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Racconti Erotici Etero

Scrivi di me

By 7 Luglio 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

Quella di mio padre nel campo dei profumi fu una lunga carriera internazionale. Anche se ufficialmente andò in pensione a sessantacinque anni, continuò a offrire la propria consulenza a diverse aziende, sia americane sia francesi, con le quali aveva lavorato nel corso della vita. Rimase in attività fino all’età di settantaquattro anni. I biochimici più giovani di lui restavano spesso colpiti nello scoprire le sue vaste conoscenze in questo campo.
Sebbene fosse uno scienziato in gamba, mio padre non divenne mai un alto dirigente. Con ogni probabilità i suoi capi percepivano quello che io stesso, fin da piccolo, avevo scoperto sul suo conto: papà non era un uomo di squadra, ma un solitario. E sebbene guadagnasse parecchio e ci abbia sempre fatto vivere nell’agiatezza, non era un tipo da sperperare il denaro per se stesso o che consumasse molto.
«Nel mondo dei profumi, non è ancora tramontata la tendenza a utilizzare ingredienti naturali», era solito ripetermi. «Aggiungendo troppe sostanze artificiali si finisce per ottenere profumi mediocri per olfatti mediocri, prodotti paragonabili alle piante di plastica».
Con papà non sapevi mai bene come comportarti e in sua presenza si aveva sempre un po’ di soggezione. A guardarlo di fronte, l’arco armonioso delle sopracciglia e i vividi occhi castani davano alla sua fisionomia un calore che affascinava e al tempo stesso invitava alla cautela, come il bagliore di un fuoco in agguato sotto la cenere, ancora abbastanza ardente da riaccendersi di colpo e divampare con pericolosa energia. I suoi lineamenti espressivi rasentavano l’irrequietezza. I capelli erano sempre arruffati, come se non gli fosse mai venuto in mente di pettinarli.
Le fragranze create da mio padre combinavano in sé freschezza e calore, eleganza e sensualità. Impossibile evitare di rimanerne coinvolti. Esercitavano il loro effetto a un profondo livello di sublimazione, là dove la sicurezza e il rischio si intrecciano indissolubilmente.
Per papà il profumo era soprattutto un’ ammissione di transitorietà. La fragranza è vincolata al tempo, e col tempo svanisce. Anziché tentare di negare o di combattere questo dato di fatto, mio padre trovò il modo di sfruttarne le potenzialità. Orchestrava la durata delle proprie creazioni trasformandole in sublimi partiture musicali. Dotate di una magica mobilità, venivano registrate dalla mente come sogni.
Mi insegnò le basi della fabbricazione dei profumi quando ero ancora molto giovane: imparai abbastanza per rendermi conto a grandi linee di ciò che faceva nel suo laboratorio e per apprezzare le analogie tra i suoi sforzi e quelli di un pittore o di un compositore. Lavorava con una tavolozza di notevole ricchezza, senza disprezzare neppure gli abbinamenti più comuni, quali rosa e gelsomino, o giglio e narciso. Le armonie dei suoi profumi erano complesse, e la gamma straordinaria delle composizioni suscitava invidia tra i suoi colleghi. Compresi gradualmente che le note delle fragranze di papà sollecitavano l’odorato nello stesso modo in cui un arpeggio sollecita l’udito. Erano sequenze di sensazioni olfattive, sempre rapide e lievi, in perpetuo movimento.
Una volta gli domandai per quale motivo un profumo sembra emanare aromi diversi in momenti diversi anche quando è la stessa persona a usarlo. Lui mi rispose elogiando la finezza del mio olfatto: non erano in molti a osservare ciò che avevo notato. Apprezzai quelle parole di lode soprattutto perché mi giunsero inaspettate. E poi mio padre non era un tipo che si prodigava in complimenti. Prese così a descrivermi le complesse interazioni dei fissativi (gli agenti chimici aggiunti alle fragranze per farle “aderire” alla pelle) con le secrezioni cutanee e la temperatura corporea in continuo mutamento di chi si applica l’essenza: questi ultimi due fattori impedivano a un profumo di mantenere il medesimo bouquet in occasioni differenti.
È come per una canzone, concluse. O uno spettacolo. A ogni replica ci dà qualcosa di nuovo.
Mio padre era un maestro nell’estrarre le essenze del bosco da felci, muschi, licheni, cortecce e resine. Imbrigliava i loro aromi umbratili e misteriosi con la dolcezza del giacinto e della violetta, o con l’energia speziata del sandalo e del patchouli, creando misture in apparenza voluttuose e serene, ma segretamente inquiete, caratterizzate dal continuo fluire di una velata sensualità. Utilizzava inoltre le essenze della frutta con vera autorevolezza, aggiungendone le vivaci note di testa alle fragranze costruite su una base di fiori o di erbe e corroborate da un fondo calmante di licheni e muschio quercino. I profumi fruttati di papà riuscivano a evocare ciò che pochi altri dello stesso tipo sono in grado di creare: un’inconfondibile carica erotica, all’inizio velata di innocenza, ma subito dopo enigmatica, subdola, inquietante.
E con le risorse orientali – aromi di una sontuosa opulenza, quali l’ambra e il vetiver – seppe creare armonie provocanti senza mai sconfinare nella volgarità. Fragranze simili a carezze prolungate, che si imprimevano nella memoria e nel medesimo tempo la ingannavano, perché non potevano mai ripetersi identiche a se stesse. Immagino i profumi di mio padre come formule segrete che ogni donna era chiamata a decifrare autonomamente.

Ho una mia teoria sulle fragranze e i loro effetti. Idee personali che ho maturato a partire dalla vicinanza con le donne che ho amato e con le quali ho avuto delle storie importanti. Penso che i profumi disturbino il riconoscimento di sé, e disorientino più a fondo di altri artifici quali mettersi un paio di lenti a contatto colorate, per esempio, o indossare i vestiti di un altro. Di colpo, quando ci profumiamo, ci ritroviamo a coesistere con una persona identica a noi quanto ad aspetto, voce, sapore, sensazioni tattili, ma il cui odore è diverso. E questo ci autorizza a essere diversi anche se non necessariamente in misura preoccupante o pericolosa, il processo è comunque innescato. Senza ricorrere a una delle tante fragranze in commercio, ogni donna ha ad esempio un suo profumo, che è naturale e la rende diversa e speciale da ogni altra. E un uomo, standole vicino, può arrivare tranquillamente ad avvertirlo, fino a riconoscerla a occhi chiusi.
Mio padre amava dar vita a misture capaci di trasformare la personalità. Le sue creazioni gli permettevano di orchestrare nel teatro del desiderio un gioco di possibilità senza fine. E poi c’era l’altro teatro, quello della morte. Come ben sa chiunque lavori nel campo dei servizi funebri, i profumi sono efficacissimi non soltanto nell’esaltare le avventure sentimentali, ma anche nel mascherare gli odori della decomposizione. Soprattutto se contengono le essenze dei fiori bianchi: orchidee, gigli, narcisi e gardenie.
La maggior parte della gente associa la morte delle persone amate alla presenza di mazzi di fiori bianchi. Con la loro bellezza serena e rassicurante, tali composizioni floreali figurano spesso sulle bare e nelle processioni funerarie. Mio padre, peraltro, rifiutò per sé l’uso del profumo in questa circostanza. Volle che il suo lungo e intimo rapporto con le essenze finisse insieme a lui. Il giorno in cui morì, sotto il suo cuscino mio fratello e io trovammo un biglietto, vergato con una calligrafia incerta e sottile, ma leggibile: «Cremazione, e niente fiori, per favore».

Dopo la morte di mio padre, chiusi per qualche tempo l’officina qua in Italia e mi recai negli Stati Uniti. Avevo trentun anni e, nonostante in quel momento fossi single, non potevo che ritenermi soddisfatto dei traguardi raggiunti fino a quel momento. Il lavoro andava alla grande, tuttavia sentivo il bisogno di cambiare aria e di dedicarmi per un po’ a un progetto nuovo, che mi facesse uscire dalla solita routine. Avevo soprattutto bisogno di non pensare alla morte di papà, che mi aveva lasciato un grande vuoto dentro.
Quel periodo, però, non fu solo segnato dall’uscita di mio padre dalla mia vita, ma anche dall’ingresso di una persona nuova.
Quando vidi Ellen per la prima volta ero alla Chicago Public Library e consultavo, già da giorni, dei volumi relativi a motori di motociclette Harley. Faceva freddo quando ci siamo conosciuti. Freddo come quasi sempre in questa città. Si sedette di fronte a me nella grande sala di lettura, probabilmente per caso, perché la maggior parte dei posti era occupata. Si era portata un piccolo cuscino di gommapiuma. Davanti a sé, sul tavolo, appoggiò un blocco, alcuni libri, due o tre matite, una gomma e una calcolatrice. Quando alzai lo sguardo dal mio lavoro incontrai il suo. Abbassò gli occhi, prese il primo volume della pila e cominciò a leggere. Tentavo di decifrare i titoli dei libri che aveva portato. Parve notarlo e tirò verso di sé la pila facendola ruotare leggermente.
A quel tempo lavoravo a un altro libro sulle Harley Davidson ed ero in costante contatto con l’editore americano con il quale avevo già più volte collaborato.
Da quando Ellen si era seduta di fronte a me non riuscivo più a concentrarmi. La sua pelle profumava di una delicata essenza di tè verde. Non era un tipo appariscente: snella, non molto alta, i folti capelli castani fino alle spalle, il volto pallido e senza trucco. Solo il suo sguardo era fuori dell’ordinario, come se potesse parlare con gli occhi.
Non posso affermare di essermi innamorato di lei sin da allora, ma certo risvegliava il mio interesse, m’intrigava. I miei occhi continuavano a cercarla, ne ero imbarazzato, ma non potevo farne a meno. Lei non reagiva, non alzava mai gli occhi, eppure ero certo che si fosse accorta dei miei sguardi.
Finalmente si alzò e uscì. Lasciò le sue cose sul tavolo, prendendo con sé solo la calcolatrice. La seguii senza sapere bene il perché. Quando raggiunsi l’ingresso lei non c’era più… Lasciai l’edificio e mi sedetti fuori sulla grande scalinata a fumare una sigaretta. Sebbene non facesse freddo, rabbrividii per via delle ore trascorse seduto nella biblioteca surriscaldata. Erano le quattro del pomeriggio e sui marciapiedi i primi impiegati di ritorno a casa si confondevano con i turisti e i passanti in giro a far compere.
Avvertivo già il vuoto della sera che mi aspettava. Non conoscevo praticamente nessuno in città. Proprio nessuno, per essere precisi. Un paio di volte mi ero infatuato di un volto, ma avevo imparato a evitare questo tipo di sentimenti prima che si trasformassero in una minaccia. Avevo alcune relazioni fallite alle spalle e, per il momento, ero soddisfatto della mia solitudine, pur senza averla ancora veramente scelta. Sapevo, tuttavia, che non sarei più riuscito a lavorare in pace con quella donna sconosciuta seduta di fronte a me, perciò decisi di andare a casa.
Spensi la sigaretta e stavo per alzarmi quando la ragazza venne a sedersi sulla scala di fianco a me, a nemmeno un metro di distanza, con in mano un bicchiere di carta pieno di caffè. Camminando ne aveva versato un po’ e appoggiò il bicchiere sullo scalino, asciugandosi con cura le dita con un fazzoletto di carta tutto stropicciato. Prese quindi un pacchetto di sigarette dallo zainetto che portava con sé e cominciò a cercare dei fiammiferi o un accendino. Le chiesi se voleva accendere. Si voltò verso di me, come stupita, ma nei suoi occhi non lessi alcuna sorpresa, vi scorsi invece qualcosa che non compresi.
«Sì, grazie», disse.
Le accesi la sigaretta e ne accesi una seconda per me; fumammo uno accanto all’altra senza parlare, ma osservandoci. A un certo punto le rivolsi una domanda qualunque e iniziammo a discorrere della biblioteca, della città, del tempo. Solo quando ci alzammo le chiesi il suo nome. Mi disse di chiamarsi Ellen.
Tornammo nella sala di lettura. Quella breve conversazione aveva sciolto la mia tensione ed ero di nuovo in grado di lavorare senza spiarla continuamente. Quando, tuttavia, mi capitava di farlo, lei ricambiava il mio sguardo amichevolmente, ma senza sorridere. Mi fermai più a lungo di quanto avessi programmato e, quando finalmente Ellen raccolse le sue cose, le chiesi sottovoce se l’indomani sarebbe stata di nuovo lì.
«Sì», disse lei e, per la prima volta, sorrise.

CONTINUA…

  

Il giorno seguente arrivai presto in biblioteca e, sebbene aspettassi Ellen, non ebbi alcuna difficoltà a concentrarmi sul lavoro. Sapevo che sarebbe venuta e che avremmo chiacchierato, fumato una sigaretta, bevuto un caffè. Nella mia testa la nostra relazione era maturata molto più che nella realtà. Cominciavo già a preoccuparmi di lei, nutrivo già dei dubbi, eppure non eravamo mai nemmeno usciti insieme.

Il mio lavoro procedeva bene, leggevo e prendevo appunti. Quando, verso mezzogiorno, Ellen fece la sua comparsa, mi salutò con un cenno del capo. Mise di nuovo il suo cuscino di gommapiuma su una sedia di fronte a me, dispose le sue cose come il giorno precedente, prese un libro e iniziò a leggere. Dopo forse un’ora, estrasse le sigarette dallo zaino, le guardò un istante e poi mi guardò. Ci alzammo entrambi e ci dirigemmo, con il largo tavolo che ci separava, verso il corridoio principale, che divideva la sala a metà. L’accompagnai alla macchinetta del caffè, di nuovo ne versò un poco, di nuovo ci sedemmo sulla scalinata davanti alla biblioteca. Ellen mi era sembrata piuttosto timida il giorno prima, ora invece parlava molto e con un fervore che mi stupiva, dato che discorrevamo di cose senza importanza. Era inquieta, e tuttavia pareva che nell’arco di una notte – senza sapere nulla di più dei nostri nomi – la nostra amicizia si fosse fatta più intima.

Ellen mi parlò di un suo amico, Carl; non ricordo più come arrivammo a lui. Questo Carl aveva vissuto di recente una strana avventura. Aveva bevuto qualcosa al bar nell’atrio di un grande albergo, raccontò Ellen. Un pomeriggio.

«Ci sono stata anch’io un paio di volte con lui», disse Ellen, «c’è un pianista e fanno i migliori cappuccini della città. Dall’ingresso un paio di gradini scendono al bar, costeggiando una fontana zampillante, e mentre Carl scendeva questi scalini gli venne incontro una donna. Aveva circa la sua età e indossava un vestito nero. Carl diceva che quando l’aveva vista aveva provato una strana sensazione. Come una specie di tristezza mista a un senso di conforto. Come se la conoscesse. Eppure era certo di non averla mai vista prima. Si era sentito molto debole e si era subito fermato».

Ellen spense la sigaretta sulla scala e gettò il mozzicone nel bicchiere vuoto del caffè.

«Anche la donna si fermò», riprese a raccontare. «Per alcuni secondi rimasero così, uno di fronte all’altra. Poi, la donna avanzò lentamente verso Carl. Quando fu proprio davanti a lui, sollevò le mani, le appoggiò sulle sue spalle e lo baciò sulla bocca. Carl diceva di averla presa fra le braccia, ma lei si era liberata ed era indietreggiata di un passo. Carl si fece da parte e la donna sorrise e andò oltre, salendo gli scalini. Passandogli davanti, gli sfiorò brevemente il braccio con la mano».

«Una strana storia», dissi, «ha poi cercato di scoprire chi era?»

«No», disse Ellen, e improvvisamente sembrò che avermi narrato questa storia le creasse imbarazzo, si alzò in piedi e disse che ora doveva rimettersi al lavoro.

Quando ci incontrammo per la terza volta, giorni dopo, chiesi a Ellen se non le andasse di venire con me al bar di fronte.

«Lì il caffè te lo servono», dissi, «per una volta non ti sporcherai le mani».

Attraversammo la strada. Ellen insistette per passare sulle strisce pedonali aspettando che il semaforo segnasse Avanti.

Da settimane, quasi ogni mattina, andavo in quel bar a bere il mio caffè e a leggere il giornale. Era piuttosto squallido e gli spessi sedili rossi in finta pelle erano troppo molli e scomodamente bassi. Il caffè era lungo e spesso amaro, per essere rimasto troppo tempo in caldo sulla piastra, ma il locale mi piaceva perché nessuna delle cameriere mi riconosceva o tentava di chiacchierare con me, perché non avevo un tavolino preferito e perché ogni mattina mi si chiedeva cosa desiderassi anche se prendevo sempre la stessa cosa.

Chiesi a Ellen a cosa stesse lavorando. Disse che si era laureata in fisica e che stava scrivendo la sua tesi. Sui gruppi di simmetrie dei reticoli cristallini. Aveva un posto part-time come assistente all’Istituto di Matematica dell’Università di Chicago. Aveva 26 anni.

Disse che suonava il violoncello e amava la pittura e le poesie. Era cresciuta a Chicago. Qualche anno prima, suo padre era andato in pensione e i suoi genitori si erano trasferiti in Florida e l’avevano lasciata qui da sola. Ellen abitava in un ampio monolocale in un quartiere periferico della città. Non aveva molti amici, solo tre musiciste, che vedeva tutte le settimane e con le quali formava un quartetto d’archi.

«Non sono un tipo molto socievole», disse.

Le raccontai della morte di mio padre e, approfittando della nuova collaborazione con l’editore americano, del bisogno di cambiare aria per un po’. Le raccontai del testo su cui stavo lavorando da mesi. Ma lei non mi pose alcuna domanda sul mio lavoro e io non menzionai il fatto di aver pubblicato dei libri divulgativi sulle Harley. In effetti, ero contento del suo disinteresse, anche se sono particolarmente fiero di occuparmi di motociclette.

Di noi parlammo poco, in compenso discutemmo d’arte e di politica, delle prossime elezioni presidenziali d’autunno e delle responsabilità della scienza. Anche più avanti, quando ci conoscemmo meglio, Ellen preferiva parlare di idee; a quel tempo, la sua vita privata non impegnava molto i suoi pensieri, o almeno lei non ne parlava. Ci fermammo a lungo al bar. Solo quando, verso mezzogiorno, il locale cominciò a riempirsi, la cameriera si fece impaziente e ce ne andammo.

 

Per diversi giorni ci vedemmo solo in biblioteca, senza darci appuntamento. Spesso andavamo insieme a fumare sulla scala o a bere un caffè, e gradualmente ci abituammo l’uno all’altra, come ci si abitua a un vestito nuovo, che si appende per qualche tempo nell’armadio prima di osare metterselo. In seguito, un paio di settimane dopo, invitai Ellen a cena. Decidemmo di andare in un piccolo ristorante cinese nei pressi dell’università.

Quando quella sera arrivai al ristorante, fuori, sul marciapiede, giaceva una donna. Non si muoveva. Mi inginocchiai accanto a lei e la toccai con cautela. Aveva al massimo l’età di Ellen. I suoi capelli erano rossi, il volto pallido e pieno di lentiggini. Portava una gonna corta e un pullover di lana verde bosco. Sembrava che non respirasse e non sentii il battito cardiaco quando appoggiai la mano sul pullover, appena sotto il seno. Telefonai al pronto soccorso dalla cabina all’angolo. La donna all’altro capo del filo chiese il mio nome, indirizzo e numero di telefono prima di promettere, finalmente, che avrebbe mandato un’ambulanza.

«La persona è morta?», chiese.

«Non lo so. Non sono uno specialista», risposi, «suppongo di sì».

Quando tornai al ristorante, alcuni passanti si erano radunati intorno alla donna e aspettavano l’ambulanza in silenzio. L’autolettiga giunse cinque minuti più tardi, proprio mentre Ellen arrivava lungo la strada. Era stata a una prova del quartetto d’archi e aveva ancora con sé il violoncello.

Parlai con gli infermieri e dissi che ero stato io a trovare la donna, quasi fosse un merito.

«Morta», disse il guidatore.

Ellen era in piedi accanto a me e aspettava. Non fece domande, nemmeno più tardi, durante la cena. Era seduta a tavola, ben dritta, mangiava lentamente e con attenzione, come se dovesse concentrarsi per non fare errori. Masticava tesa e nervosa come una musicista che attende il prossimo attacco. Solo una volta deglutito il suo viso si rilassava per un attimo e lei pareva sollevata.

«Non cucino mai per me», dissi, «solo cose veloci, uova strapazzate. Cucino volentieri per gli altri. Mangio molto di più quando sono in compagnia».

«A me mangiare non piace e basta», disse Ellen.

Dopo mangiato bevvi il caffè. Ellen ordinò un tè. Eravamo rimasti per un poco seduti in silenzio, quando improvvisamente disse: «Ho paura della morte».

«Perché?», le chiesi sbalordito. «Sei malata?»

«No, per ora no», rispose, «ma prima o poi si muore comunque».

«Credevo stessi parlando seriamente»

«Ma io sono seria»

«Non credo che quella donna abbia sofferto», dissi per tranquillizzarla.

«Non intendo dire che abbia sofferto. Fino a quando si soffre, almeno, si è ancora vivi. Non ho paura di morire. Ho paura della morte – semplicemente perché allora tutto finisce».

Lo sguardo di Ellen corse al lato opposto del locale, come se avesse visto qualcuno che conosceva, ma quando mi girai a guardare c’erano solo dei tavoli deserti.

«Tu però non puoi mai sapere quando tutto finirà», dissi, e, visto che non rispondeva: «Mi sono sempre immaginato che a un certo punto ci si sdrai, stanchi, e si trovi la pace nella morte».

«Evidentemente non ci hai riflettuto molto», commentò freddamente Ellen.

«No», ammisi, «Ci sono argomenti che mi interessano di più».

Tacemmo, mentre pensavo alle Harley chiuse nella mia officina in Italia.

Pagai alla cassa e ce ne andammo.

Ellen venne da me, come se fosse scontato. Abito al sedicesimo piano di un grattacielo in pieno centro, in un appartamento che aveva acquistato mio padre per le sue trasferte. Nell’ingresso incontrammo il commesso del negozietto che stava chiudendo. Mi strizzò l’occhio e sorrise insinuante. «Niente video questa sera», disse, e inspirò profondamente, con voluttà. Non gli risposi e proseguii senza salutarlo.

«Chi era quello?», mi domandò Ellen in ascensore.

Le presi la mano e la baciai; continuammo a baciarci fino a quando l’ascensore non si arrestò, con un sommesso din don, al sedicesimo piano.

 

CONTINUA…

 

 

 

Tutto si svolse molto rapidamente. Ci baciammo nell’ingresso e poi in salotto. Ellen disse di non avere mai dormito con un uomo prima, ma quando andammo in camera da letto era molto tranquilla, si svestì e rimase nuda in piedi davanti a me. Era disinibita e mi osservò con sincero interesse.

Non avevamo spento la luce ed era ancora accesa quando, a tarda notte, ci addormentammo. Mi svegliai che fuori stava già albeggiando. La luce ora era spenta, e vidi il profilo del corpo nudo di Ellen che si stagliava contro il riquadro lattiginoso della finestra. Mi alzai e andai a mettermi accanto a lei. Aveva aperto la piccola finestra laterale a ribalta e infilato a fatica la mano nella stretta fessura. Guardammo insieme la sua mano che si muoveva fuori, per conto suo, come fosse staccata.

«Non riuscivo ad aprire la finestra»

«L’appartamento ha l’aria condizionata…».

Tacemmo entrambi. Ellen faceva con la mano dei movimenti lenti e circolari.

«Vieni», dissi, «torniamo a letto. È ancora troppo presto».

Quando mi svegliai di nuovo era quasi mezzogiorno. Ellen dormiva ancora. Era sdraiata sulla schiena e aveva tirato su la coperta fino al naso. Quando mi alzai, lei si svegliò e mentre ero sotto la doccia venne in bagno, si appoggiò al lavandino e disse: «Non riesco a credere a quello che abbiamo fatto stanotte, eppure lo fanno milioni di persone in tutto il mondo ogni secondo che passa».

Ellen si chiuse a chiave in bagno per fare la doccia. Quando ne uscì completamente vestita le chiesi se si vergognasse di me.

«No», rispose, «mi chiudo sempre dentro, anche quando sono a casa da sola. Dai miei genitori non c’erano le chiavi del bagno. Qualche volta si servivano del bagno mentre facevo la doccia».

Mi feci la barba ed Ellen andò giù al negozio a comprare del pane in cassetta e del succo d’arancia.

«Il commesso mi ha fissato», disse quando tornò. «Deve essersi ricordato di averci visto insieme ieri sera. Quando ho pagato si è leccato le labbra e mi ha strizzato l’occhio».

Preparai il caffè e le uova e feci tostare il pane fresco. A colazione Ellen mi chiese dei miei libri. Glieli mostrai. Li sfogliò e disse che era un peccato che lei non ci capisse niente di motori e motociclette.

Nonostante la mia attività principale fosse legata alla riparazione e alla vendita di Harley, un lavoro che mi ha sempre assorbito molto permettendomi di guadagnare bene, e non fossi un vero e proprio scrittore, mi vergognavo un po’ del fatto di non aver scritto e pubblicato un buon romanzo che non c’entrasse niente con le moto. Mostrai comunque a Ellen un libro di racconti brevi, che avevo pubblicato alcuni anni fa, e le raccontai di alcuni progetti letterari che avevo nel cassetto. Ed effettivamente anni fa avevo cominciato a scrivere un romanzo, ma non ero mai andato oltre le prime cinquanta pagine. Ellen mi pregò di raccontarle la trama, e, mentre cercavo di riassumere il poco che ancora rammentavo, all’improvviso mi sembrò tutto molto ridicolo. 

«Non ci lavoro più», dissi, «da anni ormai. A un certo punto ci si deve rendere conto…»

«Non avresti dovuto smettere, l’inizio suona interessante»

«Non sono mai riuscito a essere padrone dei miei soggetti. Rimaneva tutto artificiale. Mi ubriacavo delle mie stesse parole. Era come quando si canta e non si seguono più le parole, ma solo la melodia. Come in quelle opere liriche italiane che nessuno capisce».

Mangiammo in silenzio.

«Perché hai portato con te i tuoi libri a Chicago?», chiese Ellen. «Li leggi?»

«No, non li guardo mai. Di rado»

«Sai ancora tutto ciò che c’è scritto?»

«Abbastanza. Quando prendo in mano questi libri non è per rileggerne qualche passo. Mi ricordano il periodo in cui li ho scritti. Sono una sorta di memoria in codice»

«Davvero?»

«Certo. Vedi ad esempio queste?», le dissi indicandole alcune moto di Chicago illustrate in una pagina.

«Sì»

«Loro mi faranno sempre pensare a te e a Chicago»

«Suona come se ci fossimo già separati»

«No, scusami, non intendevo questo», dissi abbracciandola.

Poi ci preparammo e andammo nuovamente insieme in biblioteca.

 

Feci un viaggio di cinque giorni a New York per procurarmi alcuni libri che non ero riuscito a trovare a Chicago. Da quando conoscevo Ellen avevo ripreso a lavorare di buona lena. Solo il fatto di sapere che lei c’era, che l’avrei incontrata, mi stimolava. Il treno della notte era quasi pieno e fui contento che il posto accanto al mio restasse libero. Ma già alla seconda fermata, a South Ben, una signora, tanto grassa da essere informe, si sedette di fianco a me. Indossava un pullover leggero, fatto a maglia, con un babbo Natale ricamato sopra, ed emanava un odore di sudore stantio e acre. La sua carne flaccida straripava dal bracciolo e per quanto mi ritraessi, schiacciandomi contro la parete della vettura, non mi era possibile sottrarmi al suo contatto. Mi alzai e andai al vagone bar, più avanti nel treno.

Bevvi una birra. Fuori cominciava lentamente a imbrunire. Il paesaggio che attraversavamo aveva un che di approssimativo, di indeterminato. Mentre passavamo in mezzo a un bosco, mi resi conto di cosa aveva voluto dire una volta Ellen quando aveva affermato che in questi boschi era possibile sparire senza lasciare traccia. Di tanto in tanto passavamo davanti a delle case che pur non essendo isolate non arrivavano a formare un paese. Anche qui, pensai, uno potrebbe sparire senza mai essere ritrovato. Un giovane mi rivolse la parola. Mi disse che era un massaggiatore e stava andando a casa dei suoi genitori, a New York. Mi raccontò del suo lavoro, poi cominciò a parlare di magnetismo e di terapia auricolare, cose di cui non me ne fregava niente. Ero in piedi accanto lui, guardavo fuori dal finestrino e cercavo di non ascoltare. Quando si offrì di farmi un massaggio a un prezzo di favore feci ritorno alla mia carrozza. La donna grassa si era girata sul fianco e occupava ancora più spazio. Si era addormentata e respirava rumorosamente. La scavalcai e mi contrassi sulla mia poltrona. Nella tasca del sedile davanti al suo era infilato un libro: “Tutto quello che le brave ragazze non fanno”. Lo estrassi con cautela e lo sfogliai. A metà libro trovai delle illustrazioni schematiche di organi genitali e due grafici, che, secondo la legenda, illustravano l’orgasmo dell’uomo e quello della donna. Quando rimisi il libro nella tasca del sedile, la donna si svegliò. Mi sorrise e mormorò: «Sto andando dal mio uomo».

Annuii, e lei proseguì: «Non ci siamo mai incontrati prima. È algerino. L’ho conosciuto tramite un’organizzazione»

«Capisco», dissi.

«Le piace il mio pullover? Mi sta bene, vero?»

«È originale»

«Ora devo dormire, così domani sarò bella riposata».

Rise tra sé, si girò sul fianco e poco dopo si era già riaddormentata. Anch’io, a un certo punto, mi addormentai. Quando mi risvegliai, fuori stava albeggiando. Il treno correva lungo un ampio fiume. Andai al vagone ristorante e ordinai un caffè. Poco dopo arrivò la mia vicina di posto.

«Posso?», chiese, e si sedette di fronte a me.

«Non trova anche lei che il treno sia più comodo dell’aereo?»

«Sì», dissi, e guardai fuori dal finestrino.

«Tra sei ore arriviamo», disse. «Non riesco neanche più a dormire per l’eccitazione», tirò fuori una fotografia dalla borsa e me la mostrò.

«È lui. Si chiama Amir».

«Deve stare attenta. Non tutti gli uomini hanno buone intenzioni»

«Ci scriviamo già da mesi. Suona la chitarra»

«Non conosce nessun altro a New York?»

«Conosco Amir, è sufficiente», disse, pronunciando il suo nome con singolare enfasi e affettazione. Poi estrasse dalla borsa una lettera sciupata e me l’allungò attraverso il tavolo: «Legga».

Lessi le prime frasi e gliela resi. Amir aveva scritto qualcosa circa una foto che la sua amata gli aveva inviato.

«Crede che lui mi ami?», chiese.

«Andrà tutto bene», dissi.

Sorrise grata e disse: «Un uomo che scrive delle lettere così belle non può essere cattivo».

 

 

 

 

 

Ritornai da New York domenica mattina. Avevo di nuovo viaggiato di notte e telefonai a Ellen mentre ero ancora in stazione.

«Vieni da me?», chiese. «Ho una cosa da farti vedere».

Era la prima volta che mi invitava da lei. Nonostante le sue indicazioni precise mi ci volle molto tempo per trovare la strada. Quando aprì la porta, Ellen aveva le guance rosse dall’agitazione. Era raggiante e mi invitò a entrare.

«Prima di tutto mangiamo», disse. «È quasi pronto. Siediti pure».

Mentre lei si dava da fare in cucina, diedi un’occhiata alla stanza. Era evidente che Ellen si era sforzata di renderla accogliente. In una nicchia, su un materasso, c’erano alcuni animali di peluche e davanti alla finestra una grande scrivania con un computer. Al centro della stanza il tavolo da pranzo rotondo era apparecchiato e abbellito da fiori e candele. Sulla mensola di un vecchio camino murato si trovavano delle foto di famiglia e un’immagine di Ellen in toga, scattata molto probabilmente durante la festa di laurea, all’università. Guardava dritto nell’obiettivo, ma, sebbene sorridesse, la sua espressione le dava un’aria distaccata e introversa.

«Allora avevi i capelli ancora più lunghi», gridai verso la cucina.

Ellen fece capolino nella stanza e disse: «Alla festa di laurea? Quella l’ha fatta mio padre. Manca ancora solo un minuto. Dai pure un’occhiata in giro con calma».

Lei sparì di nuovo in cucina. Andai alla finestra, che era aperta di una spanna. Era mezzogiorno. Fuori piovigginava. La strada appariva deserta. Mi girai. C’erano piante in vaso ovunque, eppure la stanza dava l’impressione di essere disabitata, come se non ci fosse entrata anima viva da anni. Solo allora mi accorsi che Ellen non possedeva quasi nessun libro. A parte una fila di libri della sua materia e di manuali per il computer, ben allineati su un basso scaffale, vidi solo la “Norton Anthology of Poetry”.

Alle pareti erano appese delle stampe, un paesaggio di montagna di Ludwig Kirchner e un orribile cartellone teatrale.

«È là che ho incontrato Carl», disse Ellen indicando la fotografia, «alla festa di laurea. È stato solo tre anni fa. Lui lavorava per una ditta di catering».

«Fa il cameriere?», domandai.

«L’attore», disse Ellen. «I miei genitori erano venuti apposta dalla Florida. Avrebbero potuto dormire da me, ma mio padre insistette per andare in albergo. Non voleva disturbarmi, disse mia madre. Lei lo ha sempre scusato. Quando si accorse che Carl flirtava con me, lui s’infuriò. Si comportò come un idiota, ebbe da ridire su tutto e volle a tutti i costi che andassi via in auto con loro. Io a quel punto ero già piuttosto stanca, oltre che mezza ubriaca, e sarei effettivamente tornata a casa volentieri. Ma mi aveva fatto talmente imbestialire per tutta la serata, che restai solo per fargli dispetto e, davanti a lui, chiesi a Carl se voleva ballare con me dopo cena. C’era un complesso alla festa, ma dovetti aspettare un sacco prima che Carl avesse finito di lavorare. Mio padre mi fece una scenata e mi disse che ero una sgualdrina. Riesci a immaginartelo? E mia madre stava addirittura piangendo, quando finalmente se ne andarono».

«E poi?»

«Credo di esserne stata un po’ innamorata», disse Ellen, «abbiamo ballato a lungo. Carl mi ha anche baciato. E poi mi ha portato a casa in auto. Ma non è successo nulla. Credo che provasse troppo rispetto per la mia toga»

«Troppo?», domandai, ed Ellen rise e mi strizzò l’occhio.

«Ha perso il posto per aver riportato in ritardo l’auto della ditta con tutte le posate sporche»

«Ti vedi ancora con lui?»

«Ha trovato un posto a New York. Fa gli annunci al microfono in un centro commerciale e spera che qualcuno scopra il suo talento».

Dopo mangiato Ellen mi fece sedere alla scrivania, accanto a lei. Accese il computer e aprì un file.

«Leggi», disse.

Cominciai a leggere, ma avevo appena dato una scorsa alle prime frasi quando mi interruppe e disse: «Vedi, anch’io ho scritto un racconto. Mi piacerebbe scrivere di più. Come ti sembra?»

«Prima lasciami leggere», dissi. Ma lei era troppo tesa per restare seduta tranquilla al mio fianco.

«Vado a fare un caffè».

Lo lessi.

 

Devo andare. Mi alzo. Esco di casa. Prendo il treno. Un uomo mi fissa. Si siede accanto a me. Si alza quando mi alzo io. Mi segue quando scendo. Quando mi giro non riesco a vederlo, tanto mi è vicino. Ma lui non mi tocca. Mi segue. Non parla. È sempre con me, di giorno e di notte. Dorme con me, ma senza toccarmi. È dentro di me, mi riempie. Quando guardo lo specchio, vedo solo lui. Non riconosco più le mie mani, i miei piedi. I miei vestiti sono troppo stretti, le scarpe mi fanno male, i miei capelli sono diventati più chiari, la voce più scura. Devo andare. Mi alzo. Esco di casa.

 

Avevo letto il testo rapidamente e superficialmente. Ero impaziente. Ellen tornò dalla cucina sorridendo imbarazzata. Ci sedemmo di nuovo al tavolo da pranzo. Le candele si erano quasi esaurite.

«Allora?», disse lei.

«Il caffè?», chiesi. Non avevo alcuna voglia di valutare il suo testo e me la presi con lei perché mi ci costringeva. Quando si scusò e mi versò il caffè, mi vergognai di me stesso.

«Ascolta», cominciai. Non sopportavo il suo sguardo pieno di aspettativa, presi il mio caffè e andai alla finestra. «Ascolta, non è che basti semplicemente sedersi per scrivere un romanzo in una settimana. Io non mi metto certo a scrivere programmi d’informatica dall’oggi al domani»

«È solo un racconto breve», si difese Ellen.

«Io non posso dare un giudizio», dissi, «non voglio. Non sono uno scrittore».

Ellen tacque, e io guardai la strada fuori dalla finestra.

«Non sei obbligato», disse lei.

«Mi sembra una formula matematica», dissi, «come se tu avessi avuto da qualche parte in testa un’incognita x da scoprire. Il racconto si stringe sempre più, come un imbuto. E prima o poi il risultato è zero».

Continuai per un po’ a parlare così e probabilmente ci credevo anche, a quello che dicevo. Ormai non si trattava più del racconto. Forse non era buono veramente, ma di sicuro era meglio di tutto ciò che avevo scritto io negli ultimi cinque anni.

«Tu non leggi neppure», dissi alla fine, «non possiedi nemmeno dei libri. Come puoi voler scrivere, se non leggi neanche?».

Ellen tagliò in silenzio la torta di mele che aveva preparato per me.

«Ci vuoi del gelato insieme?», domandò senza guardarmi. Mangiammo.

«La torta è buona», dissi.

Ellen si alzò e andò al computer. Sullo schermo si vedevano delle stelle, dei puntini luminosi che si muovevano dal centro verso l’esterno. Non appena Ellen toccò il mouse, riapparve il suo racconto. Lei schiacciò un paio di tasti e il testo sparì.

«Cosa fai?», chiesi.

«L’ho cancellato», rispose, «dimenticato. Andiamo a fare quattro passi?».

Passeggiammo nel quartiere. Aveva smesso di piovere, ma le strade erano ancora bagnate. Ellen mi mostrò dove andava a fare la spesa, dove andava a fare il bucato, il ristorante dove cenava spesso. Cercai d’immaginare come potesse essere di casa in quelle strade, ma non ci riuscii.

Ellen disse che le piaceva abitare lì, si sentiva bene in quel quartiere, anche se non era particolarmente bello e non conosceva nessuno. Quando tornammo nel suo appartamento, tirò fuori da un armadio una pila di piccole diapositive di vetro opaco.

«Questo è il mio lavoro», disse.

A prima vista le diapositive sembravano uniformemente opache, ma, guardandole con più attenzione, nella nebbia grigia notai dei minuscoli punti a distanze regolari. Su ogni lastra i punti formavano dei motivi diversi.

«Sono radiografie di reticoli cristallini», disse Ellen. «La disposizione reale degli atomi. La simmetria è presente, in profondità, in quasi tutte le cose».

Le resi le diapositive. Andò alla finestra e le tenne una per una in controluce.

«Il mistero consiste nel vuoto che c’è in mezzo», disse, «quello che non si vede, gli assi di simmetria».

«Ma cosa c’entra con noi tutto questo?», domandai. «Con la vita, con te e con me? Noi siamo asimmetrici».

«Le asimmetrie hanno sempre una causa», disse Ellen. «È l’asimmetria che rende la vita anche solo possibile. La differenza tra i sessi. Il fatto che il tempo corra solo in una direzione. Le asimmetrie hanno sempre solo una direzione. Le asimmetrie hanno sempre una causa e un effetto».

Non avevo mai sentito Ellen parlare con tanto entusiasmo. L’abbracciai. Tenne in alto le diapositive, proteggendole, e disse: «Sta attento, sono fragili».

Nonostante il suo avvertimento, presi Ellen in braccio e la portai fino al letto. Si alzò ancora una volta, per mettere al sicuro le diapositive, ma poi tornò, si spogliò e si sdraiò al mio fianco. Facemmo l’amore e dopo, fuori, era già buio. Passai la notte da lei.

Di mattina presto mi svegliarono dei rumori, come dei colpi, nei tubi del riscaldamento. Mi misi a sedere e mi accorsi che anche Ellen era sveglia.

«Qualcuno sta trasmettendo dei segnali morse», dissi.

«Questo riscaldamento è un impianto a vapore, non un condizionatore come da te. I tubi si dilatano per il calore e fanno questo rumore»

«Non ti dà fastidio? Con questo chiasso non si riesce certo a dormire»

«No, al contrario», disse Ellen. «Mi dà l’impressione di non essere sola, quando mi sveglio di notte»

«Non sei sola»

«No», disse Ellen, «ora no».

 

CONTINUA…

 

 

 

 

 

«Ho riflettuto», disse Ellen quando ci incontrammo di nuovo, qualche giorno dopo. Era la sera del 3 luglio e passeggiavamo lungo la riva del lago Michigan. A Chicago le celebrazioni per il giorno dell’Indipendenza cominciano già la vigilia, con i fuochi d’artificio e la musica. Il Grant Park brulicava di gente, ma qui, un po’ più a nord, il lungolago era quasi deserto. Ci sedemmo sul molo e guardammo il lago.

«Perché hai smesso di scrivere?», chiese Ellen. «Voglio dire, di scrivere sul serio?»

«Intendi roba di narrativa?»

«Sì»

«Non saprei. Non avevo nulla da dire. Oppure non ero abbastanza bravo. A un certo punto ho semplicemente smesso»

«Non hai voglia di ricominciare?»

«Voglia? La voglia non basta… Perché me lo chiedi? Vorresti stare con un uomo famoso?»

«Il mio uomo», disse Ellen, «suona strano».

Tirò su le gambe e appoggiò il mento alle ginocchia.

«Quando ti ho fatto vedere il mio racconto, ho avuto la sensazione che tu fossi geloso»

«Mi dispiace veramente, sono stato ingiusto. Mi sono arrabbiato»

«Non importa. Ma anche tu mi avevi fatto vedere quel libro di racconti brevi»

«Quel libro non ha venduto molte copie»

«Non ha alcuna importanza. Tu sai scrivere racconti. Vieni, andiamo a casa».

Quando ci alzammo e tornammo indietro aveva cominciato a imbrunire. In controluce, i grattacieli del centro si confondevano l’uno con l’altro e parevano un unico gigantesco edificio, una buia fortezza.

Di sotto, sulla spiaggia, un gruppo di ispanici, forse una famiglia, aveva acceso un falò e festeggiava. Ellen mi prese sottobraccio.

«Non potresti scrivere un racconto su di me?», domandò.

Risi, e lei con me.

«Se vuoi diventare immortale devi cercarti qualcuno più famoso».

«Duecento copie sono sufficienti. Non m’interessa neppure che venga pubblicato. Sarebbe come un ritratto. Hai visto le mie fotografie. Non ce n’è neanche una bella, sulla quale mi si veda così come sono».

«Devo comporre una poesia su di te?»

«Non una poesia», disse Ellen, «un racconto».

Eravamo tornati da me. Il negozietto aveva già chiuso.

«Sei mai salito per le scale?», chiese Ellen.

«No», risposi, «perché avrei dovuto farlo?»

«Dai», disse tirandomi un braccio.

Salimmo per la scala antincendio e contammo i piani. La tromba delle scale era stretta e dipinta di giallo. Quando ci fermammo a riposarci, al sedicesimo piano, udimmo dei passi in lontananza. Trattenemmo il respiro, ma i passi cessarono all’improvviso, una porta si chiuse e fu di nuovo silenzio.

«Non mi piacciono gli ascensori», disse Ellen, «ci si sente mancare la terra sotto i piedi».

«Io li trovo estremamente pratici», dissi, e proseguii, «prova a immaginare…»

«Non mi piacerebbe vivere tanto in alto», disse Ellen seguendomi, «non va bene».

Trovammo il mio appartamento. Spossato, mi lasciai cadere sul divano. Ellen si versò un bicchiere d’acqua e mi portò una birra.

«Non ho mai scritto storie su persone in carne e ossa», dissi, «da principio magari mi sono ispirato a qualcuno che conoscevo. Ma nel racconto in sé bisogna essere liberi. Altrimenti è giornalismo».

Ellen si sedette accanto a me.

«E i racconti che hai scritto non avevano più nulla a che fare con le persone a cui ti eri ispirato?»

«Al contrario», risposi, «con l’immagine che mi ero fatto di loro. Forse anche troppo. La mia ragazza di allora mi lasciò perché si era riconosciuta in uno dei racconti»

«Davvero?», chiese Ellen.

«No», dissi, «ci siamo solo accordati su questa versione».

Ellen ci pensò su.

«Perché non scrivi una storia su di me?», disse poi. «Così so che cosa pensi veramente di me»

«Non so mai cosa ne verrà fuori», dissi, «non ho alcun controllo sulla cosa. Forse ne saremmo delusi entrambi».

«Mi assumo il rischio», disse Ellen, «tu devi solo scrivere».

Ero innamorato, e niente m’impediva di sacrificare un paio di giorni per scrivere un racconto. L’appassionata insistenza di Ellen mi aveva incuriosito ed ero ansioso di scoprire se l’esperimento sarebbe riuscito, se ero ancora capace di scrivere racconti.

«Vieni, cominciamo subito», disse Ellen, «una storia d’amore con te e me».

«No», dissi, «non noi. Il racconto lo scrivo io. E prima vorrei guardarmi i fuochi artificiali».

Ellen disse che a lei i fuochi artificiali non interessavano e che, invece, avrei potuto cominciare subito a scrivere. Presi un foglio di carta e scrissi.

 

La sera del 3 luglio salimmo sul tetto e guardammo insieme i fuochi artificiali

 

L’ascensore arrivò al trentaquattresimo piano, da lì una stretta scala portava sul tetto. Il pavimento era coperto da una griglia in legno, quasi annerita dal sole e dalla pioggia. Ci avvicinammo al parapetto e guardammo giù. Di sotto vedevamo passare le automobili e la gente, piccola piccola, che si muoveva in mezzo al traffico serale. Da qui potevamo vedere anche il lago e il Grant Park, dove ardevano dozzine di falò.

«Quanta gente», disse Ellen. «Non sanno che li stiamo osservando».

«Che lo sappiano o meno, non fa differenza».

«Potrebbero nascondersi», disse Ellen. «Sai quando iniziano i fuochi artificiali?»

«Non lo so. Quando fa abbastanza buio. Hai freddo?»

«No», rispose, e si sdraiò su una delle panchine di legno che c’erano sulla terrazza. «Vieni spesso quassù?».

Mi sedetti accanto a lei.

«All’inizio salivo qui sopra quasi ogni giorno. Ora non capita più così spesso. Anzi, mai»

«Perché?», chiese Ellen. «Da qui si possono vedere le stelle».

Poi cominciarono i fuochi. Ellen si alzò in piedi e di nuovo ci avvicinammo insieme al parapetto, sebbene i razzi esplodessero insieme molto più in alto sopra di noi e li avremmo potuti vedere benissimo anche dal centro del tetto.

 

Quando tornammo all’appartamento, avevamo freddo.

«Ora devi cominciare il racconto», disse Ellen.

«Va bene», dissi, «e tu devi posare per me».

Andammo nello studio. Ellen si sedette sulla poltroncina di vimini vicino alla finestra e si ravviò i capelli come se dovesse farsi fotografare, si aggiustò il colletto della camicia e mi sorrise. Io mi sedetti al computer e la osservai. Ancora una volta, nonostante il sorriso, mi meravigliai della serietà del suo volto e del suo sguardo, che parlava una lingua a me sconosciuta.

«Come ti piacerebbe apparire?», le chiesi.

«Come sono veramente», disse lei. «Ma anche carina. In fondo ti sei innamorato di me, no?».

Io scrissi.

 

Vidi Ellen per la prima volta alla biblioteca civica di Chicago, nell’aprile di quest’anno

 

«Cos’hai scritto?», chiese.

Le lessi la frase, e lei ne fu soddisfatta.

«Non c’è bisogno che posi per me», le dissi, «volevo solo osservarti con tutta calma ancora una volta».

«Non mi dà alcun fastidio», disse Ellen.

«Ma se te ne stai seduta lì a osservarmi non ci riesco proprio a scrivere. Perché non vai a preparare un bel caffè?».

Ellen andò in cucina. Quando tornò, le lessi quello che avevo scritto.

 

Vidi Ellen per la prima volta alla biblioteca civica di Chicago, nell’aprile di quest’anno. Quando si sedette di fronte a me nella sala di lettura, mi colpì subito. I suoi goffi movimenti non si accordavano bene al suo corpo snello, quasi fragile. Il suo volto era delicato e pallido, i capelli, scuri, arrivavano alle spalle. I nostri sguardi s’incontrarono per un attimo, e vidi i suoi occhi azzurri, stupiti. Quando lasciò la sala di lettura, la seguii. Ci incontrammo di nuovo sulla scalinata della biblioteca e la invitai a prendere una tazza di caffè.

La nostra conversazione si sviluppò con una rapidità sorprendente. Parlammo dell’amore e della morte ancor prima di conoscere i nostri nomi. Il mio cinismo la stuzzicava e, quando era agitata, diventava rossa e sembrava ancor più vulnerabile del solito

 

Ellen s’irritò. «Questo non hai nessun bisogno di scriverlo»

«Devo o non devo scrivere? È stata un’idea tua»

«Da bambina arrossivo sempre. E a scuola mi prendevano in giro e mi deridevano per questo. Mio padre non sopportava che fossi presa in giro»

«E tu?»

«Ci si abitua. Leggevo molto. Ed ero brava a scuola»

«Devo cancellarlo?»

«Sì, per favore. È proprio necessario che tu scriva della mia infanzia? In fondo è solo un racconto. Non posso semplicemente apparire in biblioteca, così come sono? Così come adesso?»

«D’accordo», dissi, «rinasci nella mia testa come Atena dalla testa di Zeus, saggia, bella e inavvicinabile».

«Non voglio essere inavvicinabile», disse Ellen e mi baciò sulla bocca.

 

CONTINUA…

 

 

 

 

 

Nelle settimane successive trascurai le motociclette. Scrivevo il racconto su Ellen, scrivevo come erano andate le cose e, quando ci incontravamo, le leggevo i nuovi capitoli.

Mi meravigliava quante cose Ellen e io avevamo vissuto o ricordavamo in maniera differente. Spesso non riuscivamo a metterci d’accordo su come, di preciso, fosse stato qualcosa e, sebbene di solito io riuscissi a spuntarla con la mia versione, non ero sempre certo che non fosse Ellen, invece, ad avere ragione.

A lungo, ad esempio, non riuscimmo a metterci d’accordo sul ristorante dove avevamo cenato insieme per la prima volta. Ellen sosteneva che si trattasse del ristorante indiano, io di quello cinese, proprio dirimpetto. Credevo perfino di ricordarmi che cosa avevo mangiato. Alla fine, tuttavia, a Ellen venne in mente di aver preso nota dell’appuntamento sulla sua agendina e l’appunto provò che io avevo torto.

Alcune cose da me descritte in dettaglio non rivestivano alcuna importanza per lei. Altre, che per lei erano importanti, non venivano menzionate nel racconto, oppure erano solo brevemente accennate, come la donna morta che avevamo trovato quella sera davanti al ristorante. Citai l’accaduto, ma non aggiunsi nient’altro, non scrissi che più avanti eravamo venuti a conoscenza della sua storia e che eravamo addirittura andati al suo funerale. Ellen si era sentita molto coinvolta da questa vicenda e aveva più volte scritto ai parenti della defunta.

Nel racconto non menzionavo Carl, ed Ellen si disse convinta che ne fossi geloso e parve rallegrarsene. Le poche volte che arrivammo a parlare di lui, lei eludeva le mie domande o rispondeva solo in modo vago. Della sua infanzia parlava malvolentieri; solo qualche volta, quando era di buon umore, raccontava questo o quell’episodio, e ogni volta smetteva all’improvviso, così come aveva iniziato.

Il mio testo era già diventato fin troppo lungo, quando finalmente, verso la fine di agosto, raggiunsi il tempo presente.

Aveva piovuto molto quando, ai primi di settembre, un vento freddo e secco, proveniente da nord cominciò a soffiare sopra il lago e a spazzare via le nuvole. Avevamo deciso di passare la giornata fuori. Ellen era andata a casa a cambiarsi e al suo ritorno mi citofonò dall’ingresso perché non perdessimo altro tempo. Mi aspettava seduta in una delle poltrone di pelle nera e aveva un’aria strana, diversa dal solito. Portava dei calzoni alla zuava blu scuro, una maglietta bianca a maniche corte e scarponcini che davano l’impressione di non essere mai stati indossati prima.

«Andiamo in un parco», dissi, «non in alta montagna».

«È una foresta, non un parco», disse Ellen. «Pensavo che volessimo andare a camminare». 

«Sì, certo», dissi, e quando Ellen guardò, scettica, le mie scarpe basse: «Con queste scarpe posso camminare per ore».

Nel parco c’erano molti canali e laghetti e non percorrevamo mai lunghi tratti, perché continuavamo a fermarci da qualche parte vicino all’acqua, per sederci e parlare. Dissi a Ellen che aveva un aspetto diverso dal solito e lei rispose di essersi tagliata la frangia. Poi dovetti tenerla mentre si chinava sull’acqua del laghetto per riuscire a osservare la propria immagine riflessa.

«Sto forse male?», chiese.

«Sei diversa. Non credo che sia per via della frangia».

Avevamo portato con noi una coperta e dei panini imbottiti e nel tardo pomeriggio ci stendemmo al sole in una piccola radura. Dopo mangiato, Ellen si addormentò, ma io non ero stanco e mi sedetti a fumare. La luce del sole passava, obliqua, attraverso gli alberi proiettando macchie di luce sul corpo immobile di Ellen. La guardavo e non la riconoscevo. Il suo viso mi appariva come un paesaggio sconosciuto. Gli occhi chiusi erano diventati due colline che si inarcavano nei piatti crateri delle orbite, il naso era una sottile cresta che s’innalzava armoniosa per poi digradare, allargata, verso la bocca. Per la prima volta notai i vellutati avvallamenti ai lati degli occhi, la curva del mento e delle guance. Tutto il viso mi parve estraneo e inquietante, eppure sentivo di averne una visione più reale e immediata che mai. Sebbene non toccassi Ellen, avevo la sensazione allarmante e al tempo stesso tanto bella da essere esaltante di avvolgerla come una seconda pelle, di percepire improvvisamente tutto il suo corpo attaccato al mio.

Me ne stavo immobile. Gli ultimi raggi del sole erano scomparsi dal prato e l’aria si andava rinfrescando. Ellen storse la bocca in una smorfia irritata e per un attimo aggrottò la fonte. Poi si svegliò. Mi sdraiai accanto a lei e la strinsi a me.

«Cos’hai?», chiese guardandomi sorpresa negli occhi.

Evitai il suo sguardo, ma non la lasciai andare, anzi, la strinsi ancor più a me e le baciai il collo e il viso. Lei sorrideva.

«Ho avuto una strana sensazione», dissi. «Mi sembrava di esserti vicinissimo».

«E lo sei ancora?», chiese.

Io non risposi, e anche Ellen non disse più nulla e si limitò a tenermi stretto, come se temesse che mi allontanassi di nuovo da lei. Più tardi le dissi che l’amavo, ma non bastava e, poiché non sapevo come altro descrivere questo sentimento, tornai a tacere e per tutta la sera parlammo pochissimo.

 

Il mio amore per Ellen era cambiato, era diverso da qualsiasi cosa avessi conosciuto in precedenza. Provavo una dipendenza quasi fisica, avevo la sensazione umiliante di essere solo un mezzo uomo quando lei non era con me. Mentre nelle mie relazioni precedenti avevo sempre preteso di avere molto tempo per stare da solo, ora non riuscivo mai a vedere Ellen abbastanza spesso. Da quando eravamo andati a camminare al parco pensavo continuamente a lei e mi sentivo tranquillo solo quando era con me e la potevo guardare e toccare. Tuttavia, quando eravamo insieme, mi sentivo come esaltato e tutto intorno a me – l’aria, la luce – mi pareva dolorosamente nitido e vicino, e persino il tempo diventava concreto e percepibile nel suo trascorrere. Per la prima volta nella mia vita avevo la sensazione che qualcosa penetrasse in me dall’esterno, qualcosa di estraneo, d’incomprensibile.

Cominciai a osservare Ellen e mi accorsi solo ora di quanto poco la conoscessi. Mi colpirono i piccoli rituali che celebrava, apparentemente senza esserne consapevole. Quando uscivamo a mangiare insieme e il cameriere o la cameriera aveva apparecchiato, Ellen rimetteva sempre a posto le posate. Quando il pasto veniva servito, sollevava di poco il piatto con il dito indice di entrambe le mani, lo teneva in equilibrio mezzo secondo, come se cercasse il suo centro di gravità, quindi lo riponeva.

Non toccava mai gli estranei ed evitava di essere toccata da loro. Gli oggetti, invece, li toccava incessantemente. Passandoci davanti, sfiorava con la mano mobili ed edifici. Spesso sottoponeva gli oggetti più piccoli a una vera e propria esplorazione, come se non potesse vederli. Talvolta li annusava anche, ma se glielo facevo notare sembrava non essersene accorta.

Quando leggeva, era tanto assorta nel testo che se le rivolgevo la parola non rispondeva. Tracce di sentimenti, echi di ciò che stava leggendo aleggiavano allora sul suo volto. Sorrideva o serrava le labbra. Talvolta sospirava o aggrottava irritata la fronte.

Ellen pareva consapevole di essere osservata, ma non diceva nulla. Credo che le facesse piacere. Di tanto in tanto ricambiava i miei sguardi meravigliati con un sorriso, ma senza vanità.

Pochi giorni dopo la nostra gita al lago mi addentrai nel futuro con il racconto. Ora Ellen era una mia creatura. Sentivo che la libertà riacquistata metteva le ali alla mia fantasia. Progettavo il suo futuro come un padre che pianifica il futuro della figlia. Avrebbe scritto una tesi di dottorato brillante e avrebbe fatto carriera all’università. Insieme saremmo stato felici. Intuivo già che nel mio racconto prima o poi Ellen avrebbe preso vita e che allora nessun piano avrebbe potuto trattenerla dall’andare per la sua strada. Sapevo che, se il racconto valeva qualcosa, questo momento doveva arrivare e l’aspettavo quindi con ansia, con gioia e timore al tempo stesso.

Non ci eravamo visti per qualche giorno, ma io avevo pensato a Ellen costantemente e avevo continuato a scrivere il racconto. Quando l’editore mi telefonò per informarsi sui progressi del mio lavoro, lo tenni a bada e sostenni di avere delle difficoltà nel reperire alcuni documenti. Disse di avere inserito il libro nel programma editoriale per l’autunno dell’anno seguente e io promisi di consegnare il manoscritto entro Natale. Appena riattaccato telefonai a Ellen e la invitai a venire da me.

«Mettiti il vestito blu scuro», dissi.

«Perché?», domandò sorpresa.

«Ho superato il presente», dissi, «so già cosa accadrà».

Lei rise.

 

Quando venne da me il giorno seguente, Ellen indossava veramente il suo corto vestito blu. Faceva quasi freddo e pioveva, ma lei disse: «Gli ordini sono ordini», e si limitò a ridere quando io mi scusai.

 

Andammo in salotto ed Ellen mi abbracciò e mi baciò a lungo, come se avesse paura di perdermi

 

Citai. Ed Ellen mi abbracciò proprio come avevo scritto, solo che lo fece ridendo e non aveva paura. Mi sciolsi dall’abbraccio e andai in cucina a finire di preparare la cena.

«Posso aiutare?», chiese lei.

«No», dissi.

 

Ellen stava seduta in salotto e ascoltava i miei CD, mentre io preparavo la cena

 

Avevo acquistato una bottiglia di champagne, anche se nessuno di noi ci teneva molto.

«Come mai questa festa?», chiese Ellen.

 

Era una giornata molto speciale per noi. Avevo deciso…

 

«Ma prima mangiamo»

«Non è valido», disse lei, «prima m’incuriosisci, e poi…»

«Spiacente», dissi io, «ne parliamo dopo».

Parlammo d’altro, ma mi accorsi che Ellen era ansiosa di sapere che cosa sarebbe successo. Mangiò più in fretta del solito e, quando finimmo, non sparecchiammo e lasciammo lì i piatti. Mi sedetti sul divano e tirai fuori di tasca un foglio di carta.

«Vieni», dissi, ma Ellen si sedette su una sedia vicino alla finestra.

«Prima voglio sapere cosa devo fare», disse lei, «non vorrei commettere errori».

Dal mio posto non riuscivo a vederla in volto. La sua voce suonava stranamente fredda.

«Avanti», disse, «leggi!».

 

Eravamo seduti sul divano uno accanto all’altro

 

Lessi e restai un istante in attesa. Ellen, tuttavia, non si mosse e io proseguii:

 

Ellen era appoggiata a me di schiena. La baciai sulla nuca. Avevo pensato molto a questo momento, ma quando mi risolsi a parlare avevo dimenticato tutto. Fu così che dissi solamente: «Vuoi venire a stare da me?»

 

Mi fermai, in attesa, osservando Ellen. Lei non disse nulla.

«Allora?», domandai.

«Lei che cosa risponde?», chiese lei.

Andai avanti a leggere.

 

Ellen si tirò su a sedere e mi guardò dritto in faccia. «Dici sul serio?», chiese. «Naturalmente», dissi io

 

«Volevo chiedertelo già da tanto. Ma ho pensato… tu sei così indipendente…».

Ellen si alzò e si avvicinò al divano. Si sedette accanto a me e chiese: «Pensi che andrà tutto bene?».

«Sì», dissi, «quando eravamo al lago… eravamo così vicini uno all’altra: da allora mi sento spesso solo in questo appartamento. Te la sentiresti di abitare qui? Sai, penso che… avremmo più spazio che da te».

«Sì», disse lei. «Sì. Va bene così? Sei soddisfatto?». Rise di nuovo e disse: «Fammi vedere come va avanti». Mi prese il foglio di mano, lesse e disse indignata: «Grata? Perché dovrei esserti grata?».

Mi sferrò un pugno alle costole.

«Era solo uno scherzo», dissi, «dopo l’ho cancellato».

«Ah, questa frase mi piace già di più», disse.

 

Bevemmo champagne. Facemmo l’amore e a mezzanotte salimmo di sopra, sul tetto, a guardare le stelle

 

 

FINE

 

 

 

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