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Racconti Erotici Etero

Profumo di rosa

By 12 Novembre 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

Il cinema di pornografia gratuita era ancora aperto, finalmente aperto fino ad un orario quasi proibitivo. Eccomi qua, dunque. Eccomi qua pronto a segarmi fino allo sfinimento in un cinema sporco come tutti i cinema, puzzolente come solo le persone sanno essere.
Sta piovendo ma mi piace molto la pioggia, con quel suo odore pungente e fresco di polvere bagnata e il rumore della gomma ululante dei copertoni sull’asfalto.
Mi piace sentire il freddo dell’autunno ristagnare tra le gocce, immobilizzato e onnipresente tra le particelle infinitesimali di acqua che ne catturano l’essenza e l’energia. L’energia del freddo. Non come nelle giornate ventose. Il vento per quanto affascinante possa essere è uno spreco. Così l’acqua precipita dai cieli grigi e bianchi di impossibile freddo siderale, caricandosi di polvere e incolore.
Tutto questo sproloquiare naviga ai limiti dell’incoscienza mentre cammino tra le pozzanghere poco profonde per entrare nel cinema.
Sembra sordido. E’ la prima cosa che mi viene in mente, la prima idea che si affaccia alla finestra del pensiero subcosciente. E’ un posto sordido. Tutti gli uomini che ci sono sembrano nascondersi in loro stessi. Sono persone comuni, vestiti più o meno bene, con camicie e pullover e scarpe e sciarpe, tutti bagnati, chi calvo chi ordinatamente pettinato; il loro sguardo non guizza, i loro movimenti non sono furtivi.
Eppure le loro figure non danno la stessa ombra dei passanti, secondo me. Le loro sagome sembrano vibrare di una vergogna atavica e relegata nel movimento inconscio, sezione medium e sesso-sensitivi. Si vergognano di non vergognarsi? No. Però vibrano lo stesso.
E io sono uno di loro.
“Un biglietto per favore.”
“Che film?” mi fa il cassiere con le consonanti di Roma.
“Emmanuelle.”

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Che schifezza. Il libro è dieci volte meglio del film che ho pagato 3 euro (altro che gratuito), che tra l’altro non era altro che un soft porno dalle atmosfere esoticheggianti.
Bah, che delusione. La Arsan avrebbe denigrato il regista? Chi può dirlo, forse sarebbero stati amici.
La pioggia non è finita, e i pensieri mi si congelano nel cervello, provvederò in seguito a rimuoverli e sistemarli nello stipo del ragionamento pigro. Intanto troviamo un bar decente, ho bisogno di bere qualcosa di caldo.
Mi abbottono per bene il cappotto sopra la sciarpa allacciata e infilo le mani guantate nelle tasche, così al freddo che mi bagna le guance e il naso si contrappone il calore quasi sudato del mio torace.
Mi incammino. Tengo gli occhi bassi, osservo di sfuggita ogni luce che si riflette sullo specchio lucido dell’asfalto nero, vengo assoradato dalle macchine e dal loro strusciare umido e irritante.
Un bar. Che bello, finalmente un posto caldo e accogliente in cui scegliere se prendere un bicchiere di bianco frizzante o una cioccolata al rum.
“Ciao.”
“Buonasera.”
“Io sto al tavolo giù dietro l’angolo.”
“Non ti preoccupare adesso arriviamo.”
“Salve, che ti porto?”
“Buonasera. Ummm, una cioccolata?”
“Occhei.”

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Odore di sperma. Che libro schifoso sarebbe se leggessi un qualsiasi capitolo iniziare così. Dannato autoerotismo.
Però è vero. Sento odore di sperma. Devono essere le mie mani. No. Era solo un sogno. Sono sul mio divano e sto sonnecchiando, sono solo col mio cane e non c’è odore di corpo umano. C’è però odore di languorino.
Mi sta venendo fame.
“Hai fame, tu?”
Gruuuuuug fa il suo stomaco.
“Occhei, adesso ti do da mangiare.” dico mentre mi alzo. Sospiro e mi appoggio sulle ginocchia, sono un vecchio in un corpo giovane.
Frush. Trac. Cratch, cratch, cratch. Crucucrucucrucu. Triiic.
Buon’appetito.
Il cane scodinzola come se dovesse fare aria con la coda e si avventa sui suoi croccantini. E ci mancherebbe altro: sono le otto e mezza.
E’ ora di prepararmi qualcosa da mangiare. Che ci sarà rimasto nel frigo?
Pancetta, carote, un sedano, prosciutto cotto (che schifo, ma perchè cavolo l’ho comprato?), tanti formaggi diversi e due parmigiani iniziati, verze.
Sconsolante.
Che ci sarà rimasto in dispensa?
Fagioli cannellini in scatola di alluminio, fagioli borlotti in scatola di alluminio, ceci in vetro, ketchup e maionese chiusi, panna, besciamella, panna, succhi di frutta di vario genere e formato, birra analcolica (che schifo, ma perchè cavolo l’ho comprata?), Cesanese del Piglio e Sangiovese.
Sconfortante, ma almeno c’è il vino.
Mi verso un mezzo bicchiere di vino e prendo il telecomando. Mi siedo sul divano e accendo la tv. Non posso vedere Bob la Spugna, devo cucinarmi la cena.
Spengo e mi rialzo, bevo il vino d’un fiato e me ne verso un altro bicchiere.
Prendo i fagioli e il tonno e li scolo, taglio a pezzi un paio di pomodori e li mescolo insieme. Contorno fatto.
Metto su l’acqua a bollire, tiro fuori una busta di spaghetti grossi e una padella antiaderente. Dio ringrazi i prodotti di pesce congelato. Mais e semi di soia in soffritto di gamberetti. Quando calo la pasta nella pentola controllo che sia tutto in ordine e poi mi tolgo il grembiule verde pisello.
Coso! Si, tu. Resta fermo.
Il cane si mette a sedere e mi guarda uscire.

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Driiiin
Alla fine sono davvero venuto a vivere sotto casa sua. Sono proprio un fesso.
Cazzo, oggi c’era il film di Inuyasha!
“Ciao!”
“Ciao.”
“Tutto a posto?”
“Si tutto a posto. Come stai?”
“Bene, stavo per mettere a bollire la pasta.”
“Ah, stavi per mangiare, ci sono i tuoi amici?”
“No, si trovano a Viterbo. Ti serve qualcosa?”
“Hai un sugo e un secondo per quella pasta?”
“Perchè?”
“Perchè per sbaglio stavo cucinando per due e così, che ne so, magari ti andava di mangiare da me, dato che stasera sei sola.”
Mi guarda, ma io non ho la concentrazione sufficiente a capire cosa sta pensando.
“Che stai cucinando?”
“Una vera delizia, Spaghetti soffritti con gamberetti e semi di soia, come secondo scampi al limone e insalata di tonno come contorno, il tutto innaffiato con un Muller Turgau, anche se non so se sia il più adatto. Ti va?”
“Stocazzo, io stavo per farmi due spaghetti aglio e olio! Mi va si!”
“Bene allora. Entriamo a spegnere la pasta.”
Entriamo in casa sua, questo bugigattolo pieno di libri dal pavimento al soffitto, disordinato ma non troppo, da studente, e arrivati in cucina spegne il fornello.
“Andiamo, va.”
“Aspetta! Ti piacciono i dolci?”
“No, veramente no.”
“Chissenefrega, io mi porto una torta di noci che mi ha dato mia madre oggi pomeriggio.”
“Va bene. Andiamo, però, altrimenti mi si scuoce la pasta.”
Usciamo dalla casa e lei si chiude la porta alle spalle con doppia mandata.
Scendiamo le scale fino al piano di sotto, poi mentre sto aprendo la serratura di casa mia le chiedo
“Hai presente Inuyasha?”
“Stasera c’è il film. Lo vediamo?”
Sorrido. “Se proprio ti va…”

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Siamo seduti sul divano a vedere questo lungometraggio giapponese sul demone cane e sulla giovane ragazza di tokio. Fuori sta piovendo, e le grandi finestre della mia sala sono percorse dalle gocce rumorose sul vetro. L’aria è calda per via del fuoco del gas, e ho lasciato il riscaldamento alzato. Una coperta ci copre le gambe e tutte le luci sono spente.
Stiamo guardando uin film per adolescenti con due bicchieri di Sangiovese in mano e un cane che dorme sulle gambe di lei. Scemo di un cane.
Lo sposto e lo metto nella cuccia. Lui si sveglia e mi guarda con i suoi occhi neri e dorati da cane bastonato.
“Non frignare, scemo puzzoso. Devi dormire nel tuo letto.”
Me ne vado senza controllare. Conoscendolo si sta già riaddormentando.
L’altro cane, quello del cartone animato, sta agitando la sua spropostitata spada per menare un fendente carico di energia demoniaca, pronto a distruggere l’odioso fratellastro, il potentissimo demone cane Sesshòmaru.
“Ce lo vediamo in giapponese?”
La guardo un secondo pensando a come quel dolcevita nero le stia una meraviglia, meno male che le ho “accidentalmente” versato del vino rosso sulla maglietta.
“Perchè, parli il giapponese?”
“No, però so il film a memoria e voglio sentire i nomi in nippos, così li prendo per il culo.”
“Più che giusto. Ma si, prendiamo per il culo la gente che parla la propria lingua.”
“Si, dai.”
Seleziono il menù del canale col telecomando e vedo se c’è l’opzione Lingua.
“Mi dispiace, non si può.”
“Oh. Vabbè, peccato.”
Poso il telecomando e ricomincio a vedere il film.
“Vuoi altro vino?”
“Si, tanto.”
Gli riempio il bicchiere e mi alzo per aprire un’altra bottiglia.
“Non esagerare, domani dovresti andare a lezione.”
“Si fotta la lezione e il suo altezzoso docente. L’altro giorno mi ha chiesto alcuni piccoli “Favori” in cambio del trenta. Testa di cazzo impotente. So più io sulla letteratura anglosassone che lui sugli spermatozoi!”
Non capisco in alcun modo il nesso tra le due cose, ma il tono e lo sguardo che ha mentre parla sono più che eloquenti.
“Capisco. E per questa stupidaggine non vorresti più studiare?”
“Ma no, che dici. Non voglio incontrarlo domani. Studierò per conto mio, questa settimana, e poi andrò a lezione.”
“Non credo ti convenga.”
“Faccio come mi pare. Intanto vorrei proprio sbronzarmi. Mi fai compagnia?” E svuota il bicchiere tutto d’un fiato.
Sto in silenzio per qualche secondo, aspetto che finisca di bere poi la fisso. Lei mi guarda negli occhi senza cercare di capire cosa sto pensando.
Le verso da bere.
“Non ho abbastanza vino.”
“Qualche liquore in questa reggia ce l’avrai, vivi come un dannatissimo nababbo.”
“Vero, ma non so se sei all’altezza del mio famoso cocktail Munich Night…”
“Ullalà, c’est tres chik! Che accidenti è, adesso il Munich Night?”
“E’ due parti di wiskhey con una di gin, metti tutto nello shaker e quando lo versi aggiungi seltz, ghiaccio e due foglie di menta.”
“Sembra disgustoso.”
“Come una notte Monaco.”
“Pensavo che il Principato di Monaco fosse un luogo di mondo.”
“Forse, ma di certo Monaco di Baviera è piuttosto noiosa di notte, se non sei ubriaco.”
Inizia a ridere di gusto mostrando i suoi denti bianchi, in quel momento noto come nella luce azzurra della televisione sembriamo sospesi in uno spazio esterno alla realtà; non siamo più spazializzati. Psichedelico.
Mi alzo.
D’accordo. Se ti vuoi ubriacare almeno facciamolo come si deve.”
Apro il mobile mostrando il mio armamentario. Liquori delle più varie ed eterogenee provenienze, tra cui una bottiglia di vetro incolore piena di un liquido dorato con un’etichetta di carta grigia e verde chiaro. Absentie.
Lei ride.
“Preferivo una canna.”
“Spiacente non ne abbiamo.”
“Allora per stasera faremo a meno.”
“Ho uno scotch invecchiato dodici anni che ho comprato una volta che camminavo per Glasgow.”
“Prima della Vodka.”
“D’accordo, Karienina, se proprio insisti.”
Apro la vodka e camminando verso la sua snella figura seminascosta dalla penombra colorata bevo lunghe sorsaste.
“Alcolizzato.”
“Mbriacona.”
Mi siedo, beve a lungo, si mette a cavalcioni su di me e mi bacia con forza.

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In certi momenti sensazione ed emozione finisco per coincidere, i confini tra raziocinio e tempesta diventano iperboli che asintotiche terminano in un assurdo sprazzo vitale. Panismo D’annunziano.
Quanti paroloni per dire una sola cosa: passione.
Unilaterale, carnale passione, attrazione fisica, sangue che circola, respiri affannati, pene eretto, clitoride eccitato, sudore, pelle. Tatto tatto tatto tatto tatto.
Le mani cercano il corpo inesplorato dell’altro e le lingue si accarezzano, si abbracciano. I corpi si stringono, voglio essere lei e lei vuole essere me. Ogni capillare si dilata, le guance arrossiscono, le piccole labbra si inturgidiscono e un calore rovente al punto giusto si irradia dal suo pube.
I vestiti sono un optional, un ostacolo passeggero e trascurabile. Siamo già mezzi nudi quando iniziamo a renderci conto di quello che stiamo facendo.
Ci piace un sacco.
Alcool che scioglie ogni freno inibitorio come fosse caramello, gocce di alcool nella quantità precisa per darci calore, sfrenatezza, e mantenerci tuttavia presenti, coordinati.
Siamo nudi sul divano, la tv è ancora accesa, il cane sta dormendo e lei è assolutamente erotica. La sua schiena nuda, di spalle allo schermo, viene disegnata nel buio dal riflesso delle immagini. E’ ancora sopra di me, il suo pube è una fornace umida, il mio pene premuto dal suo peso contro il mio bacino, sotto la sua fessa, sembra sciogliersi come un pezzo di ghiaccio sotto una doccia calda. Mi bacia, mi morde sul collo, le accarezza la schiena e i fianchi, le strizzo le natiche. Che culo sodo, che tette perfette. Mentre muove il bacino avanti e indietro sopra il mio pene, anche io involontariamente mimo il coito, le succhio il capezzolo.
Siamo un moto sessuale spontaneo, sesso che si autoesplicita.
Le succhio un capezzolo e le strizzo l’altro, e geme.
E’ eccitatissima, è talmente bagnata che ora lo sono anch’io. Non ci penso due volte prima di buttarla lunga sul divano, punto il glande alla sua vagina rorida (per essere aulicheggianti), assolutamente grondante (per essere precisi).

E inizia un amplesso furibondo ma bellissimo.
Non entro nel vero senso della parola, vengo risucchiato.
Subito la sua vagina si contrae intorno alla mia asta, me la strizza dalla base verso la punta, e mentre il suo bacino viene incontro alle mie spinte sento la pelle che batte.
Spingo e spingo e spingo e spingo e spingo, ogni mio movimento è anche un suo movimento, gambe che mi stringono, seni che ballano. Il suo respiro è pensante, ad ogni colpo si spezza, e la sua espressione mi dà piacere sopra ogni altra cosa. Le labbra socchiuse, le froge dilatate, gli occhi socchiusi. Si solleva dal divano avvinghiandosi a me, che le sto sopra, e mi bacia, mi succhia, mentre io continuo a entrare e uscire, costante e rapito.
La figa le bolle, mi strizza, mi stringe, si torce.
Sudiamo, ansimiamo, gemiamo. Il piacere che il suo corpo mi trasmette è 5 sensi, è tattoolfattogustovistaudito. E’ totale. E questo suo profumo di rose, intenso.
Godo tantissimo, sto per venire. Non so quanto tempo sia passato, non importa. Il tempo è una cazzata, in certi momenti. Anche lei sta per venire, non lo dice ma lo capisco. Mi lecco le dita e le massaggio il clitoride, dure e eretto fuori dal suo piccolo prepuzio, e mentre pompo comprimo il pube.
I suoi gemiti diventano quasi grida, sta venendo, le sue gambe si incrociano dietro il mio bacino, mi stringono a lei.
“Vienimidentrovienimidentrovienimidentrovienimidentro…”
Non me ne frega un cazzo se siamo senza preservativo, non me ne frega un cazzo di niente. Ora sono sesso, sono TNT, sono dinamitenitroglicerinafungoatomicodelcazzo, godo così tanto che potrei morire e non accorgermene.

Eccomi, sento lo sperma alla base dell’asta. Non me ne preoccupo, lo aspetto, assaporo questa sensazione mentre lei si trattiene a stento dal venire, la bacio su quelle labbra rosse e turgide e lei mi bacia, grata e estatica.
Sto impazzendo.
Una spinta ultima, violenta, e mi pianto saldamente dentro lei. Il mio pisello si ingrossa parossisticamente e vengo. Vengo come non sono mai venuto, cerco di non muovermi ma non ci riesco, non so neanche se esisto ancora.
Viene anche lei, quasi nello stesso momento, e grida, mi graffia, mi stringe freneticamente.
Risplende al buio, ansimante.
E’ bellissima.
Sono svaporato in un fiume di piacere, sommerso da me stesso.
Sono pura sensazione.

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“Dormito bene?”
La prima cosa che sento è la sua voce. Anzi no. La prima cosa che sento è un rumore sordo. E’ un battito lento e uno scrosciare soppresso, profondo, cupo. Il primo odore che sento è quello di pelle umana e sudore. La prima cosa che tocco è il cuscino.
Biascico.
“No. Ho mal di testa.”
“Ci credo, ti sei preso una ciucca come ne ho viste poche.”
Apro gli occhi e vedo la finestra della mia camera da letto che da su un cielo bianco lattiginoso. D’inverno mi sveglio spesso con la sensazione che il mondo non esista oltre la mia finestra. Mi giro e nella penombra barcollante del mio sguardo arrivano i suoi occhi azzurri e le sue ciocche nerissime. Sorride. E’ contenta e divertita. E’ nuda e si appoggia a me. Sento la sua pelle, più calda della mia, toccarmi su tutto il lato sinistro del corpo: il suo seno morbido, il suo gomito spigoloso sulla pancia, la sua gamba sinistra sulle mie.
Mi alzo sui gomiti a guardarla per un secondo, poi sbuffo e mi abbatto sul letto sfatto. Lei ride e mi bacia gli occhi.
“Come ti senti?”
“Benissimo. Tu?”
“Benone. Era da un po’ che ristagnavo nell’inadempienza.”
“Nel senso che…?”
“Nel senso che non scopavo da non so quanto tempo.”
“Meglio così, allora. Io mi sono divertita molto. E tu?”
“Io più che divertirmi sono impazzito.”
“Si, l’ho notato.”
Ridiamo e lei si mette cavalcioni su di me. Mi bacia appassionatamente. Sento il suo odore, piacevole nonostante la notte movimentata.
Questa ragazza è meravigliosa. Troppo per essere reale. Vedrai che alla fine si tratta di un parto della mia immaginazione. Ma che sto dicendo? Devo farmi un caffè e andare al bagno.
Mi alzo nudo, la casa è abbastanza calda da permetterlo, e cammino barcollando dal sonno verso il bagno.
Mi appoggio al lavandino e mi guardo nello specchio come tutte le mattine. Che aria sconfitta. Distrutta. Sono completamente malmesso. Il mal di testa sembra aumentare quando mi guardo gli occhi. La barba andrebbe rasata. Ma la bocca sorride. Strano, mi sento da schifo. Apro l’armadietto, prendo spazzolino e dentifricio e mi lavo i denti, faccio una pisciata da cavallo e mi metto sotto la doccia. Dopo qualche minuto la sento entrare. Vedo il suo profilo attraverso il vetro smerigliato del vano doccia. Sento l’acqua del lavandino e del bidet. Si lava e poi esce.
Finisco di lavarmi anch’io e indosso un accappatoio. Passando davanti alla finestra nella mia stanza noto che la nebbia si sta diradando e si riescono a vedere gli alberi oltre la strada carichi di pioggia e odore. Il cielo è niveo.
Ancora, tutto mi sussurra quieto.
Le lenzuola color panna sfatte sul letto, i pini freddi e odorosi fuori dalla mia finestra, il cielo tanto bianco da sembrare immobile: tutto mi sussurra che questo non è reale.
Ma lo è, non può essere un sogno.
“Porco cazzo, cane! A cuccia!”
No, decisamente non è un sogno.
Vado in cucina e la trovo vestita con i vestiti della sera passata intenta a cuocere qualcosa. L’odore di pancetta è troppo forte e il cane sta mangiando qualcosa, ma io di certo non gli ho ancora dato niente.
“Questo stupido cane mi ha assalito mentre cucinavo.”
“Sbagliato. Ti ha assalito mentre attentavi all’equilibrio di questa casa. Per la barba di Merlino, cosa pensavi di fare con la pancetta affumicata che tengo per la carbonara?”
“La colazione, che altro.”
Che stupida. Lei non sa cucinare. Glielo dico.
“Ma certo che so cucinare!”
“Non che non sai cucinare.” dico avvicinandomi a lei e abbracciandola da dietro, la padella ancora in mano. “Altrimenti il cane non ti avrebbe fermato. E’ un buongustaio, lui.”
“Stronzo.”
“Ninfa.”
Chiude gli occhi e si appoggia a me; senza girarsi mi accarezza la testa umida. Mi piace da impazzire.
Appoggio le mie mani sulle sue. Fammi cucinare, prima di mandare a fuoco questa baracca.
Non so come scivola dal mio abbraccio e apre il frigorifero mentre io prendo le uova e le spezie per fare le omelette.
“E comunque Merlino non portava la barba.”
“Come? dico mentre rigiro le omelette nella padella antiaderente.”
Lei si riempie un boccale da un litro con del succo di frutta alla pesca, e inizia a berlo.
“Merlino, o Myrrdin, o Emrys, o che dir si voglia, se mai è esistito non è affatto sicuro che portasse la barba lunga. Mi piace immaginarlo come viene descritto in “Il romanzo di Re Artù” di Stephen Lowhead, in cui si parla di un Merlino sbarbato e virile anche nella senilità.”
“Pensavo che Merlino fosse una leggenda.”
Lei continua a bere un Litro di Succo di frutta alla pesca sorso dopo sorso.
“La questione è controversa. Nei secoli la figura del Merlino druido e incantatore, consigliere del mitico Arthur di Britannia e nemico di Morrigan, o Morgian, si è accavallata con quella di un Merlino realmente esistito, ma del tutto avulso dalle vicende del ciclo arturiano.”
“E allora perchè mai dici che era sbarbato, non puoi saperlo.”
Metto in tavola le omelette. Lei prende due piatti e due forchette. Facciamo colazione.
“Lo dico perchè nel tempo si è costruita un’immagine di Merlino attraverso i racconti di centinaia di romanzieri, storici e filologi. E per dirla tutta, preferisco un Merlino forte, giovanile e dai capelli neri piuttosto che un bislacco vecchio cisposo come quello della Disney.”
Detto questo posa rumorosamente il boccale da un litro ormai vuoto sul tavolo.
“Più che giusto.”

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Non mi piace girovagare per questa roma senza tempo e senza età, antica e squallida, nuova e deludente.
Ogni giorno le antiche arcate di mattoni rossi decadono alle intemperie crudeli che ne avvinghiano i ricordi.
Persone, esseri umani pensanti e sensibili, camminarono, respirarono e morirono accanto a quelle lastre di duro marmo nero. E non ricordi, o astrusi nomi latini, ma uomini veri e senzienti. Cicerone, l’avvocato più sanguigno e integerrimo che il mondo abbia mai visto, non è che una lettura su un libro di scuola.
Che tristezza. Che insopprimibile, terribile voglia di eterno.Cos’è Cristo in confronto di una Nana Bianca? Cosa Buddha rispetto al nulla siderale di una singolarità, un punto dello spazio dalla densità tendente ad infinito, dove neanche la luce o il tempo hanno significato?
Questo è ciò che ogni povero fesso pensa nella sensibile irruenza della noia. Ma tutto questo non ha senso ora. Ora sto ascoltando una lezione sul Tolkien padre e sull’immenso lavoro da lui svolto.

Cambio location.

Termini.
Un’umanità che transea, scivola frettolosa o apatica, ora indaffarata ora contemplativa, ora spenta ora febbrile.
Voglio sciogliermi nel flusso umano, voglio disperdermi nella fiumana vitale, voglio essere pulviscolo, osservatore parziale e disattento di una vita che continua a scivolarmi via davanti agli occhi.
Un barbone, una mosca, un custode, una guardia, un giornalista disoccupato, una fontana.
Voglio essere la telecamera di sorveglianza pigra e fissa sull’inquadratura di questi passi, volti inesistenti e passeggeri come comparse anonime del mio film.
Voglio la pazienza di guardarle affrettarsi verso i treni tutto il giorno, voglio la resistenza di stare fermo ore a deviare i loro sguardi vergognosi.
Si vergognano del mio sguardo. Chissà perché.

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Sono stanco. Sono molto stanco.
Ho corso per un’ora e mezza facendo 4 volte il giro di questo dannato boschetto, col cane ansimante che arrancava nella neve affianco a me. Sono sudato nonostante il freddo, e sotto la tuta di spesso pile il calore del mio corpo è insopportabile, come se avessi una stufa nei polmoni e carta vetrata tra le cosce. Il fiato si condensa in rapide nuvolette di vapore bianco quanto la neve che ci circonda. E’ straordinario come sia riuscito a trovare quella casa assolutamente perfetta. Lontano. Lontano da qualunque cosa si comporti come un motore, lontano da qualsiasi persona ch faccia rumore come un cittadino. Sono al sicuro. E se anche qualche ladrone balordo dovesse infilare le sue luride scarpe da ginnastica nella mia casa avrei la mia cara doppietta da caccia. Ben oliata e lucida, se ne sta satolla di polvere da sparo e pallettoni d’acciaio sopra il camino, ovviando così sia la funzione di raffinato oggetto ornamentale (raffinato fino a che punto, poi?) e pratica arma da autodifesa. Detesto le pistole: nella stessa idea della pistola è intesa la violenza verso l’essere umano, mentre un fucile da caccia resta un fucile da caccia. Inoltre, vogliamo mettere l’impressione paralizzante di vedersi puntare in faccia un grosso e pesante fucile a doppia canna? Una fosca e trista beretta non reggerà mai il confronto.
Vengo distratto dal rumore gocciolante e sibiliante del cane che piscia allegramente nella neve vicino ad un abete. Il rumore della neve schiacciata dai nostri passi è una sinfonia di scivolosi scrocchii.
“Hey, coso. Andiamo a casa.”
Il cane drizza le orecchie e segue i miei passi, diretti verso le rosse mura della amata dimora.
Arrivati davanti all’uscio di casa faccio attenzione pulirmi accuratamente le scarpe dal fango. Il cane ansima affianco a me con la coda che scodinzola e lo sguardo sorridente dell’animale incosapevole.
“Coso. Pulisciti.”
Comincia ad annusare per terra fino al soffice tappetino verde e trovatolo si pulisce le zampe anteriori e posteriori con gli stessi gesti che usa per scavare.
“Bravissimo, bello.”
Entriamo in casa. Il cane trotta allegro vicino al fuoco per accoccolarcisi vicino. Mi dimentico di lui.
La casa è inondata della luce tremante del fuoco e del caldo chiarore delle lampade, ed una meravigliosa e soffice musica celtica riverbera tra la sala e la cucina insieme al rumore tenue ma costante di una piccola fontana. Profumo di lavanda.
Quella ragazza sta modificando sempre più casa mia secondo il suo gusto ogni volta che vi entra. Vuoi per un regalo, vuoi per un favore, vuoi perchè dimentica un oggetto e invece di riprenderselo semplicemente inizia ad usarlo a casa mia. Può usare tutte le scuse che vuole ma a me appare lampante che sta seguendo un piano estremamente metodico e studiato a tavolino per prendere possesso della mia dimora fontanella dopo pietra di quarzo dopo cd rilassante. Ma a rigor del vero bisogna ammettere che la sua non è affatto un invasione. E’ più una sottile variazione dei toni di fondo: la casa e il suo arredamento sono rimasti quasi completamente invariati, ma ogni tanto si scorge qualche piccolo oggetto che porta la sua firma. E devo dire che mi piace l’atmosfera pulita che c’è quando accende quella sua fontanella.
Se c’è la musica non sta studiando, perchè ha bisogno di silenzio per concentrarsi e al massimo l’unica voce che sopporta in quei momenti è la propria.
Cammino lungo il corridoio di parquet che unisce e separa i due ambienti della sala da pranzo e del soggiorno fino alla camera da letto. Apro la porta ma non è in camera. Allora vado in bagno e senza bussare apro lentamente la porta. E’ nella grande vasca da bagno, immersa in una soffice schiuma, perfettamente immobile e con gli occhi chiusi. Ha un’aria serena. Resto ad osservarla appoggiato allo stipite della porta. Resto in assoluto silenzio per qualche minuto, poi richiudo la porta e faccio un po’ di rumore in corridoio. Rientro in bagno e lei mi aspetta con gli occhi aperti e un sorriso di divertimento sulle labbra. Comincio a spogliarmi e a lavarmi nel lavandino dal sudore accumulato durante la corsa.
“Bentornato. Com’era il gelo oggi?”
“Più pungente del solito, grazie. E tu? Che ci fai nella mia vasca?”
“Mi sembra abbastanza ovvio: ozio. Non ho mai visto una vasca così grande.”
“E’ per due persone.”
“Allora vieni anche tu. Ti devi giusto lavare, no?”
“No. Preferisco farmi una doccia rapida e poi mettermi a cucinare.”
“Ah, e cosa ci riserva oggi lo chef?”
“Un arrosto brasato come portata principale e riso al curry come contorno.”
“Mmm… mi ecciti quando parli di cucina.”
Mi avvicino e le bacio le labbra umide e calde.
“Perchè pensi sempre e solo a mangiare.”
“Sarà perchè devo mangiare per due.”
“Non dire così, che mi spaventi!” inorridisco. Siamo conviventi, ma non sono pronto per una cosa del genere!
“Ha-ha-ha! Sei così carino quanto ti spaventi!”
Mi afferra e mi fa cadere goffamente nella vasca. Ho ancora i pantaloni.
Appena riesco a togliermi l’acqua dal naso faccio per gridarle qualche cretinata ma mi trattengo.
Quando ride è troppo bella.

Che buon profumo di rose.

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