scavare la terra. Un vero e proprio Eden.
A lui piaceva ‘to dig in’ nel giardino. Scavare!
Non credo di aver capito male, aveva detto proprio to dig in nel giardino, e non solo to dig.
Quindi, ‘ficcare’ in giardino.
Beh, in fondo non sarebbe stato male.
Sarei stata a vedere.
Mi correggo, non solamente a vedere. Ci sarei stata!
Tornati a casa John si avvio verso quell’angolo verde, e mi condusse con sé, tenendomi per mano.
Guardò in giro.
‘E’ veramente magnifico, Pearl, proprio come lo immaginavo.’
Si avvicinò al tavolo, sedette su una sedia, si rialzò.
‘Ti piace John?’
‘Perfetto. Dobbiamo essere Adamo ed Eva, in questo Eden’ dai”
Si spogliò, mise gli abiti sulla sedia.
Guardai intorno, temevo che potessero vederci.
Il fogliame era più fitto d’una parete di cemento.
Come ipnotizzata, mi spogliai anche io.
Ero vicina al tavolo.
Mi venne accanto, con delicatezza, mi alzò la gamba, per cui dovetti poggiarmi sul tavolino, e seguitando a tenere sollevata la mia gamba mi penetrò decisamente.
Ero quasi sorpresa, ma non tanto.
In ogni caso era bellissimo anche così, e i suo movimenti erano perfetti, come sempre, e tali da farmi cominciare a mugolare, sempre di più, fin quando gli gridai che era il mio dio, il mio padrone, il padrone di Pearl, la sua perla.
John condusse a termine con perizia anche quell’incontro, e rimase a lungo in me, perché aveva compreso quanto mi piacesse.
Mi carezzava.
‘Si, honey, sei una vera perla, Pearl, e io ti curerò come conviene alle perle.
Non vorrei che tu prendessi freddo.
Ti prego, rivestiti.’
Sedetti sulla sedia, e lascio immaginare a voi come la impiastricciai, infilai le calze, le scarpe, il perizoma, e mi rivestii alla meglio.
Quando mi voltai, John aveva indossato pantaloni e giacca, calzate le scarpe e aveva il resto sul braccio.
‘Credo, cara, che ci voglia un riposino.
Il tuo magnifico letto ci attende, mia deliziosa Pearl.’
Quindi non era ancora finito.
Era bellissimo, ma la mia passerina cominciava a risentire di quelle prove. Non era abituata a quel trattamento continuato e pur piacevolissimo, quel ‘coso’ mi dilatava ai limiti della lacerazione. Per fortuna il balsamo del suo seme ne mitigava l’ardore.
Comunque, farmene ancora un’altra mi attraeva moltissimo.
La mia permanenza a Johannesburg forse sarebbe stata troppo breve, due anni passano troppo in fretta quando la vita ti offre un John del genere.
Johannesburg, città di Johan, più esattamente la città turrita di Johan, che sarebbe a dire di John.
Che bella Jo’burg, la torre di John!
Andai nella mia camera, logicamente seguita da lui che, come entrò, si liberò di nuovo dei vestiti e restò a guardarmi.
‘You deserve to be treated like the pearl you are! Meriti di essere trattata come la perla che sei.’
Mi ero spogliata quasi del tutto, ero rimasta solo con le calze e stavo sedendomi sul letto per toglierle. Tra le mie gambe seguitava ancora a colare il suo seme denso.
Mi spinse dolcemente, facendomi cadere a pancia sotto, senza darmi il tempo di sfilarmi le calze.
Mi spalancò le gambe.
Era imponente, mi sovrastava con la sua mole.
Raccolse un po’ della rugiada che gemeva dalla mia vagina e la sparse intorno al buchetto che sta nascosto tra le mie natiche.
Altro che lasciarmi il tempo di sfilarmi le calze.
Me lo stava infilando di dietro.
‘OK, darling, sei una real pearl, una vera perla, e, come esse, ti si può infilare davanti e’ di dietro!’
S’era fermato un momento nel dire ‘e” perché non era facile introdurre quella impressionante testa d’ariete nel mio forellino. Temetti che lo avrebbe squarciato, ma con movimenti cauti e precisi mi penetrò, riuscì a farmi sentire i suoi testicoli battere sui miei glutei.
Questa sì, era una vera e propria occupazione.
Non immaginavo che sarei stata capace di sopportare un ‘coso’ del genere.
John passò le sue mani sotto il mio corpo.
Finalmente parlò, mentre era intento a farmi sentire di cosa era capace.
‘Alza un po’ le chiappe, tesoro. Mia dolce Pearl.’
Il fastidio dell’invasione andava, intanto, trasformandosi in un crescendo di voluttà, grazie anche ai deliziosi titillamenti di John.
Gli doveva piacere a quel modo, perché affondava e si ritraeva sempre più in fretta, e mugolava. Si, John mugolava, pronunciava parole che non comprendevo, in una lingua sconosciuta.
Mi sorpresi che anche io stavo godendo, come una pazza, avevo avuto un prepotente orgasmo, mi ero rilassata, eccitata di nuovo, e lui seguitava a pompare, pompare, finché non sentì il mio nuovo piacere e si scaricò in me.
Mi chiesi, anche se confusamente, da dove cavolo tirava fuori tanto seme.
In fondo, non mi interessava.
Io avevo fatto un incredibile e imprevedibile pieno.
A mano a mano che lo sfilava, sentivo il mio tubo riacquistare quasi del tutto la dimensione primitiva.
Non so quanto tempo rimanemmo così.
Ma era stata una giornata spettacolare.
Capite perché non sono più ripartita da Jo’burg?
E non ci crederete, ma John &egrave sempre con me, per lui gli anni non passano mai, e neanche per me, mi dice. Io sono sempre la sua Pearl, e lui &egrave il mio instancabile mandrillo.
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