Skip to main content
Racconti Erotici Etero

Un Grande amante

By 6 Luglio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Mi chiamo Marco ed ho trentasette anni. Sono ingegnere civile. Un professionista ben pagato e stimato. Non mi sono mai sposato, anche se sono un grande amante delle donne. Ecco, è proprio questo il punto: sono un GRANDE..amante. Ho un uccello che da bambino mi metteva in imbarazzo per le sue dimensioni a riposo; immaginate quando casualmente si irrigidiva in una involontaria erezione!! Mi faceva spavento, e gli altri ragazzini del collegio “bene” di Milano, che non capivano perché avessi quel cosone mi prendevano in giro spietatamente’Davvero, sembra la canzone di Elio e le Storie Tese: “quand’ero piccolo, tutti mi scherzavano per le dimensioni del mio pene”. Ma allora non c’era proprio niente di divertente. Poi iniziai le superiori in classe mista, e quello che dapprima era sembrata una maledizione divenne una fonte di occasioni: le ragazze notavano certi gonfiori, esaltati dalla moda dei calzoni aderenti, e dimostravano apertamente di gradirli. Più di una volta mi ritrovai una ragazza incollata addosso a qualche festa, e sempre, mentre si ballava un lento, che più lento non si può, il suo bacino, le sue mani andavano a finire là, il suo sorriso si spalancava quando si accorgeva che il mio pisello si faceva granitico ed aumentava ancora di più in dimensioni; il problema vero, in quelle occasioni era che nove volte su dieci non si andava mai otre a palpeggiamenti, toccamenti, sbaciucchiamenti più o meno approfonditi: spesso me ne tornavo a casa con l’uccello ancora in tiro e a bocca asciutta. Già, perché un’altra delle prerogative del mio uccello è che quando parte in erezione se ne resta tutto duro e fiero per almeno un paio d’ore, anche nonostante ripetute eiaculazioni. Tilde, la mia ex segretaria, appassionata e disinteressata pompinara, la prima volta che si dedicò alla sua attività preferita col mio bel cazzone ne rimase stupitissima: dopo due ore di intenso e lussurioso lavoro di lingua e dopo aver ingoiato otto volte abbondante sborra se ne uscì con “ebbasta dotto’, nun je va giù neanche a cannonate!”.
Ma eravamo rimasti agli anni del liceo’Persi la verginità in prima liceo con una ragazza che aveva quattro anni più di me ed era alle soglie della maturità: rimase in contemplazione estatica del mio uccello per qualche secondo, senza crederci; poi lo usò a suo piacimento per una bella oretta, facendosi riempire e spianare voluttuosamente ogni orifizio e godendo ad ogni quando. Poi scomparve, lasciandomi come un calzino rivoltato. Non mi sentii per nulla felice di come era andata quella prima volta, e nemmeno le successive con altre ragazze, alcune più anziane, alcune più giovani di me, mi diedero intima soddisfazione: certo, partecipavo, godevo come un maiale dentro di loro, addosso a loro, ma in fondo mi sentivo sempre usato, come uno stallone da monta senza cervello. Ed effettivamente la voce che girava mi descriveva come uno sciupafemmine superdotato che prendeva e gettava subito via la ragazza di turno. Invece il mio problema era la timidezza di fondo e la mia scarsa propensione alla chiacchiera ed alla insistenza, cosicché tutte le mie giumente mi frequentavano velocemente, arrivavano, scopavano e se ne tornavano appagate dal fidanzatino cornuto e contento che non lasciavano per nulla al mondo. Così ebbi sempre poche occasioni di legare stabilmente a me qualche ragazza, tanto che ne ricordo solo tre, con le quali i rapporti proseguirono per circa due mesi.
E così iniziai l’università: Ingegneria civile al Politecnico di Milano. Fu allora che cominciai a capire che quello dello stallone sarebbe stato il mio destino definitivo. Fu allora che cominciai a prendere coscienza del fatto che dovevo aggiungere qualità a quel modo di vivere la sessualità. Iniziai a rendere sempre più raffinato e cerebrale il mio modo di fare sesso, facendo decine di esperienze con le poche compagne di corso (Ingegneria a Milano aveva una popolazione femminile bassissima, allora) e con tutto quel pollaio di ragazze che frequentano i localini per universitari. Fu sempre allora che compresi finalmente cosa significa il sesso per una donna: non è affatto vero che per loro il sesso non è un bisogno, e non è affatto vero che disdegnino una bella cavalcata senza sentimento. Donne e uomini sono uguali: scopare piace a tutti e l’ideale è scopare al meglio, fino ad arrivare ad un passo dalla follia per quanto si è goduto. Il resto, l’amore, l’affetto, la famiglia sono cose diverse, che a volte si conciliano con lo scopare, a volte no.
Il mio uccello si era ormai assestato alle sue misure attuali: ventisei centimetri di lunghezza per sette di diametro, e stavo imparando sempre meglio a guidarlo. Ho imparato che una donna va preparata a lungo, senza impazienza a ricevere un attrezzo così imponente; ho cominciato apprezzare tutti i lavori di bocca che tante volte le donne mi fanno come preliminare, come se pensassero che bagnarmelo di saliva e farmi godere un paio di volte nella loro gola possa ridimensionare il mio fallo e renderlo più amichevole per la loro fichetta, che intanto si bagna sempre più. Ho anche imparato a praticare con perizia e dedizione il sesso orale, nel senso che dedico molto, molto tempo a leccare, solleticare, succhiare, slinguare il clitoride e la fica alle donne, in modo da inumidirle a puntino, prima di appoggiare prima sul loro ventre e poi all’ingresso della loro vagina la mia asta.
Poi, lentamente, lussuriosamente, godendomi ogni millimetro, le penetro con il mio glande morbido; aspetto che le loro piccole labbra si chiudano fremendo alla sua base e poi leggermente mi ritraggo. Di solito con quattro lentissimi movimenti di andata e ritorno riesco a raggiungere col glande il fondo della vulva e ad incontrare l’estremità dell’utero che vi si sporge. Tutte le grinze delle loro vagine sono spiante, le riempio totalmente. Qui so di dover indugiare; adoro la sensazione del mio cazzo che spinge contro il muso di tinca e so che la adorano anche le donne. Adoro muovere sapientemente il mio uccello in modo che la sua punta sfreghi in su e in giù proprio lì, alla porta dell’utero, come se volesse spalancarla. Adoro poco dopo spruzzare tutto il mio sperma con potenza proprio lì, dove l’utero ha una piccola rientranza, che è il suo ingresso, o la sua uscita, dipende dai punti di vista. Quando godo lo faccio senza clamore: so che le donne se ne rendono conto dalle contrazioni che fanno vibrare potente il mio uccello; e per quanto possibile cerco di non muovermi dentro di loro, di non pompare troppo, perché so di poter far loro male. So per esperienza che una fica inondata potentemente di sperma inaspettato ha una sola reazione: inizia a restringersi e a pulsare incontrollatamente mungendo incredibilmente l’uccello che a questo punto riprende i suoi spruzzi gioiosi di sborra.
Tante donne vanno in estasi subito, altre la seconda o la terza volta. Certe sembra quasi che svengano, altre si addormentano. Qualcuna va avanti per due o tre ore: sinceramente sono poche.
E poi, quando ormai hanno raggiunto il massimo del piacere possibile, mi sfilo da loro e, osservando i fiotti di muco e di seme che escono dalle loro vulve mi masturbo lentamente segandomi a lungo per spruzzare loro addosso, sui seni, in faccia sul ventre o sulla schiena lunghi getti di bianco, bollente e vischioso liquido seminale: mi piace l’idea di imbrattarle ovunque, di farle mie lasciando tracce di me, del mio sperma in ogni loro punto, anche dove è difficile da lavar via.
A volte se si sono date delle arie da gran porcone sostituisco questo trattamento con un lungo quanto forzato pompino: le faccio sdraiare comode e poi le scopo di bocca, proprio come se le stessi scopando di fica, e ancora godo e spruzzo loro in gola il mio seme che zampilla come da una prodiga fontana. Qualcuna a volte, prima di crollare azzarda a sfregare il suo culetto contro il mio uccello, ma spesso mi è molto difficile riuscire a penetrarle oltre la base del glande, anche se in alcuni casi sono riuscito ad inculare completamente qualche donna abituata a quel genere di lavoretto. So bene che, nei rari casi in cui ci riesco provo un piacere tale da toccare il cielo con un dito: le pareti intestinali fasciano il mio cazzo e lo stringono con potenza, lo sfintere continua ad allargarsi e stringersi ciclicamente, mandandomi in paradiso. Anche in questo caso so di dover fare con calma, di doverle massaggiare a lungo con creme emollienti, di doverle preparare utilizzando uno, due e poi tre dita. So che il solo appoggiare la punta del glande contro lo sfintere mi fa fremere di piacere e so che più godo e riempio il loro intestino di bianca e calda sborra e meglio il lavoretto procede. So bene dove devo toccarle mentre le inculo, cosa devo solo sfiorare e cosa invece devo pizzicare violentemente o mordicchiare senza sosta, se devo mettere loro le dita in figa e poi in bocca o se devo solo sfiorare loro i fianchi e la schiena o ancora se le devo sculacciare, osservando le loro natiche sbattere attorno al mio uccello e diventare rosso fuoco.
So tutto questo perché mi piace provare e dare piacere, perché non voglio e non posso essere solo un uccello con dietro una persona, e soprattutto perché so che così mi torneranno a cercare, anche se trovarne di nuove non è mai un grosso problema: basta guardarle negli occhi, nelle discoteche, nei bar, sul lavoro: ho imparato a riconoscere quelle che hanno veramente fame di cazzo e che se ne meritano una buona dose. Il resto è semplice. Una buona cavalcata piace a tutti.

Leave a Reply