Skip to main content
Racconti Erotici Etero

Una storia a imbuto.

By 22 Luglio 2009Dicembre 16th, 2019No Comments

Come iniziò lo ricordo bene, così per caso. Perche mi trovavo lì al momento “giusto” e nel posto “giusto”.
Ero ricoverato in ospedale, una sciocchezza dolorosa e seccante, noiosa quanto 24 ore passate in osservazione in un reparto praticamente vuoto in un finesettimana autunnale e stanco.
Avevo deciso di prendere per l’ultima volta, in senso stagionale, la mia mountain bike, non sono un atleta, mi piace solo pedalare, se possibile, fuori strada e sullo sterrato.
Dopo essermi arrampicato su una dolce collinetta boscosa, poco fuori città, giro il manubrio e mi butto in quella discesa, non di certo ripida. Qualche piccolo salto, un paio di sassi aggirati, una buca coperta dalle foglie, e in fondo, una radice scoperta. Mi pianto come un chiodo con la ruota davanti, e urto violentemente il pube sulla canna, non so come, ma i miei gioielli si salvano dall’urto.
Solo un pò di paura, una ruota ovalizzata e un certo dolore all’attaccatura interna della gamba destra, che nemmeno dopo i primi minuti passati a inveire contro il destino e parimenti contro la mia stupidità, sembra passare, controllo per bene il danno, c’è, ma a occhio potrei tornarci a casa senza troppa difficoltà, decido di procedere a piedi fino in fondo alla collinetta, e da lì in piano, rimontare verso la strada principale e poi a casa.
Diciamo che ricordo solo il dolore che non diminuiva, bensì aumentava passo dopo passo, e che quando riprovai a montare sul sellino, tutto si fece buio e mi ritrovai a terra con gli occhi lacrimanti per la fitta tremenda al pube.
Mi vergognavo, ma non riuscivo ad andare avanti, in torno non c’era nessuno, mi feci coraggio presi il cellulare, chiamai.
Prontosoccorso, codicie giallo:
“Guardi che mi fa male.”
“Si immagino, ma se riesce a stare in piedi vuol dire che non è un emergenza.”
“Se iniziassi a urlare, le cose cambierebbero?”
“Le fa così male da urlare?”
“Secondo lei venivo in ambulanza altrimenti?”
Forse per pietà, forse per sfinimento mi fanno passare, raggi, palpazione, e nonostante la zona, non fu molto piacevole, strappo, contusione con interessamento del tendine tizio, del muscolo tal dei tali, possibile interessamento dei genitali.
“No guardi, quelli non mi fanno male.” faccio al dottore, con il mio solito fare un pò puntiglioso.
“Magari oggi no, ma con domani potresti stare ancora peggio, è già tanto che non te li sei schiacciati come due noci.” conclude con fare distratto e forzatamente confidenziale.
Chiamo un amico appena posso.
“Si, ciao, senti mi serve un piacere…”
E mi faccio venire a riprendere la bicicletta al posto di guardia della polizia, all’interno del pronto soccorso, forse uno dei ragazzi di turno era un appassionato e si è mosso a compassione.
In Osservazione, mentre i dottori lo dicevano mi sembrava di sentire le lettere maiuscole scandite dalle loro bocche, sentenza inappellabile per un ventiduenne che immaginava di spassarsela in un finesettimana senza i genitori a casa e invece gli tocca starsene a guardare un soffitto grigio.
I minuti passano lenti, il blando antidolorifico inizia il suo lento moto all’interno delle mie vene, mi rilasso, nonostante la gamba destra leggermente sollevata da un aggeggio ospedaliero, evidentemente progettato da qualcuno che si è ben guardato dal provarlo.
Nonostante la scomodità mi assopisco. Erano le cinque e dalle finestre della mia camera solitaria non entrava praticamente più luce.
Passi decisi e netti degli zoccoli ospedalieri mi svegliano, o almeno, apro gli occhi.
Entra una persona, non metto bene a fuoco, evidentemente anche se blando, il calmante mi ha scombussolato.
Ci metto più del normale a metterla a fuoco. E’ una ragazza, no. Diciamo una donna, mi sorride affabile, ha la pelle olivastra di chi si è fatto una lampada di recente, un casco di ricci neri tenuti indietro da un elastico, due occhi allegri e scuri, la solita tutona verde del personale sanitario che parifica e appiattisce qualsiasi attributo di genere a non definito.
“Ciao! Sono Antonella! E tu come ti chiami?”
Farfuglio impastato il mio nome
“Alessandro? Uhm… credo che ti abbiano dato un troppo antidolorifico sai? Sei tutto imbambolato!”
La frase è tutta un sorriso mentre si mette a guardare il foglio delle prescrizioni attaccato in fondo al letto.
La guardo in silenzio, mi rendo conto di essere completamente fuori giri, e il non riuscire a parlare bene mi fa incazzare e imbarazzare al contempo, quindi taccio e mi limito a seguirla con gli occhi.
“Sto staccando, e faccio un giro in reparto per vedere che vada tutto bene per il turno notturno.” continua a sorridermi, e appunta qualcosa su un foglietto.
“Ora vediamo come va la botta.” si infila il foglietto nel taschino della blusa, tira fuori dalla tasca dei pantaloni un paio di guanti sterili e avvicinandosi di fianco al mio letto solleva appena le lenzuola, infilando le mani dentro, fissando per un attimo il muro, come si fa quando ci si vuole concentrare su cose che si toccano senza vederle.
“Ora premo un pò, dimmi se senti qualcosa.” rispondo con un cenno ci assenso della testa.
“Qui ti fa male?” scuoto il capo.
” E qui?” ancora no con la testa.
“E qui?” tento di dirlo a voce ma mi esce di nuovo un verso, spero abbia capito che fosse un no.
Continua a salire con la palpazione lungo la coscia, verso il mio bacino, con tocco esperto, quasi forte, io non sento praticamente nulla, forse la dose era davvero troppa, e lei infila le mani ancora più sotto le coperte fino a palpare la congiunzione tra l’interno coscia e il mio pube.
“Non senti davvero nulla nemmeno qui?” continuo a scuotere il capo.
Oramai mi guarda fissa negli occhi per cogliere ogni mia minima variazione alla sua palpazione, la vedo crucciarsi un attimo, come se non si fidasse delle mie risposte.
Girella con le mani sempre nella zona, come a individuare il punto doloroso, poi la vedo bloccarsi per un attimo, proprio mentre ha lo sguardo fisso sul mio.
Io non capisco subito, poi mi rendo conto di avere un erezione allucinante, sono intorpidito, stordito e non mi sono accorto che il mio fisico ha risposto automaticamente a quei tocchi esperti.
Sento una sua mano che mi stringe l’uccello, forte, proprio come mi palpava poco prima. Le dita serrate intorno, mentre l’altra mano è ferma proprio accanto ai miei testicoli.
Vorrei imbarazzarmi ma non ci riesco, sono come distaccato da tutto, tranne da quelle sue cinque dita le sento come se stringessero tutto me.
Vedo il suo volto che si fa rosso, abbassa lo sguardo.
Forse non sapeva che non mi avevano fatto rimettere i boxer dopo la medicazione, forse solo non se lo ricordava e adesso si sentiva in imbarazzo, forse non pensava di toccarmi proprio lì, o forse, non si aspettava di trovarmi in quello stato.
Abbassa anche la testa, non mi guarda più in viso, la coda di riccioli neri gli nasconde il viso ora, sento che fa un sospiro, la mano si stringe per un attimo di più, e giuro, ho sentito un dito scivolare lungo la cappella premendo leggermente.
La cosa mi manda in sollucchero, si blocca a me il respiro ora, lei sfila fulminea le mani da sotto le lenzuola, come se si fosse ustionata, si volta e inforca la porta dandomi le spalle, sfila i guanti rapida e sparisce nel corridoio per me invisibile.
Sono inebetito, in tutto questo la mia testa non si è mai mossa dal cuscino, sbatto un paio di volte gli occhi nella semioscurità di quella camera, mentre sono convinto di sentire ancora risuonare i suoi zoccoli lungo il corridoio.
Mi risveglio la mattina con un pessimo sapore in bocca e un ancor peggiore umore in testa, credevo di aver fatto un sogno, ma mi sbagliavo, in ospedale c’ero sul serio.
Passa il dottore, senza tante cerimonie mi solleva il lenzuolo e mi mette a nudo come un baco, mi chiede se fa male.
“Non molto, ora sento solo un dolorino.”
“E gli zebedei?”
“Un pò indolenziti, ma niente di che.”
“Bene – fa lui – Oggi pomeriggio ti rimedichiamo la botta e ti dimetto, così ti puoi vedere la partita in televisione stasera.”
Ma quanto è umano penso, un finesettimana andato in questo modo così insulso, e mi fanno anche il regalo di guardare una partita la domenica sera.
“Naturalmente niente bicicletta per un pò e stattene calmo per un paio di giorni, lavori vero?”
“Si.”
“Bene, ti faccio anche il certificato, così non ti fanno problemi.”
“Grazie.” dico poco convinto alle sue spalle che spariscono nella porta.
Passa la mattinata lenta, il cellulare è oramai senza credito e mi diverto solo con qualche stupido giochino, arriva il momento del pasto, mangio poco, non mi va la minestrina, il purè, non mi va nulla voglio solo tornare a casa.
Finalmente torna il sonno a lenire la mia noia.
“Ciao! Sono Antonella, come stai oggi?”
Mi risveglio a queste parole, e me la trovo davanti.
Ora però non è più una macchia indefinita e verde, è una bella donna, dai lineamenti fini, occhi nerissimi e vivi, una doccia di riccioli neri raccolti nella solita coda, belle labbra, pelle abbronzata, e qualche lieve ruga di espressione, tipica di chi è abituato a sorridere di continuo.
La tutona verde è vero che appiattisce tutto, ma non posso fare a meno di notare che ha la stoffa è ben riempita all’altezza del petto, rimango esterrefatto.
Era come se avessi rimosso quello che era successo la sera prima, forse l’effetto di quella “dose eccessiva” di antidolorifico, aveva impastato tutto ed ero convinto che fosse solo un sogno.
“Dai! Sorridi! Non hai nulla e ti dimettono! Sono venuta a farti la medicazione ed ad aiutarti a vestirti.” Si comporta naturalmente, come se niente fosse, mi convinco in un lampo che il mio ricordo è solo un mix tra sogno e realtà.
“Grazie, sei gentile…” immagino di non riuscire a far proprio finta di nulla, ma questo è il mio massimo.
Ha un carrellino con tutto il necessario, si volta, va verso la porta, e sparisce.
Dopo meno di un minuto torna, sempre sorridente e chiude la porta della camera.
Io mi tiro su a sedere, puntandomi con le braccia, i movimenti non sono facili e il dolorino non è proprio “ino” quando mi muovo.
Lei prende una sedia, si mette di fianco al letto, e tiratosi vicino il carrellino, armeggia con le regolazioni del letto per abbassarlo alla giusta altezza.
“Quanti anni hai Alessandro?” chiede mentre inizia a preparare il necessario sul carrellino.
“Uhm, faccio 23 anni a marzo.”
“Marzo? sei dei pesci?”
“Beh, credo di si.”
“Credi?”
“Si, beh, non ci sono mai stato troppo dietro a queste cose.”
“Nemmeno io ci credo in fondo, o meglio, non credo a quello che dicono gli altri delle persone e dei segni, solo che mi sono trovo bene con persone di un certo segno e peggio con altre tutto qui.” si volta a guardarmi e mi sorride.
Io non rispondo, ho un anticipo di imbarazzo per quello che mi spetta, adesso credo davvero che l’accaduto della sera prima sia solo un sogno, lei è troppo spigliata e naturale, ma le sensazioni che ho provato sono ben presenti, e sono preoccupato, tra poco solleverà il lenzuolo e mi toccherà…
“Che lavoro fai?”
“Sono sistemista informatico.”
“Ovvero?” mi guarda con aria interrogativa.
“Ovvero? Beh… in parole molto povere, sono un dottore di computer”
“Ah! Davvero?” fa lei con le mani già guantate e lo sguardo sinceramente stupito.
“S-si certo!”
“Ma fai anche interventi a casa delle persone?” sempre più incuriosita.
“Beh, se mi chiamano…” sono preso in contropiede.
“Allora mi devi proprio lasciare il tuo numero di telefono, mio marito fa sempre dei gran casini e poi non funziona più nulla!”
“Va bene, dopo se mi dai un foglio te lo scrivo.”
“No, no, dimmelo pure adesso, ho una memoria eccezionale per i numeri io.” sorride soddisfatta di se stessa.
Gli dico il numero, lei ammutolisce un momento, poi me lo ripete.
“Bene, allora promesso, ti chiamo e vieni a vedere come si può rimettere a posto, ok?”
“Ok…” faccio io, sono sempre più spiazzato dalla sua spontaneità, non sa nemmeno chi sono e mi tratta come un vecchio amico, probabilmente fa così per farmi rilassare, parlare di amenità quotidiane smorza la naturale tensione ospedaliera. Ci rimugino un attimo sopra, e si, credo pure che funzioni.
“Dai, ora fammi fare il mio di lavoro, e poi ti lasciamo tornare a casa dalle tue donne!”
“Eh! Ho la fila sotto casa guarda!”
“Vuoi dire che non sei pieno di spasimanti?” mi chiede.
“Decisamente no, se lo fossi sarei un uomo molto più impegnato!” e sorrido sinceramente anche io questa volta.
Lei si rabbuia un attimo.
“Beh, peccato.”
“Si -faccio io a chiosa- è proprio un peccato… di sicuro per me.”
La battuta sembra divertirla, ma ha già le mani alzate e pronte.
Il silenzio cala rapido quando solleva delicatamente le lenzuola scoprendo con perizia solo la coscia destra, è pelosa, e mi sovviene l’immagine comica di me in posa sexy, completamente fuori luogo.
Infila le mani con calma nel mio interno gamba, andando a premere direttamente sulla slogatura, sussulto un attimo per via della pomata gelida che mi sta spalmando.
“Ti faccio male?” chiede preoccupata.
“No… no, è solo la pomata fredda.” balbetto.
“Tranquillo, col massaggio si scalda e rilassa il muscolo.” fa in tono professionale.
La sua mano si muove decisa e calma, istintivamente allargo la gamba per lasciarla fare in maniera più comoda, lei si alza dalla sedia per lavorare meglio, sporgendosi sul lettino, vedo il suo seno pesante e pieno tirare la stoffa della tuta.
Osservo il suo viso concentrato, gli occhi stretti, si vede che ci mette passione in quello che fa.
Poi mi guarda un attimo, quasi di sfuggita.
Alza con due dita il lenzuolo per non macchiarlo di pomata, e con la mano sinistra sento e vedo, che poggia il palmo sul mio pene, scostando tutto di lato e contemporaneamente nascondendolo con un misto di gentilezza e timidezza.
Ora non mi guarda più in faccia, continua semplicemente il massaggio.
Sono nudo dalla vita in giù, steso tra le ruvide lenzuola di una camera di ospedale con una bell’infermiera, gentile e simpatica, che oltre a curarmi, sta anche tenendo una mano calda sul mio sesso, mentre con l’altra massaggia, nonostante la contusione, in una delle zone più erogene del corpo.
Mi assalgono di nuovo le sensazioni dell’altra volta, di quel delirante sogno che era stata la sera prima, mi accorgo d’improvviso che il mio respiro si è fatto pesante, e al contempo discontinuo. Sento subito quando la mia erezione monta, me ne accorgo per via di quella mano premuta, che invece di allentare la presa o ritrarsi, sembra fare finta di nulla e rimane lì, a premere, addirittura con maggior forza, quasi a voler ingabbiare quello che stava crescendo lì sotto.
Concentrato come sono, mi rendo conto che ha finito il massaggio con un attimo di ritardo, si gira col busto, e con la mano destra vedo che prende delle garze, ma non muove di un millimetro la sinistra.
A questo punto si blocca, è indecisa, con una mano sola non può fasciarmi, la vedo tentennare per qualche lungo secondo.
Poi toglie la sinistra, e la mia erezione, se pur non completa si rivela in tutta la sua evidenza.
Sono oramai andato oltre il limite ultimo dell’imbarazzo. Non parlo, non ci provo nemmeno, che si può dire in un occasione del genere?
Allora non lo sapevo.
Lei non emette verbo, e io cerco di aiutarla, sollevo i fianchi, per far passare la fascia elastica, poggia la garza sulla contusione e poi la copre con il bendaggio, è abile, veloce, in pochi secondi è tutto finito.
Il tutto fatto ignorando bellamente il mio pisello che assolutamente senza vergogna se ne stava lì, spavaldo, quasi completamente eretto, un monumento alla sfrontatezza.
Lei si gira, scosta il carrellino, io rapido mi ricopro con il lenzuolo, alla fine una stilla di pudicizia mi fa cedere.
Si volta verso un armadietto, e prende i miei vestiti, la biancheria, una tuta, gli indumenti che avevo al momento della chiamata dell’ambulanza, i miei non ci sono, e mi sono ben guardato dal chiamarli, si sarebbero preoccupati per una cavolata.
“Dai… ora ti aiuto a vestirti…” parla solo ora, dopo cinque minuti di mutismo assoluto, ma non è spigliata come prima, la vedo quasi impacciata adesso, mentre cerca di rimettere per il verso giusto il mio vestiario.
Prende in mano i Boxer.
Ahia, penso, partiamo subito dal difficile.
Si avvicina di nuovo al letto.
“Dai… Tira fuori i piedi…”
Mentre scosto i piedi lei mi scopre di nuovo, e la mia erezione è sempre lì.
Si ferma. Mi guarda di sfuggita negli occhi, poi tiene lo sguardo basso, solo ora è evidente che il punto della sua attenzione è diventata la mia eccitazione.
Appoggia di improvviso la mia biancheria sul letto vuoto di fianco, poi con passo spedito inforca la porta e la chiude dietro di se.
Mi sento lievemente abbandonato, ma non voglio dare spazio a fantasie fuori luogo, non più di quanto il mio uccello già non faccia per conto suo, cerco di scendere dal letto per recuperare le mie cose, ma appena mi muovo con un pò più di decisione, una fitta mi blocca.
In quel momento lei rientra, richiudendo la porta alle sue spalle e mi guarda.
Sono onestamente in uno stato ridicolo, mezzo fuori dal letto, nudo dalla vita in giù, con una orrenda fasciatura che da come l’idea che mi abbiano riattaccato la gamba all’altezza dell’anca, e l’uccello per aria. Mi domando chi non si sarebbe impietosita di me.
“Stai fermo, ho detto che ti aiuto io!” adesso è quasi risentita.
Mi prende per sotto le ascelle e mi risistema bene nel letto, sfiorando con un gomito il mio uccello, poi si volta, prende di nuovo i miei boxer e si mette in fondo al letto.
“Alza su…”
Io obbediente alzo prima i piedi, poi le ginocchia, mentre lei scorre la stoffa della mia biancheria verso l’inevitabile interruzione.
Si ferma, mi guarda per un attimo, diritto negli occhi.
Sento schioccare l’elastico sulle mie cosce, tanto repentinamente l’ha mollato. Avverto di nuovo la mano che si stringe al mio pene, non è un caso questa volta, ne un sogno, è un atto deliberato.
La vedo avvicinarsi a me, sento il suo seno che si appoggia al mio corpo, e avverto la durezza di quel dolce contatto, è a pochi centimetri dal mio viso e non stacca il suo sguardo dal mio.
La mano si muove lentamente, per saggiare la reale lunghezza della mia asta, per vedere fino a dove si può abbassare il suo movimento, poi risale, con altrettanta calcolata calma, mi sta prendendo le misure, vuole sentire con il tatto quanto può muoversi.
Ha ancora il guanto di lattice, non so se è quello di prima o è un altro, non mi importa, mi ha stupito, e ora mi sta sconvolgendo.
Aumenta il ritmo. Ogni qual volta si abbassa, sento che cerca di scoprirlo tutto, lasciando la cappella assolutamente libera, e le parti più sensibili scoperte e vulnerabili, quando risale invece è deliberatamente più lenta, calcolatrice, sale lasciando scorrere la mano senza interruzioni ma un poco alla volta, e quando si trova al vertice, sento che con un dito passa sopra il filo, premendo in punta, sto letteralmente impazzendo.
Sbuffo, mi contraggo, la mia erezione è al culmine, inizio ad ansimare rumorosamente, lei si avvicina ancora di più a me, quasi sfiorandomi il volto con le labbra, si accosta al mio orecchio sommergendomi con quei riccioli profumati.
“Shhh… questo è per te, goditelo, è tutto per te…” mi sussurra rauca all’orecchio.
Sento in quelle parole, il distinto movimento della lingua, il respiro che si amplifica nel mio padiglione, e il lieve distaccarsi di labbra gonfie e umide.
Il suo petto che respira contro il mio, la sua mano, quasi artistica che si muove oramai libera da inibizioni, su e giù per il mio uccello, il suo respiro affannoso sul mio orecchio.
L’incidente, il dolore, la noia, i ricordi della sera prima, la sua mano fantastica, la sua voce sensuale, il suo seno sodo schiacciato su di me, sono al limite e lei se ne accorge al volo.
Si solleva da me, prende un fazzoletto di carta dalla sua tasca e lo poggia fulminea sulla mia cappella.
Quando vengo è una liberazione, inarco la schiena, contraggo i muscoli di tutto il corpo, mi sollevo quasi dal letto, non mi importa più di nessun dolore.
Il mio io si proietta fuori in quello schizzo all’interno di quel fazzoletto, tenuto stretto dalla sua mano serrata intorno alla mia cappella.
Ansimo per lo sforzo, lei mi carezza i capelli umidi con la mano libera, mi guarda dolce, compiaciuta, quasi avessi compiuto chissà quale impresa.
Sorride, si abbassa e mi sfiora una guancia con le labbra, mentre muove piano piano, nel modo più dolce possibile, la mano sul mio uccello, come se volesse far uscire tutto il possibile e lasciarlo poi, finalmente riposare.
Mi sorride, anche quando si è alzata, vedo che si rigira il guanto di lattice con l’altra mano, sfilandoselo lascia all’interno il fazzoletto in cui mi ha fatto venire. Richiude il tutto come se fosse un palloncino, in modo che nulla possa uscire e poi lo getta nella spazzatura del materiale sanitario.
“Tutto bene?” mi chiede gioiosa come la prima volta che ci siamo visti.
Farfurglio qualcosa.
“Uhm… dovresti sentirti meglio no?” sbaglio o ci vedo una punta di malizia ora nel suo modo di fare?
“Si… ma sono un po… sconvolto…” articolo a stento.
“Per così poco? – e mi guarda un po stralunata – Via via, certo sono lusingata, ma ti basta poco per metterti ko!” mi canzona.
Non rispondo, sono inebetito.
“Ora ce la fai a tirarti su le mutande?” indicando con un dito i miei boxer rimasti ridicolmente a mezza coscia.
Continuo a non parlare, mi limito a tirarli su.
I Pantaloni della tuta non sono un operazione altrettanto piacevole, ma almeno, quasi indolore, si vede le endorfine del mio orgasmo hanno inibito il dolore, ma le scarpe me le deve allacciare lei,
Quando fui pronto, mi porse una stampella per aiutarmi, non ricordavo quando l’avesse portata, ma di cose che non tornavano quel giorno, ne avevo vissute un bel pò.
Mi ricordo che mi accompagnò fino all’ascensore, dopo avermi dato i documenti delle dimissioni, mi sorrise radiosa con quella dentatura limpida sul volto abbronzato.
“Stammi bene Alessandro.” mi disse mentre le porte dell’ascensore si chiudevano.
E in tutta onestà, in quel momento, pensavo che non l’avrei più rivista.
Mi chiamò che erano passate un paio di settimane dal mio incidente.
Forse per troppa riservatezza o, più probabilmente, per evitare di apparire idiota alimentando la leggenda metropolitana della porno-infermiera, non avevo raccontato nulla a nessuno.
In fondo poi non era successo gran ché, magari per qualcun’altro quella masturbazione ospedaliera sarebbe stato soltanto indice e termometro della mia dabbenaggine con l’altro sesso. Oltre al già citato stereotipo che mi avrebbe catalogato senza possibilità di riscatto fra i cazzari.
Insomma, mi ero tenuto per me tutto l’accaduto, e poi, onestamente, non pensavo proprio che mi avrebbe chiamato davvero.
E invece, accadde, cogliendomi completamente impreparato.
“Pronto?” il numero sul display non lo conoscevo.
“Alessandro?” una vocetta squillante.
“Si, chi parla?”
“Sono Antonella, non mi riconosci?”
“…” completamente nel panico.
“Stai scherzando vero?” risentita.
“No, si, cioè, caz.. cavolo, la tua voce al telefono non l’avevo riconosciuta.” nel panico, ma sincero.
“Davvero? Ma secondo me, tu non credevi che fossi così brava a ricordarmi i numeri!”
“Oddio, si, certo, io non riesco a ricordarmi nemmeno il mio a momenti!”
“Ognuno ha delle doti nascoste e uniche!”
“Certo… come stai?” dal panico all’impappinamento.
“Oh, bene grazie e tu? Passata la bua?” trilla la voce con fare un pò infantile.
“Ah? Eh… si si, grazie, tutto a posto, dopo un paio di giorni mi sentivo come nuovo.”
“Sono contenta, senti, ma allora davvero ripari i computer?”
“Eh, si, è il mio lavoro, hai bisogno di qualcosa?” cercando di rientrare nei miei panni.
“Si, te l’ho detto, mio marito è un Attila con questi cosi, non funziona più nulla! Potresti venire domani verso le 15?”
“Domani, alle 15? Spetta che guardo l’agenda…”
“Oh madonna che uomo impegnato… lo sai che nessuno mi risponde in questo modo?” fa canzoniera.
“Eh..? Si, ma è lavoro questo…” imbarazzato.
“Lo so, scherzo, dai, allora?”
“Beh, si, sono libero, dove abiti?”
Mi dice il suo indirizzo, io annoto tutto con cura, e poi le spiego un pò di amenità operative, che se devo portarlo via per lavorarlo in laboratorio doveva fare il salvataggio dei dati e cose simili, lei mi segue con attenzione, e alla fine mi saluta.
“Allora ci vediamo domani!”
“Si, a domani Antonella.”
Attacco e il mio cervello decolla, che faccio? Cosa succederà? Mi salterà addosso? Oppure mi farà quello, questo e quell’altro?
Pochi secondi e sono un turbinio di idee che si inseguono, molte delle quali assolutamente sconce.
Mi struggo al pensiero se questa volta sia lei ad aspettarsi qualcosa, un approccio, un avanche, magari un pò più di spigliatezza e confidenza, in fondo, qualcosina c’è stato fra di noi.
Passano le ore e i pensieri si inseguono annodandosi come corde bagnate dentro la mia testa, sono distratto e assolutamente assente, è quasi un miracolo se riesco a evitare i danni peggiori sul lavoro.
Il giorno dopo mi sono calmato, le poche mie solite ore di sonno hanno portato una lieve di quiete nel mio animo, che lentamente si slega dalle sconcezze e si pone, come al solito, su quell’atteggiamento fatalista che di facciata ammette di essere pronto a tutto, ma dietro le spalle sa bene che lo fa unicamente per pigrizia.
Tant’è che il tempo, inizia a rallentare verso l’una, e mi forzai a fare finta di nulla, sembrò proprio immobilizzarsi alle 14.
Nonostante la mia pervicace volontà di fare finta di nulla, come sempre in questi casi, arrivai con un anticipo quasi imbarazzante.
Non abitava lontano, e dei tre chilometri di strade cittadine non mi accorsi nemmeno, trovai parcheggio praticamente sotto quella che doveva essere casa sua.
Era un quartiere di enormi palazzi, al piano terra negozi e uffici, sopra abitazioni, non condomini di lusso, ma di certo abitazioni da benestanti.
Erano le 14e30 e a me non rimaneva che ammazzare il tempo fumando, credo che quasi finii il pacchetto.
Alle 15 e un minuto suonai il campanello a colpo sicuro, il nome era quello, e avevo avuto tutto il tempo di esplorare tutte le targhe dei palazzi adiacenti per sicurezza.
La sua voce brillante mi arriva distorta dal citofono, terzo piano.
Salgo che deglutisco a fatica, suono alla porta, lei mi apre e sono mezzo di sudore.
Mi si presenta in maniera molto informale, un paio di pantaloni scuri, comodi di tessuto elasticizzato, non stretti, che lasciano immaginare e basta le cosce tornite.
Non è molto alta, non arriva al metro e settanta, io dai miei abbondanti venti centimetri in più la guardo dall’alto. Sopra indossa una felpa larga, di colore azzurro, un immancabile elastico tiene a bada la sua chioma recalcitrante.
E incoronata dai riccioli la sua faccia sorridente con quegli occhi vivi e scurissimi, non riesco a capire se è truccata, ma va detto, che non capivo proprio nulla in quel momento.
Mi fa accomodare salutandomi sempre in maniera confidenziale e gioiosa. Il suo modo di fare non riesce a non portare allegria, me ne rendo conto, è spigliata, diretta e assolutamente felice di vivere, ricordo che questo pensiero mi rimase ben impresso in quel momento.
Era una bella casa, arredata bene, chiara, piena di luce, c’era quella giusta dose disordine che lascia intuire il poco tempo a disposizione per le pulizie.
Mi accompagna nello studiolo, attraversando un piccolo corridoio che separa la zona giorno da quella notte. Sono curioso come un gatto e il mio sguardo vaga libero, si vede il deciso passaggio di almeno un bambino, giochi per terra, vestiti sparsi.
Quando passiamo davanti alla cameretta mi rendo conto che sono in due.
Ci sono due lettini sfatti, ma non sento altri rumori in casa, se non i nostri passi e le nostre chiacchiere.
A dire il vero sono le sue chiacchiere, sembra una mitraglia, non si ferma mai, io seguo a mo di spalla, cercando mettendo qualche “uhm” e “Si, certo” al punto giusto.
Non è che sono distratto, nonostante il mio osservare in giro sono attentissimo, è che sono imbarazzato, come al solito, e non so proprio cosa fare.
Mi viene in soccorso il motivo formale della mia visita. Il mio lavoro prende lentamente il sopravvento mentre mi accende il computer e mi illustra le cose che non vanno, mi siedo alla postazione e faccio qualche piccola verifica di rito, mi rendo subito conto che sarebbe stato più veloce formattarlo che cercare di rimetterlo in piedi con qualche pezza.
“Senti Antonella, qui è un vero disastro, hai salvato quello che ti importava?”
“Beh si, più o meno.” mi guarda un pò esterrefatta.
“La cosa più veloce e conveniente è che te lo porti via e che lo lavori in laboratorio.”
“Ah… e che fai? Cancelli tutto?”
“Si, formatto il disco e reinstallo tutto quanto.”
“Quindi togli tutto-tutto?” mi pare lievemente ansiosa adesso.
“Si, certo, però se vuoi posso fare un ulteriore salvataggio del contenuto e poi mi dici cosa ripristinare.” cerco di trovare una soluzione il più accomodante possibile.
“No! No!” – pare spaventata – “Cancella pure tutto quanto!”
“Sicura, per me non è un problema…”
“Ma scherzi? Sono molto più contenta… Insomma, viene un lavoro migliore no?” è tornata sorridente.
“Si, sicuramente il più conveniente.”
“E non c’è più modo di ritrovare quello che c’era prima, vero?” la sua insistenza sul punto inizia a rimanermi sospetta.
“Beh… un modo lo si trova sempre, ma sono procedure lunghe e costose, e poi quasi mai si ritrovano i dati in maniera leggibile…” cerco di non calcare troppo la mano.
“Va bene allora… prendilo pure.. e per quando me lo puoi restituire?”
Ci penso un poco su, e gli rispondo che prima di un giorno o due non riesco proprio, ho diverse emergenze davanti, lei non insiste nemmeno, non mi chiede un preventivo di spesa, si limita a sorridermi ed annuire.
Dopo dieci minuti mi ritrovo fuori dal portone con il suo computer sotto braccio, in strada, e non so bene nemmeno come ci sono arrivato, mi limito a aprire il bagagliaio e a sistemare l’oggetto.
Mi ricordo vagamente che mi ha offerto qualcosa da bere, ma che ho rifiutato, dicendole che avevo altri appuntamenti, il che era anche vero, ma non so perche, sentivo un forte impulso ad andarmene. Per tutto il tempo era rimasta sempre a distanza da me, mai una moina, uno sguardo di sottecchi, nulla. Mi aveva trattato in maniera gentile, affabile, ma era come se l’accaduto in ospedale fosse successo tra altre due persone.
Uno dei miei difetti maggiori è concedere sempre il beneficio del dubbio al prossimo, così facendo non cerco mai di forzare le situazioni, mi limito a prendere atto delle scelte altrui come inviolabili vagiti di libero arbitrio, e tant’è, faccio lo stesso anche questa volta.
Riparto in auto carico dei miei pensieri e desideri disattesi, e, lo ammetto candidamente, di un certo malcontento dalle parti basse.
Passano le ore, sono quasi le 19, l’ora ufficiale di chiusura era passata da un pezzo, stavo iniziando a riparare il computer di Antonella quando il cellulare suona.
Mi mando a quel paese da solo, di solito lo spengo puntuale alle 18, odio le chiamate di clienti petulanti con le urgenze “notturne”. Però squilla, e il numero non mi dice nulla.
Rispondo.
“Ciao Alessandro, sono Antonella, ti disturbo.” Rimango a bocca aperta.
“No, no, stavo iniziando a fare il tuo di computer…”
“Ma lavori ancora a quest’ora?”
“Solo quando ho molto da fare.” drammatica verità.
“Senti, io sono qui al centro commerciale, e volevo vedere di comprarmi un computer portatile, mi puoi aiutare?” preso un altra volta in contropiede.
“Beh, si certo…”
La disquisizione che segue è atroce, fatta di me che snocciolo dati, numeri, richieste di prezzo e di marche da evitare, sento distintamente che la sto mettendo in crisi. Dopo 10 minuti di strazio mi stupisce per l’ennesima volta.
“Senti, scusa, ma che fai ora? Ti metti davvero a riparare il mio Pc?”
“L’idea era più o meno quella, perche?” genuinamente bovino.
“Come perche? Perche potresti prendere la macchina e venire qui ad aiutarmi!”
“Al centro commerciale?”
“Si.”
“Ma a che ora chiude scusa?”
“Alle 21, mi pare, ce la fai benissimo ad arrivare.”
“Beh… anche si, però…” ingenuo e istupidito dalla sua richiesta mi faccio prendere da una serie di scrupoli.
“Dai, che ti offro la cena poi!” mi sembrava si sentirla sorridere attraverso la cornetta.
“Va bene… ok, spengo e chiudo tutto, il tempo di arrivare.”
“Ok, ti aspetto.”
Chiusa la conversazione mi tramuto in una corda di violino, giro da per tutto, mi assicuro che sia tutto in ordine, o almeno per quanto possibile, saluto gli altri compagni di lavoro e salgo in macchina.
Il centro commerciale è dall’altra parte della città, sono oltre le 19, il traffico è a dir poco inclemente, il terrore di fare tardi mi soffoca, insieme alle immancabili sigarette.
Perche mi avrà richiamato? Davvero voleva solo una mano per scegliere un portatile? Ma se il computer glielo avrei riportato l’indomani? Ma e se invece… no ma che mi metto in testa! Sono stato a casa sua e non è successo nulla, anzi, meno che nulla. Mi auto convinco che lo scopo della telefonata sia solo quello manifesto, sono bravo in queste cose, talmente bravo che quando parcheggio sono tranquillo e quasi immemore dei trascorsi.
Ci troviamo facilmente, mi aspettava ad uno dei bar interni del centro commerciale, mi saluta con uno dei suoi sorrisi solari e io ricambio con la mia solita felice imbranataggine.
Lei è vestita molto informale, una maglia attillata a collo alto nera, un giubbino di jeans, un paio di pantaloni comodi e scarpe chiuse con un tacco non troppo alto, un filo impercettibile di trucco, solo due orecchini sobri.
Porta la coda, con i capelli ben tirati indietro, un bel gossy sulle labbra e quel magnifico seno che sbuca impertinente dal giubbino.
Mentre la mitragliatrice delle sue chiacchiere riprende il suo fuoco di sbarramento, ho l’occasione per la prima volta di osservarle per bene i fianchi. Ha anche un bel sedere, non piccolo, equilibrato di certo al petto, e, nonostante i pantaloni, tutt’altro che aderenti, mi rendo conto della gradevole forma che assume la zona di congiunzione tra le cosce e i glutei.
“Ehi? Ci sei?” mi scuoto dalle mie osservazioni con i suoi occhi neri puntati addosso.
“Eh? si, son qui…” mi sento come se mi avessero colto con le mani nella marmellata.
Antonella rimane per un attimo a guardarmi con gli occhi socchiusi, poi mi prende per un braccio e sorridendo mi trascina davanti alla lunga scelta dei computer portatili.
Ricomincia il valzer della scelta.
Questo qui no, ecco questo non è male, si ma costa troppo, che ne dici di questo? Ma è rosa! Appunto è carino, ma costa più di quello di prima, vero, ma questo qui mi piace.
Andiamo avanti per mezz’ora buona. Lo spazio dell’informatica è semivuoto, in tutto questo mega store tecnologico saranno rimasti nemmeno 30 clienti, e altrettanti addetti annoiati e stanchi, vogliosi solo di vedere l’orologio scoccare l’ora di chiusura.
Le luci sono brillanti e stordenti, la musica di sottofondo appare ora fin troppo alta, senza il contraltare del chiacchericcio dei visitatori, gli specchi posti sulle colonne per ingannare la vista e far sembrare l’ambiente più spazioso di quello che è, rimandano la nostra immagine, di lei che mi ha preso a braccetto e mi scarrozza in giro per tutti i possibili modelli.
Ma c’è poco da dire, quello rosa è quello rosa. Come spesso avviene la prima scelta è quella che conta e lei non faceva eccezione, non era poi un cattivo modello, anzi, solo che a poco di meno c’era un pc senz’altro superiore… che però non era rosa. Vabbè i soldi sono suoi e quindi è anche giusto così.
Paga, espletando tutte le formalità del caso, firma sulla ricevuta della carta di credito, mostra documento e via così, siamo fuori dallo store, e mi rendo conto che sono un pelo stanco, sono più delle otto e non ho certo avuto il tempo di farmi ne una doccia ne di cambiarmi, me ne rendo conto solo ora e mi sento un pò in imbarazzo.
Lei è raggiante, contenta come se fosse riuscita in chissà quale impresa.
Mi sta accanto dondolando la borsa di nylon gonfia dell’acquisto e il suo profumo fresco mi accompagna.
In tutto il centro commerciale sono rimasti in pochi, e sono quasi tutti al piano dei ristoranti, chiudono più tardi quelli.
“Allora, adesso per ringraziarti della tua pazienza… cosa preferisci?” sorride con un lievissimo ammiccamento.
“In che senso?” si vede che sono imbarazzato?
“Da mangiare! Dove vuoi andare per cena?” mi chiede inforcando le scale mobili e girandosi dall’alto del gradino superiore verso di me.
“Scegli tu, per me va bene tutto…” parlo al suo seno che mi sta a pochi centimetri proprio di fronte agli occhi.
“Eh no! Te l’ho chiesto prima io!” canzona come una bambina.
“Beh… se scelgo io, che ne dici del giapponese? Questo qui non è certo il migliore, ma nemmeno il peggiore che c’è in città”
“Uhm… va bene, ma niente salsina verde piccante, va bene?” quasi preoccupata
“Ok, ma se la prendo io ti disturba?” rispondo alla sua tetta destra.
“Se non ti dispace si, mi da noia anche solo l’odore”
“Ma… vabbè, posso sopravvivere anche senza” stavolta alla tetta sinistra.
Non sto a sindacare sul fatto che la salsa in questione non ha praticamente odore, non mi sembra proprio il caso.
La scala mobile finisce, e lei si rimette a camminarmi di fianco, mai troppo distante, ma nemmeno troppo vicina, sempre ad una spanna, quasi una distanza calcolata.
“Ci sediamo al Sushi bar?” i nastri che trasportano le pietanze mi hanno sempre fatto impazzire.
“No, non mi piace stare sui panchetti alti. Andiamo lì.” e mi indica i tavolinetti attaccati alle pareti e divisi da separé di legno.
“Va bene.” faccio io neutro.
Ordiniamo un qualche pietanza sparsa, senza alcun tipo di ordine, come fanno tutti gli stranieri senza alcuna idea della cultura culinaria del paese che stanno per assaggiare, incuriositi forse più dal nome e dagli ingredienti che dal sapore che avrebbero potuto inspirare.
Da seduti sembra che la sua parlantina scenda un pò di frequenza, non smette di parlare, ma sembra farlo più lentamente, con un evidente rilassatezza. Mi guarda dritto in volto, non capisco mai se mi sta semplicemente guardando nella figura o diritto negli occhi. Se lo sta facendo è brava a non farsi notare. Appena arrivano le bevande ci accomodiamo un po meglio, io mi tolgo di tasca il cellulare e lei si gira per togliersi il giubbino.
Il movimento è rapido quanto basta per non dare da intendere che sia tutto calcolato, ma la movenza è da togliere il fiato, sporge il petto in fuori, mettendo in risalto ancora di più quel magnifico seno, le maniche le scendono lungo le braccia, e girandosi appena su un lato si sfila con indifferenza la giacca. Ruotando appena il busto tende la già tesa stoffa del maglioncino, appendendo allo schienale della sedia il giacchetto, si volta e mi sorride.
Ero rimasto letteralmente stregato da quella visione.
“Ehm… mi scusi un attimo? Vado a lavarmi le mani” faccio alzandomi.
“Certo!” e mi guarda allontanarmi dal tavolo.
Il bagno è a pochi metri, aperta una porta, un corridoio di qualche metro immette su alcune porte, le prime due sulla destra recano gli inconfondibili simboli stilizzati di una lei e di un lui, l’ultima porta, è preclusa da una targhetta “Privato.”
Entro nel bagno, mi guardo allo specchio, non mi sono mai piaciuto particolarmente, ma ora non mi sembro nemmeno passabile, mi lavo le mani, mi sciacquo il viso, mi asciugo con le salviette di carta, continuo a guardarmi allo specchio. Scuoto leggermente la testa. E mi chiedo ad alta voce senza nemmeno rendermene conto.
“Ma che ci sono venuto a fare qui io…”
Apro la porta del bagno che da sul corridoio e me la ritrovo davanti, così come l’avevo lasciata prima al tavolo, senza giacca, con la stoffa aderente del maglioncino tesa da quel seno imperiale, la vita più stretta dei fianchi, la cintura che stringe i pantaloni beige, mette in risalto il ventre piatto.
Mi fissa negli occhi per un attimo poi mi mette una mano sul petto e mi spinge in dietro nel bagno, lei mi si butta addosso, chiudendo la porta dietro di se, e assicurandosi che la serratura scatti con l’altra mano dietro la schiena.
“Ci sei venuto per questo…” mi sussurra decisa infilandomi la lingua in bocca.
Si spalma addosso al mio corpo, spingendomi addosso alla parete, mi spreme sul petto il suo seno duro.
Le labbra si incollano alle mie, aprendosi e facendo scivolare la sua lingua dentro alla mia bocca.
Il primo momento di stupore passa quando sento una sua coscia infilarsi tra le mie gambe. Rispondo al suo bacio con foga, mettendole le mani sui fianchi la stringo ancora di più a me, mentre le lingue sono annodate come due serpenti in amore. Sento il suo respiro sulle mie guancie, le labbra soffici e dolci che si sciolgono con la saliva e i movimenti della bocca. La sua dolcissima lingua si ritrae leggermente, invitando la mia a seguirla in una strana danza di corteggiamento. Le vado dietro per non perdere il contatto tra le nostre papille gustative, la inseguo fino a quando la mia lingua non è completamente dentro la sua bocca, le sue labbra si stringono intorno al mio muscolo, serrandolo con dolcezza, sento che mi sta succhiando e stuzzicando contemporaneamente con la sua.
E’ un bacio umido, vischioso, e apparentemente lungo. Il mio uccello reagisce prontamente a quel simulacro di pompino iniziando la lunga marcia verso l’erezione, appena se ne accorge preme ancora di più la sua morbida coscia, io la serro ancora di più tra le mani, strizzandole letteralmente i fianchi.
Non resisto, voglio sentirla ancora di più, e faccio scendere le mie dita verso i suoi glutei. A quel punto lei si stacca d’improvviso allontanandomi con forza, lo schiocco del risucchio della mia lingua uscita violentemente dalla sua bocca ha un che di comico.
Mi tiene le mani appoggiate al petto, le braccia completamente estese per tenermi lontano.
“Basta così… ” – fa come a chiudere la cosa. – “Adesso, guarda fuori, dal bagno, se non c’è nessuno in corridoio.”
Basito faccio cenno di si con la testa, ci scambiamo di posizione, lo spazio non è molto. Apro timidamente la porta, fuori, il corridoio è vuoto.
“Non… non c’è nessuno fuori…” Mi schiarisco la voce, mi rendo conto che sia quasi tremula.
Antonella non dice nulla, esce scostandomi di lato e si infila immediatamente nel bagno delle donne, io mi riprendo un poco sciacquandomi la faccia.
Quando esco nel corridoio lei è ancora chiusa dentro, tentenno un attimo e poi me ne torno al tavolo.
Lei arriva dopo pochi minuti, nessuno dei pochi avventori sembra aver capito nulla, in effetti, per quanto intenso il tutto è durato veramente poco.
Sorride, come sempre radiosa, si siede, come se non fosse successo nulla, il glossy sulle labbra non sembra aver assolutamente risentito dell’incontro con le mie di labbra.
“Tutto bene?” mi fa lei, quasi retorica.
“Si e no, insomma, non me l’aspettavo…” rispondo io, con un tono di voce basso.
“Sei sicuro?” – Sorride – “Secondo me qualcosina te l’aspettavi no?”
“Cerco di non dare nulla per scontato…” dico sinceramente.
“Beh, senti, te l’ho dato così ci siamo tolti il pensiero.” fa lei risoluta.
“Il pensiero?” ripeto un belante.
“Si, si, un bel bacio come si deve, così subito, senza tentennamenti, così hai avuto tutto quello che potrai mai avere da me.” dice sfrontata e bellissima.
“Addirittura così? Dico, sicura di te vedo…”
“Ma si, certo, cosa posso fare se no? Sono una donna sposata io, non posso mica andare con il primo che capita!”
“Questo lo capisco, davvero…” non troppo sicuro delle mie parole.
“Ma…?” dice lei in attesa di una mia continuazione.
“Ma, nulla, sono un po stupito ecco.”
“Non ti è piaciuto?” e mi guarda corrucciata.
“Assolutamente no!” – recupero io quasi terrorizzato. – “E’ che non capisco…”
“E’ perche sei un bimbo!” e ride un maliziosa.
Rimango in silenzio a guardarla.
“Te lo ripeto.” – fa lei -“Sono un donna sposata, e per giunta madre di due bellissimi bambini.”- e sorride genuinamente felice mentre pronuncia le ultime due parole. – ” Non posso, e non voglio, scopare col primo che capita!”
Non chiedetemi il perche, ma sentirla pronunciare quella prima mezza sconcezza mi accese come un fiammifero.
“Si, va bene.” – faccio io. – “Ma cos’è questo allora? Un test? Una prova?”
Lei sorride e mi stende con un semplice. – “Vediamo un po cosa è, che ne dici?”
Annuisco, incapace di comprendere pienamente la piega degli avvenimenti, e assolutamente inerme dinanzi alla sua prorompente personalità.
Il computer stava candendo sullo scaffale delle macchine da riconsegnare da almeno un paio di giorni.
Tanto per cambiare non sapevo cosa fare, trovavo assolutamente ostico uscire dal mio stato di ignavia, tra tutti i pensieri che mi frullavano in testa quello più sicuro era che, nonostante tutto, quell’oggetto avrei dovuto riportarglielo.
Prima o poi.
Forse meglio poi, lasciare scorrere uno scorcio di tempo bastante a chiarirmi le idee ed essere meno macchietta in quella storia, capirci qualcosa.
Meglio prima, almeno mi toglievo il pensiero, scucirmi dal lato interno degli occhi quelle immagini, dalla lingua la patina della sua dolcezza e dai polpastrelli il senso tremulo di quella carne bollente.
Il lavoro mi forzò fuori dal tutto, stavo cambiando ruolo all’interno dell’azienda, non mi sarei più occupato delle riparazioni spicciole e della gestione dei clienti privati, dovevo chiudere tutte le pendenze, per lasciare meno problematiche possibili a chi avrebbe preso il mio posto.
Perfetto, la chiamo.
Il panico arriva come una banda di clown acrobatici e ubriachi a farmi impazzire il cuore.
Decisamente non ci siamo, mi calmo con una sigaretta.
Peccato che le sigarette nei pacchetti siano poste in verticale, l’espressione “quando vidi il fondo del pacchetto” non rende l’idea.
Ma tutti i fumatori sanno, che per ogni pacchetto, arriva il momento in cui i cilindri dei filtri si fanno come trasparenti all’interno dell’involucro di cartoncino, quello è il segno del definitivo declino di quella rata di vizio.
Eppure l’avevo comprato da poco.
E’ tardi, son quasi le sei di sera, meglio, decidersi, in fondo la chiamo per lavoro, mica per altro.
Sono un mentitore in saldo.
Il suo cellulare suona.
Una, due, tre volte.
La quarta non arriva nemmeno, la sua voce squillante mi risponde.
“Ciao Alessandro! Come stai?” allora non lo credevo possibile, ma lei si ricordava davvero i numeri di telefono a mente, e, a detta sua, il mio non l’ha mai memorizzato nel cellulare.
“Ciao Antonella, sto bene dai, sono sempre di corsa dal lavoro…” cerco di prendere fiato e lanciarmi senza paura nel mio ruolo professionale.
“Non dirlo a me, sto andando a montare di turno per sostituire un collega in mutua.”
“Eh, succede, senti… ” – Pausa – “Il tuo pc è pronto, quando te lo posso riportare?”
“Ah, già fatto? Pensavo che ti ci volesse di più.”
“Un po ci vuole, ma adesso è pronto.” In realtà era pronto il giorno dopo dell’avventura al centro commerciale, ma omisi bellamente la cosa.
“Senti, io stacco alle 1 e domani ho lo smontante. Che ne dici se facciamo verso le 15?”
“Si certo, va bene, alle 15 a casa tua, ah ecco, me lo stavo scordando il conto è di XX euro.”
“Va benissimo! Ora ti lascio perche in corsia non possiamo portare cellulari, ci vediamo domani.”
Farfuglio un saluto, poche battute quasi informali e la tensione mi ha logorato.
Il giorno dopo pare una ripetizione dell’ultima volta, solo che mi sento un più inebetito.
Suono al campanello con i miei soliti 5, studiati e faticosissimi, minuti di ritardo.
Prendo l’ascensore e mi presento davanti alla porta di casa sua con il computer sotto braccio.
Lei mi apre con una tuta grigia addosso, i capelli non sono in ordine, ho quasi paura di averla svegliata.
“Scusami.”
“E di cosa?” faccio io.
“Sono un disastro, abbiamo avuto un turno d’inferno, un’emergenza dietro l’altra, alla fine mi è toccato fare anche due ore di straordinario. E per giunta ho dormito pochissimo poi. Per stare sveglia mi sono fatta una marea di caffè, e così, addio nottata.” parla spedita mentre mi fa entrare.
“Dai non ti preoccupare, ma sul serio, se vuoi che torni più tardi o un altro giorno, per me non è un problema.” sincero, odio disturbare la gente a casa.
“Guarda che sono io in difetto non te.” – Sorride. – “Se eri un disturbo te l’avrei detto ieri.”
Annuisco mentre la seguo.
La casa sembra un più in ordine dell’ultima volta, ma anche a sto giro, non c’è nessun altro, la cosa mi incuriosisce, ma non dico nulla, non sono fatti miei.
Non riesco a non notare il computer portatile rosa sul tavolino del salotto, accesso con il salvaschermo di windows che gira.
Arriviamo nello studiolo, sistemo il computer, collego tutti i cavi, lo riaccendo e le faccio vedere il funzionamento. La formalità lavorativa mi aiuta a non cadere in imbarazzanti silenzi, e lei contribuisce con una serie di domande futili e leggere.
E’ una persona sveglia, non avevo avuto modo di accorgermene l’ultima volta, almeno non informaticamente parlando, però si destreggia bene, e dopo qualche minuti mi rendo conto che sto sprecando il fiato.
Mi paga, firma lo statino di intervento e le lascio la ricevuta, ci avviamo automaticamente verso la porta di uscita, noto che questa volta non mi offre nulla, ma non riesco a darci peso, se ha fatto la nottata in bianco mi immagino che non veda l’ora di ributtarsi a dormire.
La saluto sul pianerottolo mentre chiamo l’ascensore, lei ricambia con un sorriso e chiude quasi subito la porta, nessuna moina, nessun accenno da parte sua, e certo, nemmeno da parte mia.
Mi era sembrata quasi distante, fredda, qualcosa che non avevo mai visto in lei, ma magari era solo la stanchezza.
La stanchezza si, ma era inutile nascondere che ci ero rimasto male, non che mi aspettassi approcci o che, ma almeno la solarità delle altre volte si, era un calore che sembrava dare dipendenza, e in quel tragitto pensieroso, tra casa sua e il mio successivo impegno, per la prima volta me ne resi conto.
Come spesso mi capita, quando vedo comportamenti strani nelle persone che mi interessano, piccole distanze, o semplici variazioni dalla loro mia presunta normalità, reagisco allontanandomi, prima lasciandole scivolare via dalla mia testa e poi dal resto delle cose.
Così feci anche questa volta, volontariamente, per un inezia, voltai le spalle, pure se metaforicamente e unicamente nei miei pensieri, ad Antonella.
La giornata scivolò via con le inutili tortuosità del lavoro e degli impegni quotidiani.
Ricordo che era un venerdì, la sera mi preparai per una cena con amici di vecchia data, organizzata da tempo. Feci una bella doccia calda e mi cambiai, mettendomi a mio modo in tiro, il che equivaleva a vestirmi completamente di nero, per tirarmi un po su di morale.
Il primo messaggio mi arrivò verso le 22, ma me ne accorsi quasi un ora dopo, era laconico e sembrava riallacciarsi ad una conversazione che non avevamo mai avuto, aprendo un baratro sui suoi sottintesi.
“Davvero non hai guardato nulla di quello che c’era nel computer?”
In un primo momento mi maledissi per l’ennesima volta, non avevo spento il cellulare di lavoro, e non solo, me lo ero portato pure dietro! Le abitudini giocano strani scherzi. Dopo poco però mi resi conto di chi me lo aveva inviato. Nemmeno io avevo memorizzato il suo numero, una sorta di perversa scaramanzia.
“Certo che non ho guardato nulla. E’ il mio lavoro. Stai tranquilla.”
Ero sincero, non mi è mai interessato farmi i fatti degli altri, figuriamoci i suoi, e poi mi aveva garantito che non c’era nulla che le interessava salvare.
Invio l’sms sicuro che l’eventuale risposta sarebbe giunta, forse, solo il giorno dopo.
Quando il mio cellulare vibra isterico sul tavolo, nessuno se ne accorge, siamo in cinque, e la terza bottiglia di vino rende le chiacchiere più sguaiate e ridanciane.
Sono passati solo 10 minuti.
“Non ci credo, non hai nemmeno preso il mio contatto del programma di chat?”
Sorrido.
“Ti ho detto di no, non mi piace farmi i fatti degli altri.”
Mentre lo invio mi rendo conto che potrei aggiungere qualcosa, e quindi le scrivo di seguito.
“Ma se me lo vuoi dare non ti dico certo di no.”
Lo poso di nuovo sul tavolo, uno dei nostri si è lanciato una comica descrizione del primo incontro prematrimoniale della diocesi, stava per provare l’ebbrezza del matrimonio.
“clarabella@pippopluto.com”
Asciutta e stringata, si limita all’essenziale che è poi tutto.
“Grazie! Lo memorizzo e ti contatto quando sono collegato.”
A ruota me ne arriva un altro.
“Mi raccomando, non scrivere nulla di strano però! Non è detto che ci sia io al computer.”
“Ricevuto forte e chiaro.”
Nel bel mezzo della mia risposta mi arriva un altro suo sms, è evidente che la conversazione si stava sovrapponendo.
“Bravo, grazie, ma mi raccomando. Ma dove sei? Ti sto disturbando?”
“Sono fuori a cena, ma non mi disturbi affatto, è una cosa veramente noiosa.”
Provo la carta della menzogna, la cena era divertente, ma scambiarmi sms con lei era sicuramente molto più intrigante.
“Se è veramente una noia vieni via no? Io non resisto mai alle cene noiose.”
Sogghigno.
“Non tutte le cene possono essere divertenti come quelle al giapponese.”
Lancio una frecciatina, spero non troppo goffa. L’alcol e la mediazione del mezzo tecnologico mi rendono più sicuro.
C’è un piccolo intermezzo, qualche minuto di scarto tra il mio ultimo messaggio e la sua risposta, cerco di riimmergermi nell’atmosfera oramai completamente goliardica della tavolata senza molto successo quando l’ennesima vibrazione, mi fa quasi scattare in piedi, qualcuno dei miei amici se ne accorge, sogghigna, chissà cosa credono.
“Appunto, molla tutto e accompagnami a mangiare qualcosa, ho una fame da lupi e non ho voglia di cucinare.”
Se mai avessi tenuto il punteggio, e se tra me e lei ci fosse stata una assurda gara a chi riesce stupire più l’altro, sarei stato sotto in maniera tennistica.
“Dove e quando?”
L’essere alticcio ha i suoi vantaggi.
“Ristorante Tizio e Caio, in via tal dei tali a vattelappesca. Il tempo di arrivare, il primo che arriva prende il tavolo.”
Non so bene se ridere o piangere, il posto che mi ha indicato, per me assolutamente sconosciuto, è fuori città, a circa 30 chilometri, mi ci sarebbe voluto un pochino per arrivare almeno in paese, poi avrei dovuto chiedere, ma come si dice? Chi non risica non rosica!
Mi alzo in piedi adducendo come scusa, che avevo un impegno improvviso e non prorogabile, il resto della compagnia si divide tra chi mi insulta e chi sogghigna, non ci vuole una grossa immaginazione per capirci qualcosa.
Lascio a occhio e croce i soldi che avrebbero dovuto coprire la mia quota e mi fiondo in macchina.
E’ quasi mezzanotte, e la strada statale è tediosa, sono onestamente eccitato ed elettrizzato all’idea di vederla, e poi a quest’ora di notte, il tutto si tinge di piccante.
In meno di mezz’ora sono al paese, girello a passo d’uomo per le strade sperando di trovare un qualsiasi appiglio per il ristorante o almeno per la via, mi vengono in soccorso dei ragazzi che escono da un pub.
Poche e semplici indicazioni, sono molto vicino.
Quando parcheggio ed entro le locale saranno mancati pochi minuti alle una, ma il posto, luci soffuse e musica di sottofondo è ancora affollato. Richiusa la porta d’ingresso mi ritrovo al piccolo bancone con il cellulare in mano, non avevo visto il messaggio.
“Sono al tavolo in fondo.”
Mi avvio spedito verso il fondo della sala, il colore predominante è il blu, il che rende tutto un pò nauseante, lungo le pareti sono sistemati tavoli resi appartati da dei separé in legno, molto coprenti e alti, pendono semplici e deboli lampadine su ogni tavolo, sovrastate da stilizzati piatti di metallo.
La trovo lì dove mi aveva detto. Mi sorride radiosa, e le nebbie del giorno vengono dissipate dal suo solito calore.
E’ seduta, e non le dò il tempo di alzarsi, veste una semplice camicia bianca liscia, maniche lunghe senza fronzoli, il colletto a punta alzato e i capelli, stavolta annodati con un piccolo chignon, lo lambiscono.
Ha solo il colletto slacciato, come al solito il suo seno le tende qualsiasi cosa indossi, e non manco di notare, come i piccoli bottoni di madre perla che tirano l’occhiello siano una vera e propria istigazione a delinquere.
Per il resto noto solo che porta una gonna, intravedo le ginocchia scoperte e un paio di stivaletti con un tacco basso, ripiegato sullo schienale della sedia c’è un leggero cappotto nero.
“E’ molto che aspetti?” esordisco ricambiando il sorriso.
“No, dai, nemmeno 10 minuti, avevo solo paura che ti fossi perso.”
“Beh, in effetti ho penato un pò per trovare questo posto.”
“Onestamente credevo che lo conoscessi.” – sinceramente stupita. – “Altrimenti ti avrei detto altrove… ma potevi dirmelo no?”
“E perche mai? E’ carino, e abbastanza eccentrico da piacermi.” tutto vero.
Lei si apre nel suo solito sorriso.
“Scusami per oggi pomeriggio, sarò stata una visione tremenda!”
“Ma no! Eri stanca, mica si può sempre essere al 100 per 100, guarda che si dorme tutti sai?” mi sento arzillo e le rispondo a tono.
“Si, vabbene, ma non ti ho offerto nulla, nemmeno un bicchiere d’acqua.”
“La smettiamo? Facciamo così, mi hai invitato fuori, e me lo puoi offrire adesso.” faccio il sornione su un bicchiere d’acqua, ma da qualche parte si deve pur iniziare no?
Non avverto nulla di nuovo, lei è tornata quella di sempre, parla a ripetizione, mi spiega che dopo che me n’ero andato si è messa sul divano ed è crollata dal sonno, si è risvegliata verso le otto di sera, e tra una cavolata e l’altra si era accorta che era tardi, aveva fame e non aveva voglia di cucinare, ma questo lo sapevo già.
La interrompo.
“Scusa se te lo chiedo, ma tuo marito non dice nulla che esci a quest’ora?” la osservo, per una volta la prendo in contropiede io.
“No, non dice nulla perche non c’è!” e sorride genuina.
Sto zitto e la guardo interrogativo.
“Vabbene, allora ti spiego, è in ferie, e ha portato i bambini dai suoi che abitano al Nord. Lui lavora per una grossa azienda ed è responsabile di produzione, è continuamente in turno per controllare la catena di montaggio e ha le ferie scaglionate con i suoi parigrado.” Lei mi guarda come se questa descrizione mi risolvesse tutti i dubbi.
“E allora?” che, invece, ci avevo capito poco e nulla.
“E allora le nostre ferie sono sempre sfasate!” – dice divertita come se raccontasse una barzelletta. – “Di solito riusciamo a far coincidere una settimana durante l’estate ma non di più, quindi, ognuno in ferie da solo o con i bambini, almeno per ora, il prossimo anno andranno a scuola e non più all’asilo quindi credo che i problemi e i viaggi solitari aumenteranno.” mima con enfasi alla parola solitari.
“Ecco, ora ho capito.” soddisfatto di aver dissetato la mia curiosità.
“E tornano tra un paio di giorni.” mi guarda diritto negli occhi.
Non dico nulla, il suo sguardo è troppo intenso, per la prima volta mi rendo conto di avere la possibilità di contemplarla, è molto bella, bellissima, ha fascino e personalità da vendere, e dei maliziosissimi bottoncini di madreperla che sembrano saltare via ogni qual volta che respira.
Sembra far finta di nulla lei, parliamo di noi, per la prima volta ci presentiamo l’uno a l’altra, nessuna disquisizione filosofica sui nostri io interiori, ma piccoli scorci di costa per far rendere conto l’altro che il mare è bello amplio.
Io ordino solo da bere, avevo già mangiato a sazietà, lei si limita a una caprese leggera accompagnata da vino bianco.
Sono le due e finalmente il locale si svuota, si legge lo stanco e preoccupato sollievo dei camerieri, consci di essere soltanto a metà dell’opera.
Usciamo dal locale e fa discretamente freddo, l’autunno si sta affermando in uno striminzito inverno.
Facciamo quattro passi distratti continuando a parlare per lo più dei nostri lavori, degli stress che ci portano, delle difficoltà più evidenti e delle parentesi divertenti che riusciamo a ritagliare.
La strada è vuota, non passano macchine, la mia è parcheggiata in un piccolo piazzale sterrato a poche centinaia di metri.
Solo quando siamo abbastanza distanti dal locale mi prende sottobraccio e si accoccola a me, facendo sprofondare il mio gomito destro, nella felice morbidezza del suo petto.
Cala il silenzio e il passo si fa più lento, immagino che anche la sua macchina sia parcheggiata lì, e quindi mi faccio trascinare dall’ondeggiare dei nostri passi senza dire nulla.
Quando siamo davanti alla mia macchina, prendo un po di coraggio, la scosto lievemente e mi chino col viso verso di lei per cercare di baciarla.
Lei rifugia il viso sulla mia spalla.
“Non qui…” sussurra.
“E dove allora?” mi ritraggo ad osservarla.
Lei esce dal suo angolo e maliziosa mi sorride.
“C’è tanto tempo, mi devi portare fino a casa!”
“Come?” quasi grido per lo stupore.
“Perche? ti dispiace?” e mi guarda seriamente preoccupata.
“No, è che… pensavo, ma come hai fatto a venire fino a qui?”
“Esistono i Taxi sai?” si scosta e si mette le mani sui fianchi con fare accusatorio.
“Ma avrai speso una fortuna!”
“E allora? Non posso spendere i miei soldi come più mi pare e piace?” con una punta di rabbia.
La guardo, per un attimo non dico nulla, prendendomi il tempo per pensare.
“Ma certo che si, ma insomma, e se io non fossi venuto, o all’ultimo momento ti avessi dato buca?”
“Ma sei arrivato no?” sempre un po irritata.
“E’ evidente!”
Si volta verso la macchina.
“E’ questa la tua?” avviandosi verso il lato del passeggero.
Io annuisco nel chiaro scuro creato dai radi lampioni.
“E poi…” – fa lei mentre apro l’auto. -“Se non giochi mai alla lotteria, rischi di morire povero no?” e mi fa l’occhiolino.
Salgo in auto sconfitto per l’ennesima volta, la donna che si sistema sul sedile a mio fianco è semplicemente aliena da quanto riesce a stupirmi, ma questa è tutt’altro che una novità. La realtà, cristallina, è che non riesco nemmeno a intravedere il fondo del barile.
Lei si sistema, sfilandosi il cappotto, allacciandosi la cintura e sistemandosi la borsetta di fianco a ridosso della portiera. Sempre con movimenti lenti, quasi calcolati, sembra prendere possesso dell’area con estrema naturalezza.
Ha una gonna nera, di stoffa opaca, non troppo lunga, fasciante, che adesso le scopre abbondantemente le ginocchia, noto adesso, il lungo spacco centrale, accavalla le gambe, sfiorando con la punta degli stivaletti il porta oggetti, si sente a suo agio.
Porta delle calze scure, con un disegno appena accennato di rete, non sono sicuro, ma mi sembrano, o semplicemente spero, che siano autoreggenti.
Metto in moto e parto, guido speditamente, ma non veloce, verso la statale, con lei che mi indica dove svoltare.
Anche la statale è vuota a quest’ora, diritta e solitaria come una retta si perde nel piattume della campagna intorno alla città. E’ buio, e ci sono soltanto le luci della strumentazione a rischiarare debolmente l’abitacolo.
Quando sento la sua mano che si poggia sulla mia coscia sinistra, faccio un sospiro di sollievo, ero molto imbranato con le donne allora, e avevo paura di aver rovinato tutto con quel mio tentativo di approccio.
Non stringe le dita, ma si limita ad accarezzarmi distrattamente la gamba con la mano aperta, le sue unghie laccate di rosso, ben curate senza essere lunghe riflettono le rare luci esterne che sfrecciano via ad appena 70 chilometri orari.
Mi volto a guardarla, lei pare distratta, rivolta fuori dal finestrino ad osservare la campagna con le sue interruzioni urbanizzate.
Continua ad accarezzarmi la gamba, deglutisco nervoso.
Istintivamente prendo una sigaretta e me la infilo in bocca, solo ora mi rendo conto che a lei potrebbe anche dare fastidio.
“Ti disturba se fumo?” biascico con la sigaretta che penzola tra le mie labbra.
Antonella si volta, mi sorride affabile.
“Assolutamente no, sempre che dai da fumare anche me.”
Mi volto a guardare la strada, mentre con le mani frugo nel pacchetto.
“Tranquillo, credo di trovarne una da me.” sentendo che me lo toglie dalle mani.
Il lampo dell’accendino mi limita per un attimo la vista e alla prima boccata di tabacco mi rendo conto che lei si è sporta leggermente verso di me, la mano si è spostata sulla mia patta e, rapida, la sta aprendo.
Il tempo inizia a scorrere lentamente e mentre inalo per lo stupore altro fumo, lei sue dita si mettono a solleticarmi sui boxer, alla ricerca di un’apertura.
La trovano, e la vampata di calore che mi assale è solo il riflesso della sensazione della sua mano bollente che stringe il mio uccello.
Lo tira fuori dalla strettoia che sono i miei pantaloni mentre guido, sento le dita avvolte intorno alla mia asta appena turgida, e l’immancabile dito che solletica la cima della cappella.
Stiamo in questo stato per un quarto di sigaretta, con la sua dolce mano che ha iniziato un lento e dondolante moto, su e giù scosso talvolta dalle imperfezioni della strada. Apro leggermente il finestrino per buttare la cenere e la guardo, lei è voltata verso di me, con la guancia schiacciata sull’appoggia testa che mi osserva silenziosa, la luce delle occasionali luci si riflette sui suoi occhi neri.
L’erezione, che monta rapida, toglie senso alle mie inibizioni e rimango in attesa, fumando nervosamente.
“Non è male come sigaretta, adesso vediamo di accenderla però…” squittisce lasciva e, slacciandosi la cintura di sicurezza si china con la testa davanti al voltante, prendendomi la cappella tra le labbra.
Mi sento serrato dentro la sua bocca, mentre con la mano continua il lieve massaggio sulla parte bassa della mia asta, avverto il respiro pesante sul mio inguine e l’immobilità della sua testa è scosso solo dalle penetrazioni causate dalle buche.
Succhia leggermente, piano, delicata come se stesse gustando un gelato, la punta della lingua preme in continuazione sul vertice della cappella, insinuandosi lentamente nel mio piccolo foro.
Sento che ho raggiunto una dimensione notevole, l’eccitazione mi ha fatto sollevare il piede dall’acceleratore, e il cercare di mantenere la concentrazione sulla guida fa si che sia lei a gestire qualsiasi cosa.
Inizia a succhiare con più forza, mentre la sua mano scivola sotto i miei testicoli gonfi a massaggiarli con sapiente delicatezza, inizia a fare su e giù, tenendo sempre l’uccello serrato tra le sue labbra morbide.
La sua bocca è un forno, e la sua lingua è un velluto che mi avvolge, ora sulla punta, ora lungo l’asta mentre risale con lentezza, avverto che le mie palle si stanno bagnando, segno di una sua abbondante salivazione che sta debordando fuori nonostante la presa ferrea.
La sigaretta si è spenta da tempo, portata via dal vento del finestrino aperto, dentro l’abitacolo dovrebbe far freddo, ma io mi strapperei via anche la pelle dal caldo che sento.
Appoggio la mano destra sulla sua schiena, la passo pesante sulla stoffa della sua camicia, scivolando fino in basso, al suo sedere, è piegata di fianco, e per la prima volta riesco a passare la mano su quel suo culo sodo.
Stringo sulla sua natica destra, e per la prima volta le sfugge un mugolio. Le afferro la carne attraverso la stoffa della gonna piantando le dita e stingendo, istintivamente, con forza, lei non smette di mugolare, e la sua testa si muove con un ritmo diverso.
Si solleva piano piano, succhiando delicatamente ma di gusto, strusciando la lingua lungo il mio uccello, stringendo le labbra al passaggio, si alza fino a farselo quasi uscire di bocca, poi, a bocca stretta, punta la lingua sulla cima della cappella e scende velocemente, soffiando invece di succhiare, facendomi esplodere un brivido lungo tutta la spina dorsale.
Mugola con la mia mano che le ghermisce la natica e sembra soddisfatta del ritmo che ha trovato.
Io guardo sempre la strada, ma la sensazioni mi stanno facendo perdere il controllo, sollevo ancora di più il piede dall’acceleratore.
“Dio… Mi stai facendo impazzire…” rompo il silenzio roco dopo non so quanto tempo.
Lei si solleva un attimo dal mio pene, gli da un bacino sopra e poi si mette con la faccia accanto alla mia, a pochissimi millimetri, rivolgo lo sguardo si sfuggita alla strada che oramai scorre lenta, nessuno per chilometri. La guardo negli occhi, il suo viso è un misto di dolcezza e lussuria, ha le labbra semi aperte e ansima.
“Buona questa sigaretta… e il fumo passivo non fa nemmeno male…” è roca anche lei e riesce a parlare solo tra un respiro e un altro, con calma.
Compie l’ultimo centimetro di spazio e mi bacia, rapida la sua lingua guizza dentro le mie labbra, facendomi sentire il sapore diluito in lei del mio uccello, non mi ritraggo anzi, assecondo quella rapida visita di lingue.
Lei si stacca quasi rabbiosa e mi fissa con un misto di stupore ed eccitamento.
Non dice una parola ma si riabbassa sul mio pene, adesso di nuovo stretto nella sua mano, immergendolo di ancora nelle sue fauci.
E’ brava, maledettamente abile, si gusta ogni centimetro di pelle del mio cazzo, e credo che impazzisca all’idea di prolungare il più possibile questo pompino.
Scollo la mano dal suo culo e la dirigo lubrica verso il suo seno, la posizione è ostica e per quanto lei cerchi di favorirmi non riesco che a sfiorarlo da sopra la camicia.
Ma tanto basta per sentire che i suoi mugolii si fanno più intensi e non ce la faccio quasi più.
L’eccitazione dentro la mia testa ha superato ogni limite, sto per esplodere.
“Anto… se.. continui così…” ho difficoltà a parlare.
Lei si stacca con dolcezza dal mio uccello, ma senza sollevarsi.
“Dove siamo?”
“Che cazzo ne so…”
“No dai…” – Sospiro. – “Sul serio…”
Riprendo un poco il controllo.
“Siamo ancora lontani, sto andando a 40… avremmo fatto si e no 15 chilometri.” il ragionamento mi costa una fatica immane.
“Abbiamo già passato… ” e mi dice il nome di un paese attraversato dalla statale.
“No, non credo…”
“Ok…” sospira sul mio uccello lei.
Bacia di nuovo il mio pene fradicio di saliva e si alza cercando di ricomporsi un attimo, lisciando la gonna, qualche ciuffo di capelli è sfuggito alla morsa dell’acconciatura e rimbalza liberi sul suo viso.
“Hai 50 euro?” mi chiede slegandosi definitivamente i capelli.
“Eh?!” la cosa mi stupisce e quasi mi terrorizza.
“Idiota!” – mi canzona – “Hai 50 euro in contanti per pagare la camera? Non voglio usare una carta.”
La luce si fa strada attraverso l’oscurità del mio testosterone.
“Si, certo, dovrei averle.”
Sempre con l’uccello teso fuori dai pantaloni mi scosto e tiro fuori dalla tasca dei pantaloni il portafogli e glielo porgo.
Antonella lo prende, apre senza curiosare tira fuori il biglietto da cinquanta e ,me lo riporge.
“Ecco, gira qui” e mi indica uno svincolo.
Lo inforco senza incertezze e lei mi guida verso la vecchia statale, oramai declassata che costeggia parallela la strada nuova a quattro corsie.
Pochi minuti dopo mi dice.
“Siamo quasi arrivati.” e la sento ridere.
La guardo senza capire.
“Senti, ce la fai a rimettertelo dentro senza farti male o vuoi scendere con l’uccello all’aria?” mi chiede allegra.
Avevo ancora il cazzo, fuori dai pantaloni, bagnati tra l’altro, poco male, è buio, chi vuoi che se ne accorga.
Mi guida verso un motel.
La mia personale illuminazione sulla via di Damasco mi coglie, letteralmente, con l’uccello in mano: tralasciando che possa aver calcolato tutto nei particolari, ma quanti ci ha portato questa per conoscere tutto così bene? Al contrario del famoso santo, questa improvvisa consapevolezza non mi fa cadere da cavallo, anzi, sempre più infoiato dalla cosa stringo saldamente le redini della mia lussuria e mi rinfilo l’uccello nelle mutande.
Il parcheggio è appartato e nascosto da sguardi indiscreti.
Quando fermo la macchina vedo che lei sta frugando nella borsetta e si guarda in torno, non c’è anima viva nel piccolo piazzale, solo un altro paio di macchine con le targhe della provincia vicina.
Scende dall’auto e si infila al volo il cappotto, io la seguo chiudendo la macchina, si volta verso di me, sorride come una bimba, e si infila un paio di occhiali scuri, avvolgenti, di quelli talmente grandi che è praticamente impossibile riconoscere chi ci si nasconde dietro.
Mi prende per mano dirigendosi spedita verso l’ingresso poco illuminato del motel, suona al campanello e si vedono distintamente all’interno due suole di scarpa che scendono dal bancone.
Pochi attimi e la porta a vetri scatta, mi lascia la mano e il battito deciso dei suoi tacchi sul pavimento mi sembra talmente forte che pare possa risvegliare anche i morti.
Il tizio che sedeva dall’altra parte del banco aveva la faccia spenta e apatica di chi, con un’esistenza intera di sonno arretrato alle spalle, ne ha viste di cotte e di crude. Immagino che una coppia come noi, evidentemente semi clandestina (semi perche gli occhiali da sole alle 3 di notte non li portavo certo io), non gli facesse ne caldo ne freddo.
Guardandolo attraverso le lenti nere, Antonella fece strusciare la banconota sul legno lucido e segnato.
Il portiere la raccolse, con la destra, mentre con la sinistra già le porgeva un improbabile batacchio di porta chiave.
Mi dà un occhiata disinteressata e indica le scale.
“Secondo piano, l’ascensore è rotto.”
Fine del servizio di reception.
Sono scale non troppo larghe, guarnite da una moquette appena lisa, lei mi precede di un paio di gradini e ho il modo di osservare le sue anche ondeggiare e il suo culo fasciato dalla gonna, ammiccarmi ad ogni passo.
Sono un pò deluso per l’ascensore fuori servizio, l’ho sempre considerato un luogo estremamente stimolante.
I soliti quadri insipidi danno movimento alle pareti spente e giallastre della tromba delle scale, lei procede rapida, e io non mi faccio certo pregare.
La porta di piano ha il maniglione antipanico che scatta con un rumore assordante in quell’ovattato silenzio, il posto è semivuoto, tre macchine con la nostra nel parcheggio, al massimo sei persone in tutto l’edificio. L’evidente apatia del portiere di notte lo escludeva automaticamente dal computo.
Sei persone, mi viene da sorridere ora. All’epoca ero, non tanto giovane, anche se anagraficamente parlando lo ero davvero, quanto ingenuo, qualche mese più tardi e non mi sarei mai messo a fare considerazioni così ingenue e dozzinali.
Camera 207, pochi passi rapidi in un corridoio calato in una penombra incrostata nell’arredo stesso, e lei infila la chiave nella toppa, scatta e si fionda dentro trascinandomi per mano.
Sento il tonfo attutito dell’enorme portachiavi che cade sull’onnipresente moquette, una piccola luce di cortesia illumina fiocamente la stanza, lei si è girata e mi si incolla addosso, prendendomi la testa da dietro e abbassandomi per uno scontro di labbra vorace.
Sento la sua gamba destra avvitarsi sulla mia, una mano che mi tiene i capelli dalla nuca e l’altra che mi stringe le chiappe.
Le sue labbra sono salate, la sua saliva sa ancora di me, ma i movimenti della lingua sono veloci, nervosi, come frenetici. La sua salivazione è sovrabbondante, come quando mi succhiava l’uccello e non si perita a farmene bere il più possibile.
Io sono eccitato, oltre il limitare della stanchezza quotidiana, gli ormoni trovano un campo vergine e fertile di energie nervose e adrenalina da saccheggiando a piene mani.
La stringo a mia volta, lasciando che per un primo momento le mie mani vaghino sulla sua schiena, sto morendo dalla voglia di strizzarle a pieno palmo il culo, ma sento che quel lieve tormento la sta stimolando ancora di più.
Mi muovo casualmente su e giù, sfiorandole prima il collo, scendo fino ai fianchi, senza mai, in quei primi minuti, oltrepassare il confine della cintura.
Quel primo assaggio dei suoi baci, nei bagni del ristorante giapponese, si rivela solo un pallido simulacro, un aperitivo di tutto quello sta succedendo ora.
Ha rimesso tutti e due i piedi per terra e mi spinge indietro, fino a far scontrare violentemente le mie spalle alla porta, spinge, e i suoi seni duri mi si spalmano addosso, un soffice ed eccitante distanziatore di corpi.
Ora mi tiene la testa con entrambe le mani e mi sta succhiando la lingua, un rumore gorgogliato e osceno si spande nella stanza, si muove anche, allontanandosi e avvicinandosi alla mia bocca, con lo stesso incedere di un pompino in miniatura.
In un battito di ciglia decido che l’attesa è durata pure troppo, le afferro le natiche con entrambe le mani, e stringendola con forza, la sollevo quasi senza problemi, dilatandola e portandole la testa alla mia altezza.
Quella mia mossa le fà perdere il controllo, lancia un gridolino di stupore, molla la presa sulla mia lingua, ansima e non si fa pregare, attorciglia le game intorno alle mie.
Respira pesantemente.
“Però… Stai attento…” – Riprende fiato. – “Non Stringere troppo…” – Parla piano, è roca ed è costretta a interrompersi spesso. – “Non… Lasciarmi segni…” mi fiata in viso.
“Ci provo…”
“Ti prego…” mugugna lei strascicando le sillabe.
Io non riesco proprio a smetterla.
Il suo sedere è stupendo, non è piccolo, ma ha una forma invidiabile, una consistenza soffice e tesa, la vita che si stringe, i fianchi modellati, le cosce tornite che mi cingono, mi rendo conto che la sto strizzando troppo forte, la starò dilatando in maniera dolorosa, ma sentire le dita che affondano in quel burro turgido mi sta mandando in ebollizione.
“Ti prego…” ripete in maniera lamentosa, tra un sospiro e l’altro.
Non vedo bene il suo viso, la luce è più che scarsa, intravedo solo uno sguardo voglioso ma implorante, la cosa le piace, ma sa bene di non poter indulgere.
Allento progressivamente la presa, tenendola sempre sollevata, mi giro e la appoggio con la schiena alla parete.
La cosa è accolta con un gridolino di compiacimento. E mentre inizio a spingere con l’inguine contro il suo, sento la mia erezione, sta rimontando alla svelta, ma avverto che i miei testicoli iniziano a dolere per le prolungate sollecitazioni a vuoto.
Tra una spinta e l’altra cerco un interruttore, una lampada che mi consenta di guardarla nel viso, riesco a far scattare qualcosa, ma l’unica luce che si accende è quella del bagno. Alla nostra sinistra. E’ una luminosità bianca, fredda e piatta schermata per lo più dalla porta della ritirata semi chiusa, ma vista la semioscurità in cui eravamo immersi, tanto mi basta per vedere i suoi occhi chiusi, il suo mordersi le labbra ad ogni spinta, e il respiro rotto da continui e evidenti brividi.
Non so quanto vado avanti con quei colpi, la sua schiena è a metà tra la porta di ingresso e la parete, e ogni spinta rimbomba nel movimento inevitabile dei cardini, nel tamburare a vuoto del legno, nel cigolare metallico della serratura sottoposta a quel tipo di sforzo.
Ogni colpo è un suo mugolio, ogni spinta sento il mio uccello, semi rigido e piegato, forzare sui miei pantaloni in mezzo alle sue gambe.
Mi resi conto dopo un po del rumore muschiato che c’era ad ogni mia spinta, ma ci diedi peso solo quando sentii l’umido arrivare al mio uccello all’interno dei pantaloni e boxer.
“Sei fradicia.” le sussurrai ad un orecchio.
“Lo so…” – tra un sospiro e l’altro. – “E lo sono anche da un bel pò…”
“Mi stai bagnando i pantaloni lo sai?” le soffio ogni sillaba all’interno del padiglione.
“Ale… perché non mi scopi un pochino?” con quella vocetta da bambina rotta dall’eccitazione.
Ho un tuffo al cuore, ha quel modo innocente di dire le cose, che le fa sembrare ancora più porche.
“Sarebbe carino… ma tu hai un qualcosa… un preservativo?”
“Fregatene!” – guardandomi diritto negli occhi. – “Stai tranquillo…”
“Se sei tranquilla te…” sottintendo io.
“Io voglio che me lo infili dentro!” sbotta eccitata.
Non rispondo, non a parole, erano veramente di troppo in quel momento.
Mi piego lievemente sulle ginocchia, appoggiandola tra il muro e le mie gambe, non faccio nemmeno in tempo ad aprirmi i pantaloni che lei ci ha già messo le mani, mi tira giù la lampo, fruga rapidamente tra i miei boxer intrisi di umori e mi tira fuori l’uccello.
La sostengo con le braccia, è leggera, non è un grande sforzo.
La sua testa è china e si è un pelo ingobbita per guardare bene mentre mi estraeva l’arnese dai vestiti, non è completamente eretto, e sento il dolore ai testicoli aumentare un poco. Muove dolce la mano, su e giù, per affermare quella mia polluzione.
Già mi immagino che voglia scendere per togliersi la biancheria quando mi stringe di più con le gambe e mi attira a se, io la assecondo e prendendola di nuovo per le natiche la avvicino.
Non capisco il senso della sua manovra.
Inarca il bacino e tenendo il mio uccello in una mano, mi avvicina con l’altra.
Quando avverto il calore della sua vagina che si dischiude al mio uccello capisco il livello della mia dabbenaggine.
Era senza mutandine.
E non l’avevo persa di vista tutta la sera.
Quindi era uscita senza mutande.
Altro colpo alla mia infantile ingenuità, il mio cazzo pulsa, accelero la delicata manovra con un colpo di reni.
Le entro dentro fino alla radice, o meglio, fino alla lampo.
Lancia un urlo liberatorio, mentre le passo le braccia sotto le cosce per afferrarla ancora per le chiappe.
Forzatamente aperta in questo modo la penetro senza alcuna resistenza, e libero ricomincio a spingerle dentro.
Il movimento che compio è breve, non mi allontano mai troppo, non voglio rischiare di uscire dal suo ventre, la posizione è fantastica, posso guardarla in viso, mentre ad ogni mia spinta apre la bocca in uno strillo.
Mi stringe le mani dietro il collo, incapace di muoversi, ha la testa piegata in giù, non so se cerchi o meno di guardare qualcosa di quello che le sto facendo, ma con quelle tette che rimbalzano ad ogni mio colpo, non credo possa vedere nulla.
Spingo il mio bacino sul suo, il mio uccello dentro la sua vagina, forte, inizio veramente a perdere il controllo e a tirarle colpi sempre più violenti. Lei non fa che gemere, non dice nulla, subisce tutto quello che faccio senza un minimo moto di protesta.
Anzi.
Quando le sono tutto dentro, inevitabilmente mi muovo un po verso l’alto, facendo strusciare i denti metallici della lampo sulla sua vagina, lei strilla vogliosa e roca ogni volta, modula la voce in maniera favolosa, non so se lo fa apposta, se è tutto calcolato, so che non mi rimangono molti colpi.
Le mie mani si stanno facendo scivolose, lei è una diga aperta, e quando anche il sudore inizia a fare la sua comparsa, sento che la posizione si sta facendo rischiosa.
Ci stiamo sempre di più abbassando.
“Fermati… fermati un attimo…” mi fa lei
Io mi blocco quasi immediatamente, appoggiandomi completamente a lei per rimanere il più possibile in equilibrio, la sua bocca si ritrova a pochi centimetri dal mio orecchio.
“Ale… me lo fai succhiare un pochino?”
Il mio petto è un mantice, non ragiono molto bene, ma la poso a terra delicatamente.
Ha la gonna alzata, tanto da lasciarle scoperto il pube, perfettamente rasato e delle calze autoreggenti, che, stringendogli con l’elastico le cosce, creavano un bellissimo effetto di morbidezza e solidità.
A questo punto le palle mi fanno davvero male, non riesco a stare nemmeno bene in piedi, faccio qualche passo incerto all’indietro, e appena i miei polpacci toccano il letto, ci crollo sopra.
Antonella si avvicina sorridente, mette un ginocchio sulle coperte e con una mano mi fa stendere completamente. Si accovaccia accanto a me e chinando la testa si ingoia per l’ennesima volta il mio pene.
Non è delicata come prima, ora sembra aver perso anche lei il controllo ed inizia un pompino veramente violento.
Io non reggo che un paio di colpi, poi alzo il busto con un genuino gemito di dolore.
“Che c’è?” fa lei stupita.
“Mi fa male…” mugugno io.
Guarda stupita il mio cazzo che sta ancora stingendo in mano.
“Ti fa male l’uccello? Che ho fatto?”
“Nulla nulla… è che mi fanno male le palle… sai, prima in macchina e ora… inizio a non poterne più!”
“Ah! Ho capito!” – e il suo sguardo si fa nuovamente dolce. – “Ora ci penso io… tu rilassati e basta.”
Lascia il mio pene con una languida e prolungata carezza e scende dal letto, sento che mi toglie le scarpe e sfila via i calzini, poi, rialzandosi si sporge di nuovo sul letto e chinandosi appena mi bacia.
Mentre mi regala un altra porzione di lingua, con le mani mi slaccia la cintura e mi apre i pantaloni.
Rimettendosi in piedi giù dal letto me li sfila con enorme attenzione, stessa sorte tocca ai miei boxer.
Sto sognando, sono in balia di una Gheisha servizievole, bellissima, e assolutamente arrapata.
Per ultimo mi sfila il maglioncino e mi apre la camicia scoprendomi il petto, mi fa mettere bene al centro del letto e sistema tutti i cuscini sotto la mia testa.
“Mi piace che tu mi guardi all’opera.” sghignazza con lo sguardo malizioso.
Non proferisco verbo e mi limito a fare quello che mi viene richiesto.
Mi allarga le gambe, infilandosi in ginocchioni in mezzo ad esse si china fino a riprendermelo in bocca, questa volta più dolce, rinchiude la parte più sensibile di me in quel suo stupendo forno.
Il mio cazzo è oramai la metà di prima, per quanto tutto sia estremamente eccitante, sento di non poter dare di più adesso, ma lei non si scompone, non sembra nemmeno dispiaciuta, si muove lentissima con la testa, massaggiando con la lingua la mia cappella all’interno delle sue labbra.
Con le mani, si insinua al di sotto dei miei testicoli e inizia un lento e dolce massaggio.
Lì per lì il dolore pulsa forte, ma subito si affievolisce come intormentito dal movimento delle sue dita, chiudo gli occhi.
La scomparsa del dolore, le sensazioni forti a cui mi sta sottoponendo, l’eccitazione residua, pochi secondi e sollevo il bacino schizzandole un doloroso fiotto di sperma direttamente in bocca.
Antonella si immobilizza un attimo, ma non si scosta, riceve tutto il mio seme e poi succhia piano, apre le labbra e lascia che il mio sperma coli giù sul mio pube, poi succhia ancora un pochino e ancora un po, e così via, fino a far uscire ogni singola goccia, lasciandomi prosciugato, distrutto ma assolutamente soddisfatto.
Si alza e mi sorride, io quasi rido, un po di sperma le è rimasto sul mento, proprio come una bambina pasticciona che si è sporcata con il latte.
“Come ti senti?”
“Un po meglio… il dolore mi sta passando del tutto ora…” la guardo diritta negli occhi.
“Ci credo che ti facevano male…” – mentre le sue mani continuano a massaggiarmi le palle. – “Ne avrai buttato fuori un litro almeno.” e mi sorride.
“Colpa tua!” la canzono io.
“Naaa…” – fa lei che ora me lo sta menando leggermente su e giù. – “Questa è tutta roba tua!”
Dopo una piccola pausa continua.
“Senti, di dispiace se vado un attimo in bagno?”
“Certo che no, anzi, ne avrei bisogno anche io…”
“Non ci provare nemmeno ad alzarti, capito?” mi fulmina con lo sguardo.
La guardo preoccupato, mentre, con la gonna ancora alzata e le chiappe all’aria si alza e si chiude in bagno.
Ne approfitto veloce per recuperare il mio cellulare, il display mi segnalava che erano quasi le 4 del mattino, ed era meglio mandare almeno un messaggio ai miei, si sarebbero preoccupati non poco non avendomi trovato la mattina dopo.
Quando la porta del bagno si apre ha la camicia aperta fino all’ombelico e un superbo reggiseno a balconcino le tiene su una terza misura abbondante con sottilissime stringhe di pizzo nero, la gonna alzata e sguardo concentrato, io a gambe divaricate sul letto mi sento sporco per via del il mio sperma spalmato per tutto il pube.
Antonella si mette a gattonare sul letto, montandomi sopra a quattro zampe, si mette con il viso sopra di me e mi bacia.
“Ti va di continuare?” quasi mi implora.
“Se riesci a fare qualcosa per lui…” e indico il mio uccello.
“Appunto…” mi risponde sorridendo.
Si stende su un fianco, accanto a me, attorcigliando una gamba alla mia, mi bacia, passa la lingua sul mio collo e scende fino al petto. Una mano mi massaggia piano il cazzo, e la sua bocca si mette a danzare come una ventosa impazzita tra i miei capezzoli.
Mi inarco, il piacevole risucchio delle sue labbra è intervallato dal lieve mordere dei suoi denti, si dimostra abile, bravissima in qualsiasi arte amatoria, una vera dea del sesso.
Sento che il mio uccello si sta gonfiando velocemente, quel tipo di trattamento, che non avevo mai subito prima, scopro che, almeno per me, è un interruttore infallibile per la mia erezione.
Ma non indulge troppo, visto l’ottimo risultato non si fa pregare e scende con la sua lingua, passando sulla mediana del mio ventre, si diverte a violare il mio ombelico incavato, pare trovare un gusto perverso a penetrarmi in quel punto, assolutamente insensibile per me.
Mentre tiene la lingua dentro alza lo sguardo, sorridendo, si solleva per farmi vedere la quantità di saliva che ci sta facendo colare, torna in giù. E ricomincia a esplorare quel piccolo anfratto.
Dopo poco avrei capito il perche di questo intermezzo.
Stringe ancora il mio uccello semirigido con una mano, mentre si avvicina con la testa, ma prosegue oltre, senza assaggiarlo, scivola giù dal letto, mettendosi in ginocchioni per terra, avverto solo che ha iniziato a leccarmi le palle.
Erano appiccicose dello mio sperma che aveva fatto cadere poco prima, ma la cosa non la rallenta minimamente, è decisa, ma non forte, dolce e rapida mi sottopone ad un vergognoso bidet di saliva.
Una decisa freschezza di espande sui miei testicoli, mi sta facendo sentire a mio agio, come mi rassicurasse di chissà cosa.
Dopo una pausa di un batter di ciglia, la frescura della lingua viene interrotta dal calore della sua bocca. Non si perita ad inghiottire alternativamente le mie palle, prima una e poi l’altra, succhiandole con decisione, senza mai esagerare.
Per aiutarla piegai le ginocchia, lasciandole campo libero.
“Ti piace…” tra una succhiata di palle e l’altra.
“Da morire…” godendomi tutto il servizio.
Piegò il mio uccello in avanti e mi si dedicò con ancora più foga, dopo pochi minuti la sua saliva mi aveva ricoperto completamente.
“Senti… Posso?” staccandosi un attimo da quel servizietto.
“Puoi cosa?” ingenuo come una triglia.
Non ripose, si limitò a passarmi la lingua sul buco del culo, una lappata rapida e bagnata che mi fece sussultare.
“A non tutti piace… perciò chiedo…”
Mi alzo sui gomiti per guardare il suo cesto di riccioli che si solleva. La guardo un attimo negli occhi, sembra sorridere.
“Boh… non so… non ho mai provato nulla…” indeciso e rimbambito.
“Allora non puoi dirmi di no!”
Si ributta rapida sul mio sedere, mi afferra per i fianchi e se lo sistema a suo gradimento e prendendomi poi l’uccello con entrambe le mani inizia a leccarmi con foga sull’ano.
E’ una sensazione assolutamente nuova, non mi ero mai interessato a quella mia componente anatomica, se non nelle occasioni di rito, non ero stato nemmeno mai interessato a esperienze di tipo omosessuale, ma nonostante le ataviche riluttanze da maschio medio italiano, la lascio fare, sembra tenerci così tanto…
La sua lingua mi inumidì senza alcuna incertezza, unendo il bagnato del mio pube a quello del mio culo.
Sentii il suo respiro vorace e i mugolii di soddisfazione farsi più intensi quando mi violò con la sua lingua.
Li per lì non provai nulla, se non una strana sensazione, nuova e aliena, il mio fisico reagì da solo.
Il mio ano si serrò intorno alla sua lingua che, inarrestabile mi sembrava entrare dentro di chissà quanto, il mio uccello proruppe in un’erezione gigantesca.
Muovevo il bacino, incapace di tenerlo fermo a quella sollecitazione, e con le sue mani saldamente ancorate alla mia asta mi resi conto di starmi quasi auto masturbando.
Muggii, roteando in maniera lasciva dalla vita in giù, lei rispose immediatamente mollando il mio cazzo e serrandomi i fianchi, forzandosi ancora di più dentro il mio culo.
Persi completamente il senso del tempo, non so quanto quella penetrazione andò avanti, so solo che sentivo la mia asta rigida, ritta e perpendicolare al ventre, tendevo tutti i muscoli, incapace di fare qualsiasi cosa, se non godermi la sua lingua nel mio ano.
Dopo un tempo indefinito la scossi via con un colpo di reni, alzandomi d’improvviso la privai del suo perverso intrattenimento, mi sentivo la testa leggera e il mio uccello pulsare, mi sembrava che ci fosse finito dentro il cuore.
Misi i piedi in terra con lei che c’era quasi rimasta male, provò a dirmi qualcosa, ma non l’ascoltavo, arrivai dietro di lei e la feci alzare tenendola per le ascelle.
La spinsi senza tante cerimonie sul letto, le sue tette avevano appena tocca le coperte che le avevo già sollevato i fianchi, e tenendola salda le infilai tutto l’uccello nella figa.
Fu un gesto irruento, inusuale per me, di solito molto dolce e delicato, le spinsi dentro il ventre tutta la mia erezione e lei rispose solo con uno strillo di stupore.
Le stantuffavo dentro il mio cazzo con forza, tenendole immobile il culo non mi curavo più di lei, ma solo del mio uccello.
Lei dentro era fradicia, molto più di prima, avvolgente come velluto e calda come un fuoco, ma non me ne curavo molto, ero come estraniato, e la sensazione di avere un pezzo di legno insensibile in mezzo alle gambe, non faceva altro che aumentare la mia libido e la voglia di sfondarla.
“Ahh!” – grida lei. – “Mi fai male… fai più piano… sei durissimo…” e ansima contorcendosi.
“Non mi pare che ti dispiaccia!”
“No… ma fai più piano…. ti prego…” con una voce melliflua che sembrava dire il contrario di quello che pronuncia.
Continuo a spingerle dentro il mio uccello, con lei che messasi a quattro zampe sul letto, non faceva altro che subire i miei colpi con le tette che le ondeggiavano all’interno del reggiseno.
“No… No… No… Fai… Più piano…” ripete un no ad ogni colpo e sento che ha difficoltà a parlare.
“Dimmi la verità.”
“No… Piano… Ti Prego…” sempre pronunciando una parola dopo ogni mio colpo.
“Se non mi dici la verità non smetto.” spingendo sempre con la stessa foga.
Lei ansima, mugola, e fra un vagito evidente di godimento e l’altro si azzittisce per qualche secondo.
“No! Mi piace! Mi fai impazzire!” – con la voce rotta e roca che si è ridotta ad un sussurro. – “Ma stai attento… ai segni…”
Sorrido tra me e me, e decido di rallentare un il ritmo, più perche i suoi muscoli vaginali me lo stavano stritolando risvegliando una sensibilità che mi avrebbe in poco tempo portato ad un orgasmo, che per assecondare i suoi vacui timori.
Mi muovo con maggiore lentezza spingendole il cazzo più dentro che posso, ma senza sbattere sulle sue chiappe come facevo prima, limitandomi a godere di tutto quello scorrimento.
E’ fradicia oltre l’inverosimile, sento il risucchio umido delle mie cosce che battono sulle sue, da quanto è eccitata sta colando lungo le gambe.
Sembra sfinita e si lascia andare con le braccia, la testa le struscia sul letto oramai sfatto, mentre le tette ondulanti lo sfiorano.
La vista è bellissima.
Ma non mi basta.
Mi fermo per un attimo e senza toglierle l’uccello da dentro, monto anche io sul letto, prendendola sempre da dietro, mi alzo sui piedi, inclinandole il bacino più in alto possibile la prendo come un animale, quasi cavalcandola.
Lei non parla più, ansima sempre più forte e basta, io ne approfitto per abbassare il busto e afferrarle le tette, questo sembra ravvivarla un attimo e, risollevatasi sulle mani, mi si offre di nuovo a quattro zampe.
Le strizzo i seni tra le mani con dolcezza, sono pieni, grandi e sodi, il reggipetto costringe e non poco, Antonella ha la bocca aperta, mi sembra che stia sbavando, ma non ho tempo per preoccuparmene, la sua pressione sul mio uccello aumenta e l’aumentare del volume del suo mugolare mi annuncia che sta per venire.
“Ale… Ale…Aleee…” – ripete quasi assente. – Io vengo… sto per venire… vengo!”
Accelero il ritmo pompando sempre di più e strizzandole le tette con più forza. La sua figa mi serra l’uccello lo sforzo che devo fare per continuare a muovermi non è poco, gocciolo sudore dalla fronte e quando giunge il suo urlo liberatorio, prolungato e animale, le cedono le braccia e le gambe e io mi spalmo alla sua schiena, mentre la schiaccio sul letto.
Il suo respiro è pesante e rotto da continui brividi, mi rendo subito conto di pesarle addosso, sfilo le braccia sotto al suo corpo e mi puntello sui gomiti, lasciandola libera almeno sulla schiena dal mio peso.
Ha le gambe divaricate e il mio bacino, ancora incollato alle sue natiche sembra che si muova da solo, le sono rimasto dentro, e avverto il mio uccello come risucchiato dal suo orgasmo, i suoi muscoli vaginali sono impazziti e mi trascinano ancora più affondo.
Quando ricomincio a muovermi in questa posizione sento che i suoi brividi aumentano, e la respirazione le si fà, se possibile, ancora più intermittente.
Ma non mi importa, quel continuo massaggio, appena rotto dal mio premere mi piace troppo, il mio cazzo è ancora rigido, non è più un pezzo di legno, ma mi sembra lo stesso un coltello che affonda in lei, nonostante i timidi tentativi di resistenza della sua figa.
“Ale…” un sospiro implorante.
“Si?” mentre continuo le mie flessioni pelviche dentro di lei.
“Ale… Ale… Hai un uccello fantastico…” e un altro brivido la scuote.
Il suo ansimare si fa di nuovo pesante, mi rendo conto che pochi minuti di questa penetrazione l’hanno rimessa sulla buona strada.
Non mi faccio pregare e continuo a muovermi. Faccio puntello sui gomiti e spingo, lievemente verso l’alto, il mio uccello dentro al suo ventre, lei per favorirmi il più possibile sento che sporge in alto il suo stupendo culo.
Ogni volta che affondo rimbalzo su quello stupendo cuscino di carne e questo a lei piace, piace anche troppo. Quasi impercettibilmente il suo ansimare si è trasformato in un mugolio continuo, con le braccia ha afferrato le coperte e le sta mordendo.
“Ehi? Ma stai già venendo?” io in tono il più possibile piatto.
“Uhm.. no…” con un evidente sforzo.
“A me pare di si!” mentre continuo a penetrarla.
“No… zitto…” mente tra un ansimo e l’altro.
“Come vuoi tu.” e chiudendo la bocca mi concentro solo sul mio uccello e sulla sua figa fradicia.
Passano pochi minuti e sento di nuovo il suo respiro farsi affrettato e violento.
“E ora?” la canzono fermandomi di colpo tutto dentro di lei.
“Non ti fermare!” – grida fuori controllo. – “Spingi! Cazzo spingi!”
L’accontento e ricomincio a pomparle dentro con più forza, la cosa si sta facendo faticosa, le braccia non mi reggono bene e la schiena inizia a farsi sentire, mi sforzo il più possibile per continuare a tenere il ritmo, ma così facendo sono costretto ad andare giù più violento, non riesco a controllarmi mentre mi abbasso.
Concentrato su questo, mi accorgo con in ritardo che sta urlando ad ogni mio colpo.
Strepita, mugugna cercando di soffocare le sue grida nelle coperte che morde eppure non le riesce molto bene sta avendo un orgasmo bestiale, liquido, assolutamente incontrollabile.
Con uno sforzo nervoso si rialza sulle quattro zampe, sollevandomi a sua volta, quasi mi disarciona, ma attaccandomi alle sue tette, riesco a rimanerle dentro, tira in dietro il culo il più possibile e urla frasi sconnesse e ansimate, venendo, quasi come un uomo, sul mio cazzo.
Ricade sul letto a pancia in giù facendomi uscire dal suo sesso, la sua schiena è un mantice e le sue chiappe sono lucide e intrise di tutte le nostre secrezioni.
Io sono in ginocchio dietro di lei, con l’uccello ritto, lucido del suo orgasmo, un pelo deluso dall’essere stato estromesso da quella festa che sta avvenendo in mezzo alle sue gambe.
Avevo proprio voglia di venirle dentro.
Inizio ad avere paura che non ci possa fare più nulla, lei si sta contorcendo davanti a me, respira affannosa e i brividi la scuotono tutta.
Ha le gambe sempre divaricate, è evidente che vorrebbe chiuderle, ma ci sono io inginocchiato lì in mezzo, vedo i suoi piedi arare quasi l’intrico di coperte e lenzuola, in preda a movimenti incontrollabili, e intanto continua a muggire con la faccia immersa in un cuscino.
Allora non avevo mai assistito ad un orgasmo femminile di quel tipo e lo scoprire poi, che si trattava del prolungarsi di un orgasmo multiplo galvanizzò il mio ego per diversi mesi a venire.
La vedo infilarsi le mani sotto il corpo e afferrarsi senza troppi complimenti il pube, massaggiandosi con foga la vulva.
E’ una masturbazione nervosa, ossessiva e istintiva, quasi un riflesso all’esplodere ripetuto degli orgasmi che stava provando, rimango onestamente stupito, e ipnotizzato da quella visione.
Mi tolgo da lì in mezzo, sentendomi di troppo, rimango a guardare lo spettacolo a un passo di distanza.
Liberata del mio ingombro, chiude immediatamente le gambe, serrandosi le dita all’interno della vagina, i piedi le si contorcono e il bacino le si alza e le si abbassa, ansima, scoordinata, e talvolta grida, una, due, tre, quattro volte, poi come si spegnesse, vedo i muscoli delle natiche rilassarsi, le gambe stendersi e lei respirare piano e flebile, stanca, quasi distrutta non fa altro che giacere lì immobile.
In quei cinque minuti di spettacolo non avevo resistito a menarmelo lascivamente, la vista dei suo orgasmi era totalizzante e volevo in qualche modo partecipare in qualche modo, mi accontentai di fare il tifo.
Il mio cazzo diritto aveva bisogno di cure, di un ultima sua attenzione, ma mi sembrava onestamente scossa e stanca, e non credevo che avrebbe risposto a nessun mio ulteriore approccio.
Ma il suo sedere rilassato, le sue chiappe tonde, toniche e bagnate mi fecero venire una certa idea.
Senza dire nulla le montai a cavalcioni delle gambe, divaricando lievemente i glutei, le appoggiai in mezzo il mio uccello, come una sorta di salsiccia in un panino.
Lei sembrava assente, rispose alle mie manipolazioni con un appena percettibile vagito.
Serrai le sue chiappe intorno al mio pene e iniziai a ondeggiare avanti e dietro, simulando una stranissima spagnola in mezzo al suo culo.
Il mio cazzo scivolava benissimo, era fradicia dei suoi orgasmi, e rilassata com’era non poneva la minima resistenza.
“Uhmm…” alzando la testa dal cuscino fu la sua prima reazione.
“Tutto bene?” un po ridicolo chiedere una cosa del genere mentre stai usando il suo culo per masturbarti.
“Si… ma che stai facendo lì dietro?” alzandosi sui gomiti e girando la testa.
“Che sto facendo?” – preso in castagna. – “Nulla, il tuo culo è così bello…”
Lei mugugna e io continuo quel movimento che le stava rendendo le chiappe roventi e, sicuramente, arrossate.
La mia cappella scorre libera in quell’anfratto caldo e scivoloso, io mi gusto tutta la lascivia di quell’atto, egoistico, liberatorio e assolutamente appagante.
“Senti… Ale… Ti posso chiedere un favore?” sussurra affaticata.
“Certo Anto…” immaginandomi già qualcosa tipo: smettila, fermati un attimo, togliti di li.
“Non è che me lo metteresti un pochino nel culo?” innocente e impavida.
Io mi congelo e non riesco a dire nulla.
“Ti prego dai, un pochino e basta…” sussurra implorante.
“Certo…” deglutisco a fatica.
Lascio la presa e mi sollevo, lasciandole il tempo di prepararsi in qualche modo.
Antonella si gira, rivelando un favoloso capezzolo rosa fuggito alla prigione del reggiseno, scende dal letto e si mette di fronte al muro appoggiandoci le mani e tirando vistosamente in dietro il culo, mettendolo bene in evidenza.
Io mi avvicino da dietro e rimango un pochino interdetto.
“Che aspetti?” con una punta di impazienza.
“E’ che non l’ho mai fatto… ho paura di farti male.” sincero.
Si volta e mi guarda stupita di sottecchi.
“Faccio io, tu spingimelo dentro piano, va bene?” rimettendosi in posizione si allarga da se il culo con le mani.
“Va bene…” quasi balbettante.
Ho davanti agli occhi lei che, in piedi, sporge il culo in dietro, vedo chiaramente il suo ano dilatarsi al ritmo dei respiri, la gonna tirata sui fianchi, una calza scesa alla caviglia, la camicia stropicciata e aderente alla schiena, madida di sudore.
Deglutisco, mi afferro l’uccello con una mano e glielo punto sul culo.
Appena la tocco sento che squittisce, è molto sensibile, e non appena inizio a spingere la sento respirare a bocca aperta.
Il mio cazzo è un coltello caldo che sta passando nel burro, la sua carne non fa quasi resistenza, e dopo un iniziale, lieve sforzo, la penetro dentro, fino in fondo, fino a sbatterle le palle sul culo.
Ha gridato qualcosa, ma non l’ho capito, la mia attenzione è dentro il suo sedere.
Appoggia tutte e due le mani alla parete mentre inizio a spingere.
Quando mi ritraggo lo sfintere di allunga leggermente all’esterno, accompagnando il mio cazzo, quando spingo, tutto rientra e ho la netta sensazione che il mio pene venga munto.
Mi muovo effettivamente piano, cercando di essere il più delicato possibile, ma non è facile e più di una volta la spingo verso il muro con tutta la mia forza.
Lei è a bocca aperta, respira violenta da ogni mia spinta, il suo ano cerca di stringersi intorno al mio cazzo, ma dopo i primi affondi sento distintamente che non riesce più a esercitare la forza sufficiente.
Vado avanti a pompare, mi sento risucchiare, mungere, per non cadere mi afferro alle sue tette, le trovo scoperte e roventi, i suoi capezzoli diritti come chiodi finiscono immediatamente nella morsa delle mie dita.
Spingo, completamente ignaro del fatto di essere venuto o meno, non lo so, non riesco a capirlo, sento solamente il suo culo aspira il mio cazzo.
“Va bene così?” riesco a dire con molta concentrazione.
“Si… Sfondami il culo… Ti prego… sfondamelo…” le sue parole finiscono imploranti e strascicate.
Non reggo più, inizio a spingere con foga, finendo per non ritrarmi nemmeno più, forzandola col bacino sempre più vicino alla parete.
Ci ritroviamo con il suo viso che struscia sulla carta da parati ruvida e io che la spingo quasi in alto, facendola rimbalzare sul mio cazzo, sta in punta di piedi mentre con le mani, mi accorgo che si masturba furiosamente.
Mi sono appoggiato con le mani alla parete, le sue tette si stanno grattugiando sul muro e io non riesco a fermarmi.
“Spaccami… si spaccami il culo… dai…” come ipnotizzata, ripete un mantra che mi eccita ancora di più.
“Sei proprio una troia.” non so nemmeno come mi viene.
“Uhm! Si sono una troia, spaccami il culo, ho bisogno… di sentirti tutto nel mio culo…” reagisce rinfocolando la sua eccitazione.
“E’ un po che sono dentro il tuo intestino!” quasi le urlo nell’orecchio.
“Ah! Si! Che bello! Continua! Non ti fermare!” sibila con il viso stravolto dal piacere.
Mentre le sue dita si masturbano violentemente avverto che il suo culetto, oramai sforzato, sembra aver ripreso vigore e cerca di stringere disperatamente il mio cazzo, è il suo utero, che contraendosi dall’eccitazione stava sconquassando anche il mio uccello.
“Si… Dai… Spaccami…” – di nuovo la voce è rotta. – “Si dai… sto venendo… vengo!”
Non è un avviso, è una constatazione, viene colta da un orgasmo violento, con uno spasmo muscolare mi strizza il cazzo, io, oramai assente da qualsiasi consapevolezza, le schizzo in fondo all’intestino un lungo fiotto, vengo anche io, urlando e spingendola per un ultima volta come un invasato.
Urlo sentendo l’aspirazione prodotta dal suo intestino, scompaio dentro i suoi muscoli, arretro, trascinandomela dietro, sia per il mio uccello ancora dentro, sia perche la sto strizzando con le braccia sul seno, barcolliamo all’indietro in quella ridicola posizione fino a cadere sul letto.
Respiriamo a fatica tutti e due, lei è ancora sopra di me, non pesa molto, ed è piacevole sentirla ancora lì che cova il mio cazzo nel culo.
Passiamo qualche minuto nella completa immobilità, poi lei scivola di lato e il mio uccello oramai moscio che le esce dallo sfintere emette un lieve rumore, con una piccola bottiglia che viene stappata.
Antonella si siede un attimo sul letto e mi guarda, il suo viso è una maschera di soddisfazione, si china, mi da un piccolo bacio sulle labbra e sculettante, si infila in bagno senza nemmeno chiudere la porta.
Il mini streap che mette in scena sarebbe stato eccitante ma sono letteralmente morto, soddisfatto, ma morto.
L’uccello dolorante, il sonno insistente che bussa sulle mie palpebre, mi trascino a mo di verme sul letto e l’ultima cosa che sento, è lei che canticchia sotto l’acqua scrosciante.
Non si può dire che la nostra fosse una storia incasellabile in nessuno schema, era una conoscenza, semplice e limpida, il sesso una forma di linguaggio.
Certo non l’unico, ma sicuramente il principale.
E in ogni caso, mi ronzavano in testa le sue parole, assolutamente non dette, ma i sott’intesi che aveva costruito erano molteplici. E ognuna di quelle spontanee domanda che sarebbero venute a chiunque erano una deliberata omissione, un intenzionale ‘non volere’:
Un ginnico saltare di palo in frasca per non cadere nella scontatezza della sua conseguenza.
Prendiamo un esempio.
Il suo ‘non hai guardato nulla dentro al mio computer’ avrebbe immediatamente, e in chiunque, me compreso, scatenato la potente domanda, cosa c’era di così personale?
Tutti hanno, più o meno, qualcosa di scabroso, nascosto nei cluster del proprio hard disk, tutti, nessuno escluso, e questo lo so per esperienza. Come so per esperienza che la grandezza del segreto è assolutamente relativa.
Il fatto che trovi un film porno nel computer di un cliente, per me, non vuol dire nulla, non sono un filosofo, ma sono un uomo, so e capisco i bisogni, i desideri e le perversioni che albergano dentro ognuno di noi. Non le conosco per ‘nome e cognome’, ma so che tutti noi, santi esclusi, ne abbiamo di sepolti in fondo all’anima, quindi che male c’è ad esorcizzarli tramite un monitor?
Per me nulla, è anzi, assolutamente normale.
Troverei anormale l’incontrario.
Ma sono io.
Qualche crociato moralizzatore dell’ultima ora, probabilmente, troverebbe il modo di mettere al rogo il peccatore.
Io no, assolutamente, ma il relativismo va poco di moda.
E’ molto meglio urlare alla prima strega venuta, e, per mettersi avanti col lavoro, è sempre bene avere nel bagagliaio un po di fascine secche e di benzina.
Ma sto divagando.
Cerchiamo di riprendere il filo.
Dicevo: non è che i numerosi particolari seminati, e credetemi, la maggior parte me li sono sicuramente scordati, li abbia ignorati per semplice dabbenaggine, se è pur vero che scommettere sul carro dei buoi, si rivela per lo più, un azzardo fatale, sentivo altresì la sorta di uno strano legame che si stava formando.
Dalla sedimentazione di quelle piccole (o grandi) azioni, un trasparente filo fatto di perversa fiducia ci stava annodando.
Io non avevo nulla da perdere.
Assolutamente single, sfortunato con le donne, non tanto perche fossi o sia un mostro, ma proprio perche ho sempre avuto la capacità di attirare donne patologiche, e Antonella non era, alla luce di questo aggettivo, un’eccezione, era solo una patologia completamente diversa dalle altre.
Più complicata, più profonda, inestricabile come il nodo gordiano. Probabilmente cinica e bastarda, mangia uomini e menefreghista, con me non mostrava mai quel suo lato.
Si sa, la donna un po puttana è irresistibile, quel sapore proibito e fugace che sai difficilmente ripetibile, ti rende molto più famelico, lo cerchi, lo agogni, ma per quanto tu possa fingere, è sicuro, dà una dipendenza superiore al desiderato e, nella maggior parte dei casi, al gestibile.
Con me si rivelò sempre dolce, disponibile, assolutamente affabile, interessata probabilmente all’intero rapporto, non solo al mio cazzo.
Intendiamoci, non lo accantonò mai, fino alla fine, ma non si limitò a quello.
Adesso, dopo tutto ‘il tanto e poco’ tempo passato da quella storia, ho sviluppato la personale convinzione che avesse bisogno di un confidente di letto, una persona diversa dalle altre che la stesse a sentire, che non la giudicasse, che non pretendesse di capire, ma che semplicemente leggesse le sue parole e i suoi gesti per quello che erano, fame di vita, a 360 gradi.
Inevitabilmente la giudicai, ma tenni sempre per me queste constatazioni, non mi permisi mai di pronunciarle ad alta voce, se escludiamo quelle rare volte in cui chiese il mio parere su determinati ambiti del suo modus operandi.
Cercai il più possibile di prenderla per quel che era.
Una persona bellissima, con un quoziente intellettivo spaventoso, che cercava soltanto di vivere, il più possibile.

Ma tutte queste considerazioni, presero una forma compiuta molto dopo, a quel tempo cercavo soltanto di raccogliere tutto quello che mio dava, forse ero egoista, o forse non ero in grado di capire quanto lei prendesse da me, sta di fatto che uno scambio c’era, ed era pure molto profondo.
Il nostro rapporto attraversò diverse fasi, ognuna contraddistinta da una diversa peculiarità identificativa.
Subito dopo quella, prima, strana nottata, passò diverso tempo prima che mi chiedesse di rivederla, io non insistevo, ne la invitavo mai, sapendo della sua condizione non avevo ancora aggiustato il tiro nei suo ritmi, per dirla in parole povere, non capivo ancora quanto poteva essere lunga la sua catena.
Ma non per questo smettemmo mai di sentirci, parlarci in qualche modo, fosse anche un estemporaneo sms a fine giornata per commentare brevemente le imprese del giorno.
E visto che faceva i turni in ospedale, quasi mai i suo messaggi mi arrivavano la sera alle 18.
Molto spesso la trovavo collegata la sera, quando il marito era a lavoro si collegava sempre, messi a letto i pargoli il suo nick lampeggiava allegro nella mia lista contatti.
Spesso le sue confidenze viaggiavano sull’onda informatica che la pervadeva.
Esordì una notte con uno strano discorso e suonava più o meno così:

‘Non so perche, ma sento come se ti conoscessi da una vita, è una sensazione assurda lo so, ma è così.
Alle volte mi fermo, e mi immagino che tu possa metterti a sputtanarmi ai quattro venti, urlare a mio marito che sono una zoccola e che porto gli uomini nei motel per scoparli tutta la notte.
Alle volte mi viene in mente.
Ma alla fine scuoto la testa e rido, non ti ci vedo proprio, non so perche, ma ho come l’impressione che non lo faresti mai.’

E in effetti non lo feci mai.
Perche? Forse perche non me ne diede mai il motivo, forse perche avrei perso le famose notti in motel, forse perche ero troppo disinteressato per compiere un gesto del genere.
O forse, più semplicemente, perche a me lei piaceva così com’era, e col passare del tempo, mi resi conto che mi piaceva sempre di più.
Ricordo che non risposi direttamente a quella sua affermazione, passai oltre, apparentemente senza darci peso, ma in realtà covando a lungo quel suo discorso.
In ogni caso, le sue confidenze continuarono così, estemporanee, senza che io le chiedessi mai nulla, o almeno, mai nulla di specifico, la lasciavo soltanto libera di dirmi quello che le andava.
E visto il personaggio che era, non partì dal basso, ma sparò subito uno dei colpi di calibro maggiore.

‘Mi va di raccontarti una cosa. Ti va a te di sentirla?’

‘Certo! Lo sai che starei ore ad ascoltarti, se vuoi ti chiamo al cell.’

‘No, scusami, questa non riesco. Cioè, non riuscirei a dirtela a voce, mi vergogno troppo, però se hai la pazienza di leggermi, ci provo.’

‘Se la cosa ti imbarazza, perche dirmela?’

‘Perche mi va.’

‘Ok, allora sono tutt’occhi!’

‘La prima volta mi capitò qualche anno fa, non mi ricordo bene’
Anche se a dire il vero la prima prima mi capitò quando ero una ragazzina del liceo. Ma se ci ripenso, mi rendo conto che per quanto il fatto possa essere il medesimo, l’uno non c’entra con l’altro, e quello più recente è sicuramente più’
Non so, importante?’

‘Credimi, non ci capisco nulla, dire che sei vaga è un eufemismo.’

‘Lo so! :-) ma lasciami il tempo per carburare!’

‘Ok, ok, sto zitto, non fosse mai che ti inibisco!’

‘Ahahahah, no, non sei tu, io riesco a inibirmi da sola!’

‘Immaginavo qualcosa di simile”

‘Allora ti dicevo, successe qualche anno fa, forse tre, ero lontano dai miei per un corso di aggiornamento per una settimana.’

‘Fate anche corsi d’aggiornamento?’

‘Si, caro, e molto più spesso di quanto credi! Solo che non sempre andiamo fuori città, la maggior parte delle volte gli istruttori vengono da noi per svolgere i programmi.’

‘Ah, non lo sapevo.’

‘Insomma, era un corso di istruzione su un nuovo macchinario che l’ospedale aveva comprato, e mi avevano mandato a me sola per il training.
Ero a [nome di città a caso] e non conoscevo nessuno, al corso, che durava otto ore al giorno eravamo tutte donne, ma esclusa me, erano tutte di lì vicino, quindi la sera se ne scappavano a casa dai mariti e a me mi lasciavano come un cane a tornare verso l’albergo.
Poi lo sai, le donne son sempre stronze, è difficile legare, soprattutto, quando, per un qualsiasi motivo, ci si sente in competizione.’

‘Si, si, ma quando lo dico io mi accusano si essere uno sporco sciovinista.’

‘Eheheheh, lo so, conta la difesa di classe, a oltranza!
In ogni caso ti dicevo. Ero da sola, e già al secondo giorno non ne potevo più, non potevo collegarmi ad internet perche non avevo un portatile, e l’albergo metteva a disposizione un solo computer, quasi sempre occupato da persone molto più disperate di me ;-) Quindi mi decisi a uscire, era martedì e fatta una doccia, chiedo dove potessi trovare un ristorante carino.
Mi indirizzano lì vicino, in centro, era presto, e c’era molta gente, io mi vesto molto casta per evitare problemi indesiderati e mi dirigo a questo ristorante.’

‘Mi immagino il molto casta! ;-)’

‘Idiota! Quando voglio so come non farmi notare! Insomma, il posto era carino, accogliente, e mangio bene, anche se farlo da sola avvilisce un po.’

‘Confermo.’

‘Esco di lì e davanti vedo l’insegna di un locale, tipo questi bar che stanno aperti anche di notte e diventano tipo pub, musica dal vivo e tanta gente, hai presente?’

‘Si, qualcosa l’ho visto anche io ’

‘Insomma, non avevo voglia di andare subito in camera, allora entro lì che non c’era molta gente, mi siedo al bancone e prendo da bere, dopo poco, parte un piccolo complesso a suonare musica jazz, io mi fermo lì sul trespolo a bere e ascoltare la musica, guarda, ti giuro, erano bravissimi.
Non mi ricordo di aver bevuto molto, giusto un paio di cocktail con tanta frutta e poco alcol, ma dopo qualche tempo mi si siede accanto un tizio, lì per lì non lo guardo nemmeno, ma passato un pochino, mi chiede se può offrirmi da bere.
Io mi giro e lo guardo, avrà avuto una quarantina d’anni portati discretamente, capello brizzolato, un bel paio di spalle, denti bianchi.
Io avevo proprio il bicchiere vuoto e mi dico, perche no, due chiacchere non hanno mai fatto del male a nessuno.
Io mi prendo un altro cocktail come quello di prima, lui un qualche beverone che riconosco subito essere molto alcolico.
Attacca bottone il tipo, mi dice come si chiama, Carlo dice, e fa il rappresentante orafo, ha una buona parlantina e mi domando subito quanto ci metterà prima di provarci.
Ho voglia di passare il tempo, e quindi non gli dico praticamente nulla di me, nessun appiglio!
Solo che sono li da due giorni ma che mi stavo annoiando, mi chiede di dove sono, il mio accento sarà sicuramente risultato straniero per quelle lande, ma nemmeno lui era di lì, lo si sentiva, gli invento una palla, non voglio proprio che sappia di me.
Andiamo avanti a parlare del più e del meno, per un bel po. A dire il vero è solo lui a parlare di se, del suo lavoro, di quanto sia stressante, difficile, ma anche gratificante, io non faccio altro che annuire e fare domande, ma cazzate! Non gli ho nemmeno chiesto se era sposato o che, nulla proprio.
Questo qui non fa nulla per farmi indispettire, non allunga nemmeno un dito, ma neanche una battuta, nulla, mi sembra intenzionato solo a parlare, io mi rilasso un attimo e acconsento a farmi offrire un altro bicchiere di qualcosa.
Poi, di punto in bianco questo qui mi esce fuori con una frase del tipo:
‘Mi piaci, quanto vuoi per venire in camera con me?’
Io ci rimango di sasso, gelata e mi immagino la faccia che ho fatto.
Proprio in quel momento mi suona il cellulare, mi doveva chiamare mio marito e non lo faccio aspettare.
Il complessino era in pausa e la maggior parte della gente era fuori a fumare, non c’era molto rumore, io rispondo al volo, e mi distolgo dal tipo e dalla sua proposta indecente.
Apro la comunicazione e mi fiondo fuori dal locale, non prendo nemmeno la giacca, ne la borsa, sono proprio una stupida, se ci penso, avrebbero potuto rubarmela in un attimo.
Parlo un po con mio marito, gli dico che sono nella hall dell’albergo a cena e che c’era un po’ di gente, stiamo qualche minuto, ma quella frase mi è rimasta in testa.
Non lo so perche ma parlo piano, non voglio che nessuno mi senta. Salutini di rito e riattacco la comunicazione.
Rientro che il mio bicchiere è ancora lì, insieme a tutte le mie cose, nella stessa posizione.
Mi siedo, bevo un sorso, ma il del tipo non c’è traccia in giro, mi guardo in torno e non lo vedo.
Finisco il bicchiere e mi preparo ad uscire.
Faccio per tirare fuori i soldi per pagare le bevute di prima, ma il barista mi blocca e mi dice che il signore aveva già pagato.
Io mi giro e vedo il tizio di prima che mi fa un cenno dalla porta con una sigaretta in mano.
Io gli vado in contro e lo ringrazio. E lui mi dice:
“Senti, allora sei libera?”
Lo guardo bene negli occhi, mi sembrava serissimo, io mi sentivo andare a fuoco, imbarazzata come non so che.
Gli dico qualcosa, tipo:
“Non qui.”
E gli passo oltre. Questo non fa una piega e mi segue, qualche passo fuori dal locale e me lo ritrovo ancora accanto.
Sarò stata ubriaca, non lo so, ma mi viene fuori un:
“In che albergo stai?”
Questo mi dice un nome sconosciuto, e aggiunge che è lì dietro, per fortuna non è il mio, se no mi sarei davvero sotterrata.
Poi finalmente mi scatta la scintilla, e penso perche no? In fondo qualche cornetto a mio marito l’ho sempre fatto, e l’idea di scopare con un perfetto sconosciuto mi ha sempre eccitato e poi… si insomma, poi la parte della puttana non l’avevo mai fatto, rido e mi decido a calarmi nella parte.
Ma non sono troppo sicura, quindi mi cerco ancora una via di fuga.
“Senti, io stasera sono uscita solo per svagarmi non per trovarmi qualcuno.”
Lui non batte ciglio e mi dice:
“Vabbene, ma oramai che ci siamo, non sono mica così brutto da essere uno sforzo!”
Sarà stato un puttaniere, ma era anche gentile, un bel tipo a modo suo, tento la carta del prezzo e gli sparo sfrontata:
“Sono 300 euro l’ora.”
Questo continua a non scomporsi e mi risponde solo con un:
“Va bene, ma fai tutto?”
Ti giuro, mi son sentita punta sul vivo e gli ho fatto:
“Certo! Per chi mi hai preso!”
Questo mi prende sottobraccio e passeggiando mi porta verso il suo albergo.
Si ferma ad un bancomat, armeggia un po e poi torna con una mazzetta di banconote in mano, me le infila in borsa come se nulla fosse e poi mi riprende sottobraccio e continuiamo a camminare.
Arrivati a pochi passi da un lussuoso albergo mi sento quasi morire, fin lì c’ero arrivata con spavalderia, ma adesso mi mancavano quasi le gambe, e cerco una scusa qualsiasi.
“Ma hai un guanto, qualcosa?”
“Ma che professionista sei?”
“Sono una professionista che era uscita per farsi una bevuta in santa pace!”
“Va bene, non ti arrabbiare, ci penso io.”
E stavolta inizia a camminare con passo spedito verso l’ingresso.
Quando abbiamo passato la porta scorrevole credevo davvero di svenire, ma questo qui mi tiene stretto stretto per un braccio, va verso la reception e dice il numero della sua camera, il portiere gli da la chiave senza dire una parola e poi mi fa:
“Avviati, io ti raggiungo dopo.”
Come un automa vado all’ascensore e senza mai voltarmi premo il tasto del piano.
Appena le porte si son chiuse, mi sono appoggiata alla parete, mi sembrava di morire!”

“…”

“Ehi? va tutto bene?”
“Si, cioè, certo, sto solo cercando di capire fino a dove ti sei spinta…”

“Se vuoi mi fermo qui…”

“Assolutamente no! Lo sai che puoi raccontarmi tutto quello che ti va! Anzi, non dico più nulla finche non vuoi tu! Va bene?”

“Se lo dici tu…”

“Ehi? Anto? Sul serio, ho voglia di leggerti!”

“Ok… ma non è che ti stai scandalizzando e poi non mi vuoi più vedere?”

“Lo sapevi benissimo che il rischio c’era iniziando a raccontarmi una cosa del genere… Però non ti devi preoccupare, non per questo intendo!”

“Però poi mi dici che ne pensi, va bene?”

“Ok, ok, ma tu continua…”

“Insomma, sono arrivata nella camera del tizio, assurda, mi pareva una suite, gli sarà costata una cifra a notte, vasca idromassaggio, televisore gigante, spaziosissima, insomma, lì per lì mi sento un po stordita da quel lusso.
Allora mi frugo nella borsa e conto, mi aveva infilato 600 euro, quindi questo qui si aspettava un paio di ore con una puttana, e non sapevo bene come comportarmi.
Una sola cosa avevo ben stampata in testa, dovevo prendermi tutte le precauzioni! Ma chissà chi era questo qui! Chissà dove avrà infilato l’uccello!
Oddio, magari è meglio che me la batto, gli lascio i soldi e scappo, l’albergo è così grande che non mi vedrà mai uscire.
Ero lì, lì per inforcare la porta e scomparire!”

“E… Poi?”

“E poi, e poi ha aperto la porta lui, che io talmente ero nervosa nemmeno mi ero ricordata di chiuderla!”

“E poi?”

“Come e poi? E poi il resto!”

“Come il resto? Tutto qui?”

“Beh, che vuoi sapere?”

“Che ne so, qualcosa, fino ad ora hai solo detto che uno ti ha offerto dei soldi per andarci a letto e te ci sei stata!”

“E ti pare poco?”

“Si e no!”

“Bene! Allora ti chiarisco le idee, lui ha aperto la porta e mi sono fatta scopare come una puttana!”

“Ah…”

“Che credevi? Che ti raccontassi tutta sta tiritera per poi dire che me n’ero andata? No! Mi ha scopato e devo anche ammettere che mi è piaciuto molto!”

“Essere scopata o essere una puttana per una sera?”

“Stronzo…”

“Stronzo?? Perche? Che ho mai detto?”

“Sei uno stronzo, perche mi hai fatto questa domanda?”

“Soltanto per capire un po di più Antonella…”

“Sul serio? Non è che mi stai prendendo in giro?”

“Senti, non ti pare un po ridicolo che ti risponda qui? Tramite una cazzo di chat?”

“Che vuoi dire?”

“Voglio dire che potrei inventarti qualsiasi puttanata, e andrebbe bene lo stesso!”

“No, non è vero… lo sai che non sarebbe la stessa cosa…”

“Perche?”

“Come perche?”

“Non ci giriamo intorno Anto, solo tu puoi dire davvero se senti che ti stia prendendo per il culo o meno, e questo, al di là di quello che posso scriverti, quindi, dimmelo tu quello che senti!”

“Io penso… o spero, non lo so… che tu sia sincero…”

“E allora?”

“Allora… allora mi è piaciuto fare la puttana…”

“Davvero? E quanto?”

“Molto… lì per lì giuro che non sapevo cosa fare, in fondo era solo una scopata con un tizio che non avrei più rivisto in vita mia, ma ero bloccata, congelata.
Questo aprì la porta che aveva già la giacca in mano, mi passa accanto e non mi dice nemmeno una parola, si slaccia la cravatta e mi squadra dalla testa ai piedi e poi mi dice.
“Senti, mi sono fatto la doccia prima, non ho voglia di rinfilarmi sotto l’acqua, tanto lo senti che sono pulito no?”
In effetti profumava come un bimbo, io ho solo annuito e questo qui per tutta risposta si è aperto i pantaloni e si è tirato fuori l’uccello!”

“Cavolo, uno che va per le spicciole”

“Già, ma ci ho pensato dopo, visto che va a tempo non aveva voglia di perderne!”

“Ci credo…”

“Poi mi si è avvicinato, mi ha preso una mano e l’ha portata al suo pisello, era freddino e moscio, ho iniziato a segarlo un pò, ma questo mi ha chiesto subito di abbassarmi.
Io mi sentivo ipnotizzata, mi sono messa in ginocchioni su quella moquette di lusso e me lo sono infilato in bocca.
Era pulito, si sentiva, ma era piccolo piccolo sembrava che non ce la facesse a rizzarsi.”

“E poi?”

“E poi… e poi a forza di succhiarlo e leccarlo ha iniziato a gonfiarsi, lì per lì non mi sembrava nulla di particolare, ma più lo succhiavo e più gli diventava grosso. Alla fine mi sono staccata per guardarglielo e dico che a occhio e croce superava i 20 centimetri e per giunta era duro come il marmo.
Guardo per un attimo lui e mi fa:
“Cazzo sei brava, vedi come reagisce bene?”
Poi mi mette una mano dietro la testa e me lo rimette in bocca, mi tiene ferma e inizia a scoparmi in bocca. Non riuscivo a muovermi, mi teneva stretta, e me lo sentivo che mi arrivava fin quasi alle tonsille, più di una volta ho creduto di vomitare!
Però era vero, era pulito, e aveva quel buon sapore di fresco, sembrava l’uccello di un bambino.
E’ andato avanti per un quarto d’ora in quel modo, e io mi sentivo veramente un oggetto nelle sue mani, non protestavo, nulla, lo prendevo in bocca e basta.
Quando fu stufo di questo trattamento me lo tirò fuori che gocciolava della mia saliva e mi fece spogliare senza tante moine, mi sbattè sul letto e iniziò a leccarmi tutta quanta, partendo dal collo fino alle tette.
Dio! C’è stato almeno mezzora a succhiarmi le tette e i capezzoli, senza mai rialzare il viso, ma non era violento, non molto almeno, quando mi mordeva lo faceva piano, senza lasciare nemmeno una traccia.
Ale, quando ha alzato il viso era rosso, gli pulsavano le vene sulla tempia!”

“Ci credo, sarà stato eccitato! E tu?”

“…io ero un lago, ma mi stavo annoiando ad un certo punto, giocare con le mie tette va bene, ma dopo un pò basta. Mi sono alzata e l’ho steso sul letto gli sono montata sopra, e gli ho chiesto il preservativo.
Lui mi ha indicato la sua giacca senza dire una parola, mi sono tolta dal letto e ho frugato nelle tasche, alla fine ho trovato due preservativi.
Mi sono rimessa sul letto e mentre gli infilavo il cappuccio ho notato che era rossissimo anche l’uccello, con una cappella enorme, a toccarlo era bollente e duro come in marmo. Però un pò le dimensioni mi preoccupavano, era davvero largo.
Una volta sistemato gli sono montata a cavalcioni e piano piano me lo sono infilato.
All’inizio era un po difficile, e ho dovuto lavorare non poco di bacino per farlo entrare tutto.
Questo quì grugniva per tutto il tempo, ma non parlava.
Mi faceva quasi male sentirlo dentro così rigido, ho iniziato a muovermi ondeggiando il bacino, mentre quello mi afferrava le tette.
Era un bello smorza candela, e te lo giuro, mi stavo godendo più la sua faccia che il suo cazzo.
Mi ero un po distratta dal mio ruolo, ma mentre ero lì mi resi conto che dovevo far godere lui, non io, quindi mi misi al lavoro di bacino.
Ondeggiavo, ruotavo e qualche volta provavo a fare su e giù, ma non troppo perche era davvero troppo gonfio.”

“Ma davvero…?”

“Si, si, ma poi capii anche perche!”

“Perche? Scusa, ma sarà stato eccitato no?”

“Ah di sicuro, ma quello lì prima di salire in camera si era fatto dare una pasticca di viagra o cialis, non mi ricordo bene, dal portiere!”

“Ma come?!”

“Eh si, i portieri di notte degli alberghi sono sempre molto attrezzati, non lo sapevi?”

“Adesso ne ho un’idea… e insomma, poi?”

“Beh, poi nulla, dopo un po che me lo trastullavo dentro questo sembra svegliarsi, mi stringe le tette con più forza e si alza mettendosi seduto, così mi prendeva di fronte.
Le mie gambe dietro di lui, e io seduta, letteralmente, sul suo cazzo, presente?”

“Eh… si…”

“Ecco insomma, mi prende per il culo e inizia a farmi fare su e giù, mi ero abituata e non mi faceva più male, ma questo era proprio infoiato, e inizia:
“Sei proprio una brava puttana, dio come mi fai godere, fottimi!”
E giù che mi insulta!”

“E tu?”

“E io? Io nulla! Avevo quel cazzo enorme che mi stava trapanando avevo smesso di pensare a qualsiasi cosa, mi sbatteva in quel modo che mi faceva perdere la testa, ma non volevo venire, strinsi i denti e cercai di resistere, ma credo che si vedesse che mi piaceva.
Poi mi ributta sul letto, mi mette a quattro zampe e me lo rinfila senza tante cerimonie.
Ale… mi ha sbattuto in quel modo per una marea di tempo…
Mi colpiva con forza, spingendomi sempre più in avanti, sempre di più, alla fine mi ritrovai aggrappata alla testiera del letto che godevo… godevo in una maniera davvero strana, questo tizio mi insultava, mi dava della puttana e mi scopava come tale, mi ricordo che quando venne urlo a lungo, come un ululato di un lupo.”

“E….?”

“E io ero fradicia, ero riuscita a non venire, avevo il ventre e la figa che mi facevano male, ma non so perche, ero soddisfatta di me…
Perche poi ancora non lo capisco, insomma, ero una puttana, anche se solo per un paio di ore mi ero fatta scopare per soldi, non so, ma quando cresci, è uno dei tabù che ti instillano nella testa.
Una specie di linea di confine tra una categoria di persone e un altra, te lo giuro, quello che capitò al liceo, per quanto simile fu diverso, talmente diverso che mi misi in testa che non sarebbe più dovuto accadere, che andare a letto con qualcuno per soldi ti rendesse una persona di merda, peggiore, spregevole…”

“E cos’hai scoperto allora?”

“Lì per lì nulla, ricordo che questo si buttò sul letto e respirava come un mantice, io recuperai la mia borsa i miei vestiti e gli chiesi se potevo usare il bagno, lui mi disse di si e io mi ci chiusi dentro, mi feci una doccia veloce, trucco, insomma mi risistemai, uscii vestita e in ordine.
Questo qui, Carlo, era seduto sul letto con una vestaglia, sai di quelle da camera?
Si alza, mi da un bacio sulla guancia e mi fa:
“Sei stata magnifica, mi hai fatto godere come non mi succedeva da anni, lasciami il tuo numero di cellulare.”
Ricordo che ebbi la prontezza di spirito di inventarmene uno lì per lì e quando mi chiese che nome metterci in rubrica gli dissi di metterci quello che lui preferiva.
Ha sorriso e mi allunga una mano in borsa e poi mi sussurra all’orecchio:
“Questo è un extra per te, giù c’è un taxi che ti aspetta.”
Mentre scendevo le scale e poi nel taxi che mi riportava all’albergo mi feci la domanda, ma chi sono diventata?
E sai che risposta mi sono data?”

“No, quale?”

“Nessuna!
Ero sempre io! Questo mi aveva scopato, e mi era anche piaciuto! Ma ero sempre io, non mi riuscivo a sentire più sporca o più depravata, mi sentivo sempre io!
Ti giuro, ero raggiante, felicissima!
Mi aveva trattato come una puttana, mi aveva pagato come una puttana, ma ero sempre Antonella!!”

“…”

“Che c’è?”

“Nulla…”

“Ti ho sconvolto vero?”

“Si e no, non mi hai scandalizzato però! Sto solo cercando di capire le implicazioni delle tue riflessioni e delle tue azioni e soprattutto a che risposte ti hanno portato… scusa, ma posso chiederti che avevi combinato al liceo?”

“AHAHAH! Sei un porco curioso!”

“Vero, ma tu racconta.”

“Nulla di che se ci ripenso oggi, eravamo all’esame di maturità e non sapevo come cavarmela nello scritto di latino, accanto a me c’era il tipo più secchione della scuola, e gli chiesi di passarmi il compito, quello in tutta risposta mi fa:
“Solo se mi fai un pompino.”
Lo mandai a fare in culo, ma un ora dopo ero ancora lì e non riuscivo ad andare avanti in un paio di passaggi e glielo richiesi, e quello mi risponde sempre allo stesso modo.
Mancava un ora e mezza alla consegna e mi stavo per mettere a piangere, e sto qui mi fa un bigliettino e me lo passa. “Io sto per consegnare, ma se vuoi il compito, adesso vai in bagno e aspettami lì.”
Ero disperata davvero, prendo mi alzo, consegno il compito alla commissione e vado in bagno.
Mi ricordo che quello dei ragazzi e delle ragazze erano comunicanti da una specie di lucernario a mezza parete, non ho aspettato nemmeno un minuto, questo qui scavalca e mi fa:
“Lo vuoi davvero il compito?”
E io: “Si! Certo, non ci capisco nulla!”
“Allora mi devi fare un pompino!”
“Ma come? Qui?” io sono quella che va subito al sodo.
“Certo che no scema, ma dopo, quando esci io ti aspetto fuori al bar.”
“Va bene, ma dammi il compito!”
Quello tira fuori da una tasca un foglio di appunti a matita e me lo passa, poi prende e riscavalca.”

“E come è andata a finire?”

“Lui prese 8, io 7, non ci capivo molto nella sua scrittura, e involontariamente sbagliai qualcosa, ma meglio così, nessuno si accorse mai della copiatura.”

“E poi? Dopo al bar?”

“Ah, beh, semplice, mi portò in quel bagno puzzolente e me lo mise in bocca, ma mi ricordo bene che la cosa mi diede sui nervi, mi sentii usata, disprezzata in quel cesso che puzzava di urina, menomale che non lo vidi più quello stronzo!”
Come al solito, non mi aspettavo di essere chiamato.
Ma ci avevo fatto l’abitudine?
E piuttosto, ci si può abituare all’imprevisto? Ovvio che è impossibile, ma allora può esistere un assuefazione all’evento incontrollabile, talmente profonda e radicata da non esserne scossi più di tanto?
Richiudere il concetto ed evitare che diventi un fatalismo di circostanza?
Forse c’ero arrivato e gli avevo dato anche dei nomi carini, tipo: prontezza di spirito, velocità di reazione, imprevedibilità, apertura mentale.
Tutte cazzate, ero,e sono troppo pigro per ammettere anche soltanto lo stupore, e la parte del gatto sornione che non si scompone mi calzava più per una fortuita concatenazione di eventi che per un oggettività di stato.
Vedere il suo numero lampeggiare sul display del cellulare mi metteva sempre una certa agitazione, questa volta in maniera particolare, sapevo perche mi chiamava, voleva una risposta e io sapevo quale era.
La cosa che mi aveva messo davvero in crisi era la domanda. E mi era stata posta qualche giorno prima.
“…senti Ale, io devo andare tre giorni fuori per un corso… che ne dici di venire con me?…”
Semplice, diretta, apparentemente limpida, come suo solito, avevo preso tempo, non perche l’idea non mi piacesse, anzi, ma solo perche una simile proposta necessitava di una certa preparazione.
Chiedere ferie, farsele dare, controllare che il conto in banca non fosse a livello di guardia, inventare una palla ai miei, insomma, tutte attività che necessitano di un grosso dispendio di energie.
Alla fine ero giunto a mettere in fila tutti i tasselli del domino, non mi rimaneva che dare una spinta e godermi quei giorni, soprattutto notti, di spasso.
Risposi.
“Ciao Anto! Come stai!”
“Bene, dai, sono di corsa… scusa se vado diretta, ma allora che fai?”
“Tranquilla, sono riuscito a far combaciare tutto, per me va bene!” onestamente contento.
“Sono felice di sentirti così!”
“Merito tuo! Senti, per metterci d’accordo sulle ultime cose… insomma, si, come vuoi fare?”
“Meglio evitare troppe cose strane, ci vediamo la sera direttamente in albergo, tu che dici?”
“Si va bene, ho preso una camera nel tuo stesso albergo, ti mando un messaggio quando arrivo.”
“Perfetto, stacco, ci vediamo tra una settimana!” come sempre ho l’impressione che sorrida mentre parla.
Il programma è assolutamente semplice e lineare.
Antonella deve andare a fare un corso di specializzazione a Cittanetroppolontananetroppovicina, tre giorni pieni, quindi per essere in orario la mattina del primo giorno è costretta a partire la sera prima e pernottare.
Io avevo semplicemente prenotato nel suo stesso albergo, ci saremo visti così.
Era intrigante, e assolutamente eccitante, all’inizio avevamo pensato di fare anche il viaggio insieme, ma la sua linea di condotta sempre molto prudente mi sembrava comunque azzeccata.
Io, finito il lavoro, sarei partito con la mia macchina e, dopo un paio di ore di autostrada, sarei arrivato alla meta. Lei, col treno ci avrebbe impiegato di più, ma sarebbe partita prima.
Se tutto andava liscio, sarei arrivato prima io, precedendola comunque di almeno un ora.
La noia pesava come un mattone in testa, e il soffitto della camera era abbastanza squallido da deprimere anche qualcuno ben più ottimista di me.
Non che fosse un brutto albergo, almeno nel genere degli alberghi, era una brutta sistemazione perche mi pareva proprio di essere stato preso per i fondelli, e starmene da solo in attesa di un qualcosa che non solo mi era stato promesso, ma proprio garantito, mi faceva girare i cosiddetti.
Mi faceva girare le palle perche non l’avevo, e un certo non so che, una vocina querula e tenue mi suggeriva con insistenza che era tutto andato all’aria.
Ma facciamo un po’ di chiarezza.
Sono disteso sul letto di una camera d’albergo, un tre stelle ben messo, non ricordo il nome, ma non è assolutamente importante, solita moquette perennemente polverosa, coperte ruvide di lavanderia industriale, un bagno pulito, un televisore che ha visto anni migliori gracchia su un programma di nessun valore.
Ho le gambe incrociate a livello dei piedi e le mani dietro alla testa, guardo il soffitto e il lampadario spento, nella semioscurità urbana della notte di cittànetroppolontananetroppovicina.
Quinto piano, camera doppia a uso singola, 506. Lei dovrebbe stare alla 309, due piani sotto, dovrebbe, perche a questo punto non so nemmeno se è arrivata.
Potrebbe essere successo di tutto, ritardo dei treni, un contrattempo, addirittura un incidente di un qualsiasi tipo, ma no, io vado a pensare che mi abbia fregato in qualche modo, che all’ultimo minuto ha avuto un impedimento e non mi ha neanche potuto avvertire…
Sono le 22 passate, in maniera ossessiva riprendo in mano il cellulare e rileggo il suo ultimo messaggio:

Schietta, criptica quanto basta, era datato 17e23.
Il mio era delle 20 passate.
Da allora nessuna risposta, e nemmeno prima, e dire che me le ero anche aspettate, quando è sola, di solito, non si perita a rispondere, e nemmeno usa troppi giri di parole. Ma era evidente che quel suo ultimo messaggio, era abbastanza criptico, avrebbe dovuto essere l’avvisaglia di qualcosa, che ne so… un rapimento!
Mentre la mia idiozia paranoica galoppava l’orologio scorreva con una lentezza esasperante.
22e17… 22e18… 22e19…
Spenta l’ennesima sigaretta maledico il creato e per l’ennesima volta e mi rigiro nel letto.
Ero stato talmente stupido da farmi mille castelli in aria, e mi erano venuti così belli che mi ero anche sprecato in uno slancio edonistico che si era concluso con l’acquisto di una vergognosissima scatola di cialys!
Ma l’averla comprata non bastava, dopo aver rifinito il bugiardino, avevo anche ben pensato di prendere una pasticca in tempo per sortire il massimo effetto…
L’unico risultato certo che stavo ottenendo è che ero seriamente scombussolato, irritato, arrabbiato, e con un carico di eccitazione, oramai deviata sul nervoso, che mi impediva anche solo di prendere sonno.
Il cellulare mi scosse, quasi spaventandomi dalla mia trance di pensieri pessimistici, era lei e risposi d’un fiato.
“Ehi! Tutto bene?” credo che mi sentì trafelato e preoccupato al contempo.
“Si scusami! tutto bene, ma il treno aveva un ritardo bestiale e il cellulare mi era anche morto…” la sento effettivamente un po’ meno scintillante del solito.
“Ho capito, dai, mi stavo solo preoccupando un po’…” mi rendo conto ora che la mia voce suona come quella di un centometrista strappato ad un record.
“Tranquillo… Sto benone, solo che sono stanca morta…” sono il solito idiota, ogni volta che mi creo aspettative, sbatto il viso contro una realtà ben poco magnanima.
“Beh… immagino…” non oso nemmeno aggiungere l’ovvio seguito.
“Senti… dammi il tempo per una doccia, a che camera stai?”
“Eh… alla 506, quinto piano…”
“Ho capito, senti, dammi mezz’ora per una doccia e salgo a salutarti… sono stanca morta, ma almeno un bacio te lo meriti!” uno sprazzo dei suoi sorrisi mi rincuora un poco.
La saluto, e veloce mi infilo in bagno anche io, tra la mezza arrabbiatura e il resto non ero nemmeno stato sfiorato dal pensiero di una doccia, e dopo un giorno di lavoro, e il viaggio in macchina, non sono di sicuro un fiore.
L’acqua bollente è una frusta che lenisce e rilassa i muscoli, la mia testa si alleggerisce, dello sporco accumulato e di buona parte dello stress.
Quando esco dal bagno ho la testa umida, ma non me ne importa, come al solito la temperatura della camera è sahariana, e nonostante il termostato al minimo, sono sempre convinto che fuori dalla finestra ci siano dei beduini che abbeverano i cammelli.
Bussano alla porta, è tenue, quasi discreta, mi rendo conto di essere ancora in accappatoio, ma quanto ci sono stato nella doccia?
22e42, non mezz’ora di certo!
Mi stringo nella spugna e apro piano la porta, è lei, si guarda un attimo intorno e si infila agevolmente dentro la camera.
Non ho nemmeno il tempo di guardarla, mi ha messo le braccia al collo e mi ha stampato un bacio voluttuoso sulle labbra, meno male che la porta si chiude da se.
“Ciao dolcezza!” fa con fare affabile. “Scusa ancora per il silenzio, mi spiace che ti sia preoccupato!”
“Non fa nulla non è colpa tua, e poi sono cose che capitano, le avremmo dovute mettere in conto no?” mentre la abbraccio per i fianchi mi perdo per un attimo nei suoi profondi occhi neri.
“Già… ” si scosta a guardarmi. “Ma sei appena uscito dalla doccia!”
“Eh si… appena arrivato mi sono messo un po’ a riposare sul letto…” menzogna mia fatti capanna.
“Hai ancora i capelli umidi…” sfregandosi le mani che mi avevano preso per la testa un attimo prima.
Aveva indosso un maglioncino attillato, di quelli con la cerniera lungo tutto il davanti, un paio di jeans comodi, i capelli tirati su, le cadevano come boccoli qua e la, bella come sempre.
“Non è che ti sei messo in testa strane idee… vero?” e mi guarda sospettosa. “Te l’ho detto che sono stanca…” lascia in sospeso la frase quasi si sentisse in colpa.
“Si, si, lo so, tranquilla, sono solo uscito di doccia, credevo di averlo il tempo per vestirmi!” sorrido, un pelo imbarazzato, ma è la verità.
Mi squadra sottecchi un pochino, poi sembra decisa a credermi.
“Uhm… Va bene, ti crederò…” sorride, si avvicina di nuovo e alzandosi in punta di piedi mi sussurra. “E adesso ti do il bacio della buona notte… tu domani farai il turista, io invece devo far finta di stare attenta ad un corso noiosissimo…
Affondo le mie labbra sulle sue, dischiudendole quel poco per far si che le lingue abbiano libero sfogo, come sempre il contatto con quel suo muscolo è elettrizzante, magari è solo una mia impressione, ma sono fermamente convinto che ne abbia un controllo totale.
La stringo inevitabilmente a me, schiacciando i suoi seni attraverso il maglione e l’accappatoio sul mio petto, è una sensazione di durezza e sofficità che mi elettrizza, mi eccita e mi soddisfa oltre ogni modo.
Forse è solo l’idea, un lampo di immaginazione, ma ricordarsi cosa era capace di fare la sua lingua su tutto il mio corpo, mi eccita, e l’idea di averla ora nella mia bocca quasi mi commuove.
Mi allontana con decisione, senza eludere il mio abbraccio mi tiene un po’ a distanza con le mani sul petto.
Mi guarda, sembra quasi arrabbiata.
“Mi hai detto una bugia…” è un sussurro roco, non capisco se adirato o altro.
“Eh?” onestamente stupito.
“Niente idee strane…”
“Va bene! Che ho fatto di strano?!?” sul serio, non capivo.
Lei abbassa lo sguardo, lo seguo, il mio uccello era uscito dall’apertura dell’accappatoio, rigido e duro, l’effetto di quella dannata pasticca si era scatenato con la sua vicinanza, le premeva spavaldo sulla coscia.
Rimaniamo un attimo in silenzio.
“Ok, mettiamola così, io non ho avuto nessuna strana idea, ma Lui, non sempre mi da retta!” cerco di buttarla sullo scherzo, non c’è nulla di male in tutto questo, lo capisco, ma non voglio nemmeno che lei pensi che sto deliberatamente ignorando il suo gentile diniego sessuale di poc’anzi.
“Non so se credere a te… o a lui!” sorride divertita, sono sollevato.
Scende piano con la mano destra, fino a sfiorarlo delicatamente con un paio di dita, lentamente lo afferra, mi rendo conto solo ora dell’entità della mia erezione, è durissima, di marmo proprio, e pure di dimensioni, almeno per me, notevoli.
Guardandolo a testa bassa inizia a masturbarmi con decisa lentezza, con i suoi soliti movimenti misurati e studiati.
Rimango immobile, non oso nemmeno sfiorarla, come sempre è lei che decide e conduce, e io, più per paura che altro, attendo di vederne i risultati.
“Beh… se ho dato il bacio della buonanotte a te, mi sembra giusto darlo anche a lui no?” mi guarda con gli occhi di nuovo accesi dalla malizia. “Altrimenti mi sentirei in colpa… a farlo stare alzato tutta la notte… da solo…” sussurra le parole mentre si abbassa in ginocchio davanti a me.
L’ho sempre vista assolutamente dedita al piacere maschile, ma con me, non era mai stata così remissiva, c’era qualcosa di nuovo nel suo comportamento, una sfumatura che lì per lì non colsi e che sarei riuscito a chiarire solo qualche giorno dopo.
Smise di parlare infilandosi il mio uccello completamente in bocca, senza alcuna remora, lo ingoiò quasi fino in fondo, tenendo scostati i lembi dell’accappatoio, premette più volte cercando di mangiarlo tutto.
Io la guardavo ipnotizzato dall’alto, preso da lieve senso di vertigine, vedevo la sua bocca spalancata che cercava di fagocitarmi completamente.
Non era un pompino come le altre volte, delicato, quasi tecnico, teso a esaltare in me tutto il piacere possibile e per il tempo più lungo possibile, era qualcosa di diverso, animalesco, era come se me lo volesse mangiare, e, se possibile, in un unico boccone!
Quando iniziò a gorgogliare mi resi davvero conto che si stava coinvolgendo in maniera diversa rispetto alle nostre precedenti scopate, mi succhiava il cazzo a labbra serrate fino a dove poteva, poi forse per respirare, o forse solo per facilitarne l’inserimento, le apriva e gorgogliando, guadagnava qualche altro millimetro che gli sfuggiva nell’altra maniera.
Si mosse avanti e indietro per qualche minuto, poi riprendendolo con le mani se lo sfilò di bocca e mi guardò quasi fiera di quel trofeo di carne luccicante che teneva fra le mani.
“…lo sai che è fantastico?” mi sussurrò deglutendo la propria saliva.
“cosa?” con la testa leggera.
“Il tuo cazzo! E’ duro… grosso e… più ti ecciti, più mi piace il suo sapore…” passandosi un innocente lingua sulle labbra gonfie e rosse per l’attrito.
“Davvero lo gradisci così tanto?” sorrido sornione.
“Ah-ah…” annuisce rimettendoselo in bocca un attimo. “E’ uno dei migliori che abbia mai succhiato…” conclude tenendosi la mia cappella tra le labbra.
Qualcosa mi batte dentro il cervello, una vampata mi sale lungo la schiena infuocandomi le orecchie.
“…mi chiedo soltanto quanto ti piaccia tenere in bocca un cazzo…” sto cadendo dentro un qualcosa che non conosco.
“…non sai quanto…” sibila mentre con la lingua passa sul filo della cappella.
“…sono proprio curioso…” e mi sembra che ci sia qualcun’altro al mio posto.
Le prendo delicatamente la testa per i capelli con una mano e la spingo con fermezza incontro al mio pube, lei istintivamente dischiude le labbra e riaccoglie il mio membro dentro.
E’ calda, come sempre, un forno, mi muovo con lentezza, sono io che dò il ritmo adesso, e lei, incredibilmente docile mi accoglie accompagnando i movimenti del pene con conseguenti passaggi di lingua.
E’ fantastica, e me la sto godendo tutta, remissiva e servizievole, la scopo nella bocca gustandomi tutto lo spettacolo, possedendola, oltre che con il mio cazzo anche con lo sguardo. Se ne accorge dopo poco e ne approfitta per guardarmi diritto negli occhi.
Il suo sguardo naturalmente intenso è vizioso, sembra succhiarmi dentro di se non solo fisicamente.
Ci guardiamo per qualche minuto ancora, con il mio andirivieni assolutamente lascivo e voluttuoso, godendomi sia la carne che la vista dello spettacolo.
Ma questa sera non sono io, o almeno non completamente, la sua espressione è eccitata ed eccitante, quasi implorante, mi sembra chiedere di più.
E sono deciso a darglielo!
Aumento il ritmo del bacino, da un lento andirivieni mi porto a colpi intensi, non violenti, ma decisi.
Le tengo la testa ferma con entrambe le mani mentre affondo senza troppi complimenti dentro le sue labbra.
Antonella mi stupisce ancora, non si ritrae, non fa resistenza, anzi, infilando le mani sotto l’accappatoio mi stringe per le natiche, dando, se possibile, maggiore stabilità al mio movimento.
Aumento ancora la velocità, mi muovo tutto per mantenere il ritmo, mi tremano le gambe e non so quanto potrò continuare, prima di cadere per terra. Non riesce più a guardarmi negli occhi, ma si rende facilmente conto della situazione e invece di rinunciare e togliersi la sento che inizia a succhiare.
Subito in maniera incerta, poi, via via, che si abitua al ritmo, sento che si mette d’impegno, e mi sugge il pene con forza, violenza quasi, ha perso il controllo.
Involontariamente ho premuto un pulsante che la sta facendo uscire dai normali binari.
Mugola lei, grugnisco io, e nonostante tutto, il rumore del risucchio che sta mettendo in atto sovrasta tutto quanto.
Il tempo si perde dentro il piacere che mi viene dall’ uccello e… da quello che mi sta esplodendo in testa. Le gambe non mi reggono bene, sto sudando, e sono al limite, o mi fermo o cado per terra.
Non mi rendo nemmeno conto di quando vengo.
C’è un blackout di coscienza nella mia mente, le schizzo un pomeriggio di frustrazione e rabbia direttamente in gola.
Non le sto tenendo la testa ferma per non farla ritrarre, a dire il vero non ci prova nemmeno, più facilmente sono io che mi ci aggrappo per non crollare.
Quando rientro in me, sto ansimando come un mantice di una fonderia, sono sudato fradicio, il viso in fiamme, le ginocchia piegate mi danno un equilibrio precario, mentre lei non si è ancora staccata dal mio uccello.
Cedo, le scosto la testa, non che abbia riguadagnato sensibilità, anzi, penso oggi che quello fosse proprio un orgasmo di nervi più che altro, solo che non ce la faccio proprio a reggermi in piedi, barcollo all’indietro fino al letto.
Ci crollo sopra, con una seduta degna di un menhir.
Lei rimane in ginocchioni al solito posto, scrutandomi con i suoi occhi scuri e penetranti, non dice nulla, tiene la bocca chiusa. Stà così per qualche decina di secondi.
Poi si alza, si avvicina al mio volto, mi stampa un bacio su una guancia.
“… sono stanca davvero… scusami, ora vado a letto…” la voce è roca, ancora eccitata, ma ferma, come se si stesse reprimendo.
Apre la porta senza nemmeno voltarsi, la richiude discretamente alle sue spalle, io crollo definitivamente sul letto alla naftalina dell’albergo.
Sono stanco anche io… forse dovrei farmi una doccia, un altra, magari dopo, si dopo…
E tra i fumi del sonno, vedo che il mio uccello svetta ancora, pulito e nettato, di una sfrontata erezione.
“… maledette pasticche…”
La mattina ha un sapore indefinito, impastato e tedioso, mi sveglio giusto in tempo per una doccia veloce e lesinare qualche avanzo dal buffet della colazione.
Sono solo nella sala, una cameriera stanca mi chiede se gradisco qualcosa.
Un caffè, macchiato, anzi nò, meglio un cappuccio, le spiace?
Volta il culo e se ne torna dietro al bancone, veloce, forse con la paura che cambi ancora idea.
Mangio, ho fame, ma continuo a tenere lo sguardo sul cellulare, muto, non un messaggio, non una chiamata, niente.
In effetti la sera prima se n’era andata in maniera un po’ ‘strana’, ma un saluto mattutino in situazioni come queste non me lo faceva mai mancare.
Non so che fare, ed è una norma.
Quindi decido di fare quattro passi in centro, forse l’aria fredda mi avrebbe schiarito le idee.
Stradine strette, piene di gente che, indaffarata, si muove, col mio sguardo distratto, senza uno scopo.
Cammino, per un bel po’, forse un ora, forse di più, non so nemmeno dove sono, ma non importa, a mali estremi un taxi mi avrebbe ricondotto sulla via dell’albergo.
Il pollicino cittadino ha briciole in moneta che lo riportano sempre a casa.
Entro in un parco, non so manco se sia importante, mi siedo su una panchina e mi accendo una sigaretta.
Infilando le mani in tasca sento la fredda superficie del telefono, lo tiro fuori e lo guardo.
Due chiamate non risposte e un messaggio.
Sono i miei, cavolo, in tutto sto tran tran mi sono scordato di chiamarli.
Rimedio subito, e la voce petulante di mia madre prova a farmi una predica, non l’ascolto nemmeno.
Esaurite le pratiche famigliari, guardo l’sms.
E’ suo.
-Come stai?-
E’ di un ora fa.
Controllo l’ora, mezzogiorno e mezzo, forse sono in pausa pranzo, rispondo.
-Bene! Sono in giro per il centro, e tu come te la passi al corso?-
Finisco la sigaretta, mi rialzo e decido di trovare un posto dove mettere qualcosa sotto i denti.
Dopo una ventina di minuti trovo una pizzeria al taglio, mi infilo dentro e aspetto il mio turno.
La tasca mi vibra.
-Ho bisogno di parlarti, ci sono dei problemi.-
Secca e precisa, quasi una mattonata in testa.
Rileggo il messaggio e la commessa della pizzeria mi chiede per la seconda volta quello che voglio.
Farfuglio un pezzo di margherita e una mezza d’acqua, pago ed esco.
Faccio un sospiro e rispondo.
-Immagino tu non possa subito al telefono, a che ora rientri in albergo?-
Mastico svogliatamente in attesa di una risposta.
Un paio di minuti e ho la sentenza.
-Mi libero da qui appena possibile, te riesci ad essere in camera per le tre-
Rispondo con un inespressivo si, cos’altro avrei potuto dire?
Ma è più delle una, e non so quanto sono distante dall’albergo, mi guardo in torno, entro in un bar e chiedo indicazioni per la piazza in cui è sito l’albergo.
Una mezzoretta a piedi mi dicono, tra me e me raddoppio la stima e mi incammino.
Per fortuna che il centro storico di questa città è tutto perpendicolare, difficile sbagliarsi.
Cammino a passo svelto, mentre la mia immaginazione partorisce un film dietro l’altro: deve rientrare per motivi di famiglia, sai i bambini’ il marito’
Oppure è proprio il marito che l’ha raggiunta’ si con i figli al seguito.
Rifletto, quest’ultima versione non regge molto.
Comunque sia sono convinto che sia roba inerente al marito, si si, lui c’entra per forza.
Mezz’ora era la stima da podista, io, col mio passo me la cavo con poco meno di un ora, mai fidarsi completamente delle indicazioni che ti dà la gente del posto.
Sono appena le 2, salgo in camera e ne approfitto per farmi una doccia, in fondo sono sudato e l’acqua ha l’effetto di rilassarmi, e ne ho bisogno.
Mi sto asciugando i capelli quando avverto la vibrazione insistita del telefono che disperato, sul tavolo, cerca di attirare la mia attenzione.
Rispondo senza nemmeno controllare.
‘Pronto?’
‘Si ciao, sono Antonella, sei in camera?’
Guardo l’ora, 14e30, ma lei puntuale mai?
‘Si, certo, sono quassù.’
‘Ok, arrivo.’ Chiude la comunicazione.
Ho giusto il tempo di nascondere la biancheria sporca che la sento bussare.
‘Ma che gli prende?’ mi dico tra me e me.
Le apro e la vedo entrare ancora imbacuccata con il cappotto, la borsa e il batacchio delle chiavi della sua camera, è evidente che non ci si è nemmeno fermata.
‘Ehi.. ciao.’ Le accenno mentre mi supera e si siede sul letto con fare liberatorio.
‘Tutto bene? Calmati”
‘Tutto bene’ insomma” mi fa lei con lo sguardo basso.
‘Dai, ora sei qui, mi dici che succede? Anche ieri sera, sei andata via che eri strana.’ Basta preamboli, diritto al sodo.
Lei sbuffa, si toglie la sciarpa, molla borsa e chiavi sul letto e sbottona il cappotto.
‘Non so da che parte cominciare” dice piano.
Alzo gli occhi al soffitto, prendo la sedia che mi fa da attaccapanni, la giro e mi siedo davanti a lei.
‘Di solito si inizia dal basso, o dal pincipio, di solito questo rende le cose più facili.’
‘Già’ senti, ti ricordi quandi ti proposi questa cosa? Questo viaggetto?’
‘Si, me lo ricordo decisamente bene.’
‘Beh, di solito non mandano una sola persona di un ospedale a fare questo tipo di corsi, anzi, di solito ce ne mandano uno per reparto’ ovviamente se è interessato dall’argomento.’
‘Ovviamente’ chioso io.
‘E’ insomma, mi ero informata, e io dovevo essere la sola a venire”
Mi si accese una lampadina. ‘Ma non sei stata la sola?’ con fare palesemente retorico.
‘No.’ Poche volte in vita mia una sola sillaba ha aperto così tante consapevolezze come questa.
‘E il problema è che un altro del tuo ospedale è qui e non vuoi rischiare?’
‘Macchè!’ fa lei decisa ‘Siamo un migliaio lì dentro, sai che mi importa se ho un signor sconosciuto della mia struttura al corso, mica dobbiamo fare vita comune!’ con pizzico di astio.
‘Uhm’ allora non è un signor nessuno questo tizio.’ Affermo con la spavalderia di un semaforo rosso.
‘Eh, no, non è un signor nessuno.’ Conclude lei torcendosi le mani.
Mi alzo, prendo una sigaretta e l’accendo, tiro un paio di boccate, ma ancora lei non riprende.
‘Tutto qui?’ un po incerto.
‘E ti pare poco?’ ora mi guarda un po male.
‘Aspetta, ora spiegami, che lo sai che son curioso come una scimmia,chi è sta persona, un amico di famiglia?’
‘No.’
‘Un conoscente di tuo marito?’
‘No.’
”un”
‘E’ un MIO amico.’ Mi interrompe quasi scocciata.
‘Amico’ come lo sono io?’ ma quanto è difficile andare alla realtà alle volte?
Quanti giri di parole dobbiamo mettere tra ‘è un mio amante’ e ‘un amico’. La corrispondenza tra le due figure non è univoca, ci sono miliardi di scalature di rapporti umani tra le due categorie.
Ma tant’è, alle volte, con certe persone, e in determinati rapporti, ‘amico’ è ‘quello che mi scopo’, tutto sta ad avere l’edizione giusta del vocabolario sotto mano.
Non mi risponde, il suo sguardo mi basta.
‘Ok” e spengo la sigaretta. ‘Allora mi stai dicendo che è meglio che me ne torni a casa o ti lasci in pace per questi due giorni?’
Sembra seduta sui carboni ardenti, stringe le mani, balletta con i piedi.
‘Non so nemmeno io quello che voglio dirti” a sguardo basso.
‘Beh, lo sai che se credi che le cose non vadano per il verso giusto, me lo dici e tolgo il disturbo.’ Ora sono io ad essere seccato.
‘Ma ti sei fatto tutti questi chilometri, e poi l’albergo, insomma, ti ho promesso mari e monti e adesso non voglio”
‘Non vuoi cosa?’
”non, non voglio mandare tutto all’aria, ci rimarresti male, lo so, ci rimarrei male anche io”
La guardo bene, ma è la stessa Antonella che conosco?
Inizio a nutrire dei dubbi, mi risiedo di fronte a lei e la squadro più attentamente.
‘Beh,è normale che ci rimanga male, ma non voglio nemmeno che tu ti senta in obbligo nei miei confronti, ne tantomeno ho voglia di starmene, di notte, in camera a tenere il lanternino” concludo e osservo le sue reazioni.
Alza un attimo lo sguardo a incrociare il mio, ma non lo sostiene per molto, si rimette subito a guardarsi le ginocchia.
‘E poi.’ Decido di rincarare la dose. ‘Se questa persona è così importante, dimmelo e basta, mi tolgo di torno, non voglio essere un problema!’
La vedo avere un sussulto e fulminarmi con lo sguardo.
‘Guarda, problema, che ho finto di non sentirmi bene, per scappare da quel corso e venire qui da te, a parlare, perche il problema è, che volevo essere chiara con te!’
Intravedo la luce in fondo al tunnel.
‘Con te sono sempre stata onesta, nei limiti ovviamente.’
Un ovviamente da due tonnellate di sottintesi.
‘E’ da ieri pomeriggio che c’è il problema, perche me lo sono ritrovato in treno.’ Continua lei. ‘E non mi è piaciuto no farmi sentire.’ Mi guarda fiammeggiando.
‘Quella del cellulare morto era una cazzata.’
‘Era una cazzata!’ Mi interrompe. ‘Con un marito e due bambini, secondo te, mi posso permettere di avere un cellulare scarico?’
Taccio, la risposta è scontata.
‘Pensavo di poter gestire la cosa” si guarda di nuovo le rotule attraverso i jeans attillati.
‘Immagino” chioccio io.
‘Immagini cosa?’ di nuovo mi fulmina.
‘Ma nulla, dico che, si, insomma, penso che avere due amanti, nello stesso albergo e con le stesse idee in mente non sia una cosa gestibile.’ Parlo quasi per scusarmi.
‘Già’ per nulla’ e poi” mi scruta con quei suoi occhi neri. ‘E poi c’è stato ieri notte”
‘Ah, eh.’ Rido imbarazzato. ‘Scusami, sai, non ti volevo davvero forzare, è successo così’ mi conosci un po vero?’
Mentre blatero queste scuse lei si è alzata, mettendosi le mani sui fianchi sotto il cappotto passeggia nervosa per il breve tratto di camera disponibile.
‘Non è per quello, smettila, lo sai che se non mi va una cosa non la faccio, punto e basta.’
‘Già, si, vero.’ Com’è che adesso sono io a tenere lo sguardo basso?
‘All’inizio mi sono sentita un po in colpa e allora” lascia in sospeso la conclusione.
‘In colpa perche quell’altro ti ha fatto una sorpresa sul treno?’ Sarei un po stupito.
‘No.’ Fa lei fermandosi a guardarmi dritto negli occhi. ‘Mi sentivo in colpa perche quell’altro mi ha scopato nel bagno del treno, mentre te mi aspettavi qui.’
Ho un nodo in gola.
Riesco solo a dire un ‘Ah’ ‘
‘E’ che all’inizio mi sentivo in colpa, ma poi mi è piaciuto, non ti credere” un guizzo del soliti occhi sorridenti mi rimette un poco in pace col mondo.
‘E allora dov’è il problema?’ Sono onestamente smarrito.
‘E allora’ ma come e ALLORA? Ma dimmi, non ti sei accorto di nulla ieri sera?’ Mai stati davanti all’inquisizione? No? Siete nati troppo tardi? Fidatevi c’è ancora e lei ne fa sicuramente parte.
‘Beh”
‘Ti ho bevuto Ale!’ blocca il mio belare con un colpo da cecchino. ‘Non te ne sei reso conto? Quante volte ti ho preso in bocca l’uccello da quando ci conosciamo? Lo sai? No?’
‘Otto, nove?’ voce tremula e incerta.
‘Dodici!’ Cazzarola, va bene ricordarsi gli anniversari, ma tiene conto di queste cose?
‘Come fai a dire dodici? Come tieni il conto scusa?’ sono un imbecille, lo so.
Mi guarda talmente male che avrei preferito uno schiaffo.
‘Ok bimbo, più chiara ed esplicita, mi sei venuto in bocca dodici volte, capito? Mi hai schizzato lo sperma? La sborra, come cazzo la vuoi chiamare!’ Addio, quando dice le parolacce siamo messi male, molto male.
‘Dodici volte, Ale, e ieri sera ti ho bevuto’ e non è stato un caso, ne uno sbaglio, l’ho voluto fare, mi andava di farlo, mentre mi pompavi in bocca ero fradicia all’idea che mi avresti fatto bere il tuo seme”
Adesso si è voltata, ha sempre questa posa lievemente drammatica, guarda la finestra parlando e mi da le spalle.
‘Ok, lo so che sto per infilarmi in un guaio, ma lo dico lo stesso: va bene, ieri sera non ero proprio molto presente, e non mi sono accorto di quello che mi sta facendo notare, ma perche ne stai facendo un dramma? Non avrai mica paura che io”
‘No scemo! Ti conosco! Se avessi anche solo lontanamente quel sospetto non saremmo mai stati a letto insieme’ e ti scordi sempre che sono un infermiera, volendo posso vedere tutte le cartelle cliniche che mi pare!’ si volta di sottecchi e sembra sogghignare.
‘E allora, che c’è?’ tra l’esasperato e lo sconcertato.
Si volta, fa due passi, si mette davanti alla mia sedia e si piega portandosi all’altezza del mio viso.
‘Il problema caro Alessandro mio caro, è che quello lo faccio solo con chi mi piace davvero.’
Non mi dà il tempo di rispondere e mi stampa un bacio in bocca.
Quando si scosta mi guarda con uno sguardo dolce e implorante.
‘Sono pochi gli uomini che vale la pena bere, sai?’ Con fare malizioso. ‘Mi fai una promessa?’
‘Dimmi.’ Non riesco a staccare gli occhi dai suoi.
‘Mi prometti che non te ne approfitti?’
‘Eh?’
‘Se prendo una sbandata per te, mi prometti di non approfittartene?’
Rimango per qualche secondo in silenzio.
‘Lo sai come sono, non ti farei mai fare cose che non vuoi” provo ad argomentare.
‘Non parlo del sesso, quello va bene, va bene tutto se ne abbiamo voglia in due, parlo del resto, di quello che c’è fuori da questa camera”
Continuo a guardarla.
‘Ok” le dico. ‘Ho capito, non me ne approfitterò.’ Sono meccanico, ipnotizzato dai suo occhi.
Lei sorride e si rialza, una scrollata di ricci scuri e sembra tutto passato, leggera e dolce come sempre.
‘Allora’ adesso che si fa? Vuoi che vada via?’ cerco di rimettermi sul discorso precedente.
‘No! Non voglio che tu te ne vada, anzi, vorrei che lui se ne andasse, ma questo proprio non posso farlo.’
‘Ma scusa, che problema c’è? Non capisco, digli che non ti va di scopare con lui chiuso lì, no?’
‘Eh, fosse così facile, questo è un po maniacale, ho paura che verrebbe a controllare se sono o meno in camera.’
‘Capirai, digli che stavi dormendo, o qualcosa di simile.’
Mi guarda con sguardo rassegnato.
‘Ha la camera contigua alla mia.’
E con questo ha detto tutto, carino quest’albergo, ma le pareti sono di carta velina, si sente tutto, pure il cigolio della porta del bagno.

Leave a Reply