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Racconti Erotici Etero

Un’amazzone di nome Ilaria

By 6 Gennaio 2013Dicembre 16th, 2019No Comments

Su un livello puramente biologico, è risaputo che l’attività sessuale ‘ o semplicemente SESSO se parliamo tra noi intimi ‘ sia molto salutare. Essa infatti libera sostanze quali l’endorfina, che riduce drasticamente dolore e preoccupazioni. Ma soprattutto, per quanto riguarda noi uomini, c’è un aumento dell’adrenalina e, conseguentemente, della propria autostima.
E’ esattamente così che aveva funzionato per me, dopo l’incontro con Giulia (vedi racconto precedente).
Ma questa sensazione di poter spaccare il mondo non dura per sempre. Svanisce quando ti fermi. E ben presto, per i mesi che sarebbero seguiti almeno fino all’inverno successivo, fui vittima di brutti pensieri, brutte domande e menate mentali controproducenti.
La prima delle quali era: Giulia, che ormai non si faceva più sentire da un po’, era stata davvero attratta da me o aveva semplicemente un’attrazione sessuale per gli inesperti?
Potrà sembrare strano, ma la cosa non mi eccitava. Anzi, mi rendeva triste. Perché, sotto sotto, mi ero invaghito di quella ragazza.

Dopo le vacanze natalizie di quell’anno, mi sentivo molto fiacco e così decisi di iscrivermi in palestra. Personalmente non credo che riuscirò mai più a frequentare una palestra nel periodo più freddo dell’anno, ma quello riuscii comunque a godermelo. Il mio orario di allenamento oscillava tra le 17:00 e le 19:00, quando uscivo da lavoro, e verso quella fascia oraria la palestra brulicava di miei coetanei, il che mi permetteva stringere molte amicizie.
C’erano molte ragazze. Ovviamente troppi ragazzi, e come al solito questo generava numerose competizioni a cui non partecipavo nemmeno. Tra le tante signor donzelle che mi danzavano vicino, però, ce n’era una che mi incuriosiva particolarmente per il suo carattere un po’ sbarazzino. Ilaria.
Era bassina ma tonica, con capelli biondi che legava in una coda di cavallo. Di lei notai immediatamente quella sua abitudine di alzare uno dei lati dei pantaloni da ginnastica all’altezza della coscia e lasciare l’altro giù.
Devo essere sincero: non ero particolarmente attratto da lei. Non che fosse brutta, al contrario. Era molto carina. Credo però che mi sentissi intimorito dalla sua energia: non stava ferma un attimo, non intervallava i set degli attrezzi, passava da un esercizio all’altro senza interruzione, sollevava i manubri da sei a dieci chili per i bicipiti. Credo che se l’avessi sfidata a braccio di ferro mi avrebbe rotto una spalla. Aveva all’epoca 21 anni, due più di me.
Tra i maschi della palestra c’era qualche temerario che sfidava la sorte e la corteggiava (ops: TENTAVA di corteggiarla). In queste occasioni lei appariva decisamente infastidita e rispondeva per le rime, come una leonessa che difende i propri cuccioli.
Da parte mia… un po’ perché mancava l’interesse, un po’ perché non volevo finire sbranato come gli altri, non
azzardai mai alcun approccio. Non la guardavo, non le rivolgevo la parola. Il massimo che mi concedevo era sostenere il suo sguardo quando lo incrociavo sullo specchio enorme che stava di fronte gli attrezzi, e mi lasciavo sfuggire un sorrisetto tutte le volte che assistevo a un tentativo di approccio fallito.
Con l’esperienza di oggi, penso di poter dire che fu per questo che lei si avvicinò a me.

La prima volta fu solo per chiedermi se avevo finito coi manubri e se potevo prestarglieli. Le dissi: “Sì, ma occhio che sono dieci chili” e lei, come se io fossi un deficiente: “Sì… lo so”.
Poi, tra una richiesta e l’altra, un po’ per volta, strinsi amicizia anche con lei. O almeno, potevo dire di aver raggiunto un certo livello conoscitivo (perché con una leonessa non bisogna prendersi troppe confidenze).
Nonostante, come scritto prima, non fossi particolarmente attratto, non potevo negare che il suo atteggiamento mi sucitava dell’eccitazione. Forse, lo ammetto, era solo per il fatto che aveva “sfanculato” tutta la palestra maschile tranne che me, e quindi la mia era più che altro un’attrazione un po’ narcisistica. O forse era perché nel suo atteggiamento, nel suo modo di fare, di esibirsi con noncuranza, c’era davvero qualcosa che mi tentava.
Vi riporto due esempi: il primo risale a una delle prime volte che ci eravamo conosciuti. Stavo allenando i pettorali coi manubri mentre ero disteso con la schiena sulla panca. Le mi vide, mi salutò con un cenno, e avvicinò la panca libera accanto alla mia. Per farlo si mise letteralmente a novanta e vi posso garantire su quel che ho più caro che il mio viso e il suo sedere si trovarono per pochi attimi vis-à-vis. Lei poi si posizionò come me per mettersi a chiacchierare, ma ormai io stavo scomodo, visto che, mentre eseguivo l’esercizio, tentavo anche di nascondere l’imminente erezione.
La seconda volta invece mi trovavo a lavorare sull’attrezzo per le spalle. Anche in quest’occasione lei, appena arrivata, mi salutò e mi raggiunse per mettersi a parlare. Si posizionò quindi sull’attrezzo accanto al mio che serviva per i muscoli dell’interno coscia. Come si sedette, con le gambe spalancate per cominciare l’esercizio, io feci appello a tutti i miei nervi e chiesi loro di rimanere saldi. Come ho detto, gli attrezzi erano tutti posizionati verso lo specchio. L’occhio mi cascò sulla sagoma della sua vagina ma fui costretto a riacchiapparlo prima che lei se ne accorgesse.
Un pomeriggio mi ritrovai a masturbarmi pensando a lei.Capii che avrei dovuto fare qualcosa.

Non sapevo esattamente cosa fosse quel qualcosa che avrei dovuto fare, dal momento che la mia esperienza in fatto di ragazze era praticamente pari a 0… Se si esclude Giulia, ovviamente, ma in quel caso aveva fatto tutto lei.
Credevo che se io avessi tentato di portare la nostra amicizia a un piano superiore, lei avrebbe reagito male, e mi avrebbe considerato alla pari di coloro che aveva sempre allontanato. E passarono giorni, settimane con questo dubbio amletico che mi rovinava le ore della giornata, anche quando avrei dovuto studiare per gli imminenti esami universitari.
Realizzai allora che potevo fare solo una cosa: chiederlo e basta. Anche la più brutta delle risposte avrebbe ucciso quel dubbio così fastidioso.
Perciò, poco prima che mi scadesse l’abbonamento alla palestra (siamo nei dintorni di maggio), eccola là che ancora una volta mi scorgeva tra la folla e mi raggiungeva. Cominciò a parlare come faceva lei. Parlò degli esercizi, della scuola, e parlava parlava parlava. Che chiacchierona.
“Che fai stasera?” la interruppi. Diretto, deciso. Folle. La guardai negli occhi, per studiare ogni sua minima espressione facciale.
Com’era strana, quando stava zitta.
“In che senso?”
“Nel senso se vuoi uscire o no.”
Lei distolse lo sguardo e cominciò invece a fissarmi attraverso lo specchio.
“Ho già un impegno” mi rispose secca.
“Come vuoi” risposi io senza fare una piega, “Era per fare qualcosa.”
Calò il silenzio. Imbarazzante. Nuovo. Non ci ero abituato.
Finito l’esercizio, non sostenevo più quella situazione di gelo, perciò le dissi: “Sono ancora nei paraggi, se cambi idea” e in un lampo, mi dissolsi.
Pensavo di aver mandato tutto all’aria, ma non ero assolutamente pentito di quel che avevo fatto. Ci avevo provato, e questo era importante, soprattutto per uno come me. Pensavo che non avrei più parlato con lei.
Ma mi sbagliavo. Mi fece una sorpresa. Mentre stavo per andarmene via, diretto verso gli sogliatoi a fare la doccia, lei mi chiamò: “Stasera no. Ma magari domani ci sono.”
Non sapevo bene come reagire. Tutto quel che riescii a fare fu annuire e lanciarle un sorriso.

E fu così che la sera successiva andai a prenderla con la macchina per portarla fuori a cena. Quando la vidi arrivare col suo bel vestititino da sera color azzurro, coronato con calze azzurre e scarpette nere, mi sembrò quasi di aver commesso una gaffe. Era una ragazza completamente nuova. Aveva lasciato i capelli biondi sciolti sulle spalle che le decoravano il viso minuto. Aveva messo del trucco, ma non eccessivamente. La sua corporatura forse stonava un po’ con tanta eleganza, e per me, che seguo il wrestling, fu inevitabile paragonarla a una diva del ring. Ma non fraintendete, eh: non era un ammasso di muscoli contenuti in un vestito da sera, anzi. Era un bel fisico tonico e allenato, curioso e allo stesso tempo invitante. Non mi spaventava, al contrario. Mi eccitava. Mi eccitava lei, mi eccitava la sfida.

La serata si svolse in in modo un po’ strano, credo. Non ricordo molto bene, ma ricordo che, al momento dei saluti, ero sicuro di essermela giocata definitivamente. Avevo fatto il “me stesso” e forse avevo trasmesso insicurezza, ma la figura peggiore fu quella di aver calcolato male i soldi, per cui non avevo potuto offrirle la cena come un galantuomo. Bella figura, sì.
La riaccompagnai sotto casa.
Una volta parcheggiato di fronte al marcipaiede, la prima cosa che notai fu che non scese subito. Forse avevo qualche speranza, dopotutto. Continuammo il discorso che stavamo facendo, che sinceramente non ricordo quale fosse (chi se ne frega?). Notai inoltre che mentre parlava si tocchicciava la punta dei capelli e questo mi divertiva.
Tra le tante cose arrivai a parlare del mio gatto e la invitai ad aggiungermi tra i contatti di un social network che non era quello famoso (all’epoca Zuckemberg era ancora a smanettare sul joystick coi compagni di corso).
Così lei mi disse: “Ma scusa, fammelo vedere, no?”
Non so se il doppio senso era voluto, ma di certo colsi al volo l’occasione e accettai l’invito di salire “per pochi minuti” ‘ i famosi pochi minuti. In casa non era sola, ma i suoi genitori erano già a letto. Accese il computer e mi invitò a sedermi sulla sedia girevole. Io la feci sedere sulle mie ginocchia e in un paio di click la intenerii con la foto di Muso, ossia il mio gatto. Mentre guardava la foto sul monitor io avvertivo il suo buon profumo e mi avvicinai per baciarla sul collo. Lei non protestò. Provai allora ad azzardare di più e la baciai ancora poggiandole le mani sui fianchi e poi abbracciandola, ma a questo punto lei si ritrasse.
“Scusa” mi disse “Non ho voglia”.
Mi fece sentire molto in imbarazzo e allora tentai di risolvere: “Scusami tu, per me va bene lo stesso se non vuoi”. Accettò le scuse, mi sorrise e si sedette sul letto. In quel momento le passò il nervosismo e il suo sguardo tornò ad essere dolce.
“Ho reagito un po’ male. Scusami. Ma l’hai visto anche tu. Io sono abituata a ragazzi che tentano in tutti i modi di portarmi a letto e finita lì. Io penso di essere di più.” Ero sinceramente dispiaciuto nell’ascoltare ciò che diceva e mi sentivo anche molto in colpa. “Ho accettato di uscire con te perché sei diverso.”
“Diverso in che senso?”
“Sei semplice. Non hai piani, non hai pretese, non dai niente per scontato. E’ questo quel che mi piace di te.”
Le sorrisi: “Be’, non volevo spaventarti”, le dissi “E’ che tu mi piaci molto. Mi piaci perché intravedo della dolcezza oltre quel muro che ti sei costruita. Ma non volevo offenderti, a me sta bene anche chiacchierare. Però, se vuoi, forse è meglio se me ne vado”.
“Ma no, resta” mi fermò, “Parliamo un po’!” Accettai di buon grado e mi sedetti accanto a lei sul letto. E mentre parlammo e parlammo, anche questa volta non ricordo di cosa. Ricordo che ad un certo punto ci siamo guardati negli occhi e lì è calato il silenzio. Non so quanti secondi passarono, e non ricordo di aver pensato molto. Semplicemente ci siamo ritrovati abbracciati. Io la baciavo e con la mano le accarezzavo il collo, avvertendo il suo buon profumo di menta. Lei si lasciava baciare e portò le mani sulla mia coscia. Così volli essere ancora intrapredente, nonostante il rifiuto precedente, e molto lentamente la mia mano si infilava sotto la gonna, accarezzava le sue belle calze setose e percorreva tutta la coscia. Tirai la cerniera del suo vestito. Lei mi tolse la maglietta. In un attimo ci ritrovammo io a busto nudo e lei in reggipetto. Poco dopo neanche quello c’era più, e qualche secondo ancora più tardi calze e mutandine bianche erano state tirate via. Ora le vedevo bene la fighetta, completamente rasata e ornata da fantasiose labbra rosee e umide.
Insinuai la mia lingua tra le sue cosce, le risalii fino all’inguine e poi schioccai baci potenti sulle labbra della sua intimità (così piaceva tanto a Giulia). Una volta lubrificata, mi leccai due dita e le inserii piano piano nella fessura. Cominciai a masturbarla, intervallando le piccole penetrazioni con altre leccate sempre più approfondite. Avvertivo qualche pelo sporgente dopo la rasatura che solleticava la mia lingua, e diedi il benvenuto a tutti loro, lappando bene anche tutta la zona pubica. Lei sembrava apprezzare e non poco. Il suo busto si dimenava. Il pube si sollevava e abbassava senza controllo, sotto i comandi della mia lingua.
La sentivo gemere a bassa voce: “Cazzo… Cazzo, merda!”. Quei suoi gemiti contenuti mi ricordarono che i genitori erano nella stanza accanto e per un attimo mi si ammosciò. Ma ero troppo eccitato, e troppo stupido, per fermarmi.
Poco dopo le fui sopra, a cavalcioni mentre lei stava distesa sul letto con la schiena. Mi slacciò pantaloni e ne estrasse il mio membro duro e pulsante, la cappella già umida. Lo prese in bocca senza troppi fronzoli. Lo succhiò avidamente, lo strinse, lo masturbò, lo leccò. Ci metteva tanta energia quanta ne impiegava in palestra. I pochi rapporti che avevo avuto non mi avevano preparato a un tale attacco e di sicuro sarei venuto schizzandole direttamente in gola, se l’idea dei suoi genitori non mi avesse bloccato i canali. Paradossalmente, li ringraziai: avrei fatto una pessima figura, e a quel punto sì che mi avrebbe davvero cacciato di casa furiosa.
Ad un certo punto si staccò da esso e mi disse: “Devi mettermelo dentro!”
Mi adagiai di fretta sul letto, mi strappò via i pantaloni. Spalancò le gambe e fu sopra di me. Mi osservò bene nell pupille, con gli occhi sgranati la bocca aperta che ansimava. Mi fece mettere un preservativo in tutta fretta, mormorando “Dai, dai, veloce”, poi portò la mano su mio pene incappucciato e con l’altra apriva la sua vagina per inserirlo. Cominciò a scoparmi con vigore.
Diamine, che amazzone! I suoi glutei sbattevano sulle mie palle, il sue seno danzava a ritmo, su e giù su e giù. Le afferrai una tetta e gliela succhiai. Le mordicchiami il capezzolo, ci giocai e lo lo succhiai avidamente. I suoi gemiti contenuti avrebbero voluto esplodere come lei.
Non riuscii a resistere oltre e fui io quello che esplose, tutto nel cappuccio. Lei non credo che se ne accorse, perché continuò la sua cavalcata selvaggia. Il mio pene non sapeva se ammosciarsi, non avendo più batteria o se rimanere duro. Fatto sta che tanta foga, se prima mi aveva incitato a dare il meglio di me, ora faceva un po’ male.
Le dissi: “Ila, sto venendo, rallenta”. Dopo un po’, anche lei finalmente si mise a riposo, con buona pace del mio animaletto. Avevamo combinato un pasticcio. Le sua fighetta era fradicia e ancora aperta, esattamente come il mio preservativo che sembrava un palloncino pieno d’acqua. L’immagine di quella sua passerina provata, e l’odore che avvertivo nell’aria (l’odore di sesso) risvegliarono in me alcune sensazioni, e tornai a masturbarla e odorarla, ma con meno foga. Lei mi accarezzava la testa e taceva ansimante.

Ilaria rimase la mia ragazza per pochi mesi. Non avevamo molto in comune e il sesso tra noi cominciò preste ad essere noioso, perché lei non ammetteva altre pratiche che non fosse quella che ho appena descritto. Qualsiasi proposta o fantasia sessuale per lei era taboo. Forse se avessi insistito un po’ usando le parole giuste e cercando di essere meno egoista, avremmo potuto andare più in là e divertirci ancora. Ma l’esperienza non è mai da subito, altrimenti le cose sarebbero troppo facili.
Al di là del sesso, io e lei eravamo comunque caratterialmente troppo diversi, e la passione terminò nel giro di poco. In realtà la separazione non avvenne nel migliore dei modi. Litigammo. Infatti non ho più sue notizie da quel giorno.

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