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Racconti erotici sull'Incesto

La missione

By 13 Aprile 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Non posso definirmi invidioso, in via generale. Non desidero quello che hanno gli altri, anche se hanno più di me, anche se quello che loro hanno &egrave meglio di quanto io abbia.
Non ho mai pensato di sabotare quello che non &egrave mio.
Mai graffiato la carrozzeria d’un auto anche se mi impediva di uscire dal parcheggio.
Mai appropriatomi di oggetti degli altri, anche se mi sarebbe piaciuto averli.
Oggetti, cose inanimate.
Tutto cambia quando ci si riferisce alle persone.
Alle femmine.
Non mi rodo dentro perché altri possono godere dell’amore, soprattutto delle grazie, di una donna più bella, più attraente, più affascinante della mia.
Tanto meno aspiro a portargliela via, a strappargliela, per poi cantare vittoria.
Non si tratta di questo.
E’ difficile spiegarlo.
Qualcuno mi ha detto che sono schiavo di una ossessione, di un pensiero fisso e tormentoso; hanno anche parlato di invasamento, di possessione diabolica; hanno avanzato l’ipotesi che si tratti di psicopatologia, suggerito di consultare chi potrebbe identificare l’origine che sta alla base di un certo mio comportamento!
Quale comportamento?
Sarebbe molto elegante girare intorno alla questione, usare perifrasi, termini eufemistici.
Preferisco dirla com’&egrave, volgarmente.
Ho il desiderio fisso di scoparmi le donne degli altri o quelle che, per rapporti familiari, o altre cause inerenti alla loro scelta di vita, dovrebbero essere tabù per me.
Ho già detto che la bellezza non conta.
Neppure l’età.
La mia compagna &egrave splendida, fisicamente, é un’amate calda e appassionata, con lei riesco a raggiungere le vette del piacere, perdermi nel gorgo dei sensi.
Comunque, quella racchietta della moglie di Carlo, il mio migliore amico, mi tira da morire.
Lo so che qualcuno rabbrividirà e dirà che hanno ragione coloro che mi etichettano psicoinfermo, ma mai sono stato attratto, pur circondato da splendide e disponibili bellezze dalla pelle d’avorio o d’ebano, o dalle chiappette e dalle tettine della piccola volontaria filippina, che poi si rivelarono molto meno magrette di quanto immaginavo scorgendole sotto l’ampia e lunga veste.
C’&egrave un motivo, una spiegazione a questa ossessiva attrazione per la donna ‘proibita’?
Credo di si.
Ho desiderato, concupito, una donna che non ho potuto avere, e non per suo rifiuto, solo perché la tragedia me lo ha impedito.
C’&egrave da domandarsi, lo so, l’avrei avuta?
Questo, ormai, non ha più importanza.
Mi &egrave stato crudelmente strappato il miele quando la mia lingua stava per lambirlo!
Devo confessare alcuni corollari di questa mia mania.
Curo un’accurata annotazione degli episodi: per ordine alfabetico, da Anna a Zaira, comprendendo anche le lettere JKWYX, e per ordine cronologico.
Accanto al nome, il luogo. Dalla splendida russa della stazione scientifica di Lonyearbyen delle Svalbard, massimo punto Nord, circa 70′ parallelo, alla indimenticabile italo-argentina di Ushuaia, Patagonia, oltre il 55′ parallelo Sud; dalle storie romane, svoltesi al meridiano 12’30’ E Greenwich, alla sinuosa moglie della guida di Honolulu, proprio dall’altra parte della terra.
E, quando esiste, la classificazione che io definisco ‘tabuìsta’, cio&egrave perché dovrebbe essere considerata proibita?
Libretto segreto e prezioso, che custodisco come un tesoro, e che mi deciderò di distruggere solo quando mi accorgerò di non poterlo più tener lontano da altri occhi.
Per me, anche se sembrerà strano, due ‘categorie’ non hanno destato concupiscenza. Anzi una sola, perché non ho figlie femmine. Le compagne dei miei figli. Quasi avessi delegato al pene dei miei figli il compito di far fronte a tale compito, a quello che mi sono assunto con le altre.
Io la considero una ‘missione’. Ognuno ha la sua, nella vita.
Inoltre, a missione compiuta non mi interessa troppo reiterarla con lo stesso soggetto, salvo eccezioni.
Come dire, una volta unta del mio crisma non é necessario ripetere il rito. Rito che, logicamente, può osservare diversi cerimoniali, data la strumentazione in nostro possesso: organi genitali e’ dintorni, mani, labbra, lingua, bocca’
Nel mio Libretto, la prima in ordine di data &egrave zia Bice, la sorella di mio padre. Poco più di trentotto anni ‘venti più di me- brunetta, polposetta, vivace, cordiale, affettuosa. Sposa di un pacifico marito, alla soglia dei sessanta, più dedito a caccia e pesca che all’esercizio dell’attività coniugale.
Non me ne resi conto subito, ma fu un vero e proprio ‘transfert’. La mia bramosia insoddisfatta si trasferì su di lei, grazie soprattutto alla sua più o meno inconscia provocazione, dovuta certamente all’insoddisfacente regime sessuale che le imponeva il marito.
Quel giorno che eravamo soli a casa: marito a caccia, figlio a scuola, domestica al mercato, mentre era intenta a mettere a posto della biancheria nel suo armadio, mi chiamò, con accento preoccupato.
‘Piero, vieni un momento”
Accorsi immediatamente, era seduta sul letto, sembrava respirare a fatica, alzava e abbassava affannosamente il petto.
‘Cos’&egrave, zia?’
‘Mi batte il cuore’ senti”
Forse avrei dovuto poggiare la mano sul suo vestito, ma fu quasi naturale infilarla nella scollatura, dentro il reggiseno e più che ascoltare i battiti del cuore, palpeggiare coscienziosamente la tetta e stringerle il capezzolo turgido ed eretto.
Comunque, quella specie di chiroterapia ebbe il suo effetto che dapprima mi sembrò peggiorativo.
Il cuore di zia Bice accelerò, il respiro divenne più ansante, chiuse gli occhi, si morse il labbro inferiore, si poggiò sui gomiti, semiriversa sul letto. Poi, per agevolare il massaggio, si mise di nuovo seduta, portò le mani dietro la schiena, abbassò la zip per vestito, slacciò il reggiseno, liberando del tutto due belle e rigogliose tette. Si sdraiò completamente sul letto.
Quel contatto, quella grazia di dio a disposizione della mia mano agitata, mi stava eccitando come non mai.
Provai a scendere un po’.
L’ombelico’ l’elastico delle mutandine’ i primi peli, radi’ sempre più riccioluti e fitti’ le gambe che si dischiudevano’ le dita che s’infilavano tra le grandi labbra’ carezzavano, titillavano il clitoride’ raccoglievano l’umore della sua rorida vagina’. Il mio pisello che stava impazzendo’ .
Zia Bice abbassò le mani, le mise sotto il vestito, agilmente tolse le mutandine’. Afferrò la zip dei miei pantaloni, l’abbassò, afferrò il mio fallo, lo tirò fuori dal boxer, mi trascinò su sé, con la mia asta ben brandita, la portò all’ingresso della vagina palpitante, inarcò la schiena, sporse il bacino. La penetrai freneticamente, e immediatamente l’invasi del mio seme. Nessuna conseguenza sulla mia erezione, però, per cui ripresi subito la stantuffata appena iniziata e subito terminata. Zia Bice aveva incrociato le sue gambe sulla mia schiena, si muoveva ritmicamente, golosamente, aveva gli occhi socchiusi, le labbra semiaperte. Cominciò a mugolare, a gemere, a mungermi sempre più. Non ci preoccupavamo se la domestica poteva rientrare. Ci davamo dentro pazzamente.
Come se avessimo antiche intese, il piacere giunse nello stesso momento, ci travolse, io spinsi più che potei, sentii che incontravo qualcosa che andava cospargendosi del mio seme, e lei che con un urlo sembrava che volesse svellerlo e ingurgitare nel suo grembo.
Giacemmo così, per un po’.
Pian piano mi calmai.
Non fu facile sfilarmi da lei.
Il boxer, parte dei pantaloni, erano impiastricciati.
Lei fece un lungo sospiro.
‘Va a cambiarti, Piero.
La prossima volta dobbiamo toglierci i vestiti.’
^^^
Pamela non era quella che può definirsi una ‘pin up’.
Non superava il metro e sessantacinque, ed era grassottella. Una bella misura di tette e, per quello che avevo potuto constatare, di sfuggita, abbastanza ‘toste’. Analogamente dicasi del posteriore. Un visetto tondo, con occhi azzurri, forse un po’ troppo, e capelli biondi ma alquanto lanosi.
Pamela, mia cugina, anzi nel paese in cui abitava e nel quale ero andato in visita ai parenti, suo padre, si diceva ‘sora-cugina’, cio&egrave quasi una sorella, per specificare il vincolo che ci legava. Forse un retaggio antico. Anche in aramaico, la lingua di Gesù, fratello e cugino si indicavano con lo stesso nome. In tigrino si chiama confidenzialmente ‘arkù’ un caro amico ed anche un fratello.
La cugina era ufficialmente ‘tabù’, l’intoccabile, salvo, poi, ad essere la prima ragazza con la quale fare esperienze sessuali, anche complete.
Comunque, la strusciata dovevi far finta di carpirla, pur sapendo che lei l’aspettava ansiosamente.
Eravamo nel suo bel giardino, seduti sulla panchina.
Io le misi la mano sulle spalle e la strinsi un po’ a me.
Manovra di avvicinamento per poi passare alle tette e possibilmente proseguire.
Mela, la chiamavamo così, mi guardò con una certa severità.
‘Non ti basta la zia Bice, Piero?’
Cercai di non sobbalzare e finsi di cadere dalle nuvole.
Zia Bice? E che c’entra?’
‘Perché vuoi negare che te la fotti quella svergognata?’
La avvicinai ancora di più a me, pur non andando oltre con la mano.
‘A parte che se fosse vero il fottuto sarei io, e sarei veramente un fesso a mettermi con una tardona, con tutta la grazia di dio che posso solo avvicinare’ purtroppo.’
La mano strinse significativamente la tetta quando pronunciai grazia di dio.
Mela seguitava a guardarmi. Un po’ meno severamente.
Non si era sottratta, però, alla mia stretta, né allontanava la mia mano che la carezzava teneramente e le pizzicava il capezzolino. Doveva essere a ciliegia, su una bella tetta tonda.
‘Puoi giurare che non c’&egrave niente tra te e lei? Ti guarda in un certo modo’ Dilata le narici’ le tremano le labbra’!’
‘Ed io che colpa ho del suo sguardo, del suo naso e della sua bocca?’
‘Però non giuri!’
‘Perché, ti interessa?’
‘Tu giura.’
Alzai la mano. La sinistra, perché la destra era occupata.’
‘Giuro!’
‘Si, ma che cosa?’
‘Dimmi tu.’
‘Devi dire giuro che tra me e zia Bice non c’&egrave nulla.’
Sospirai,come fossi annoiato.’
‘OK
Giuro che tra me e zia Bice non c’&egrave nulla.’
Contenta?’
Mi sorrise, un po’ forzatamente.
‘Va bene.’
‘E adesso cosa mi dai per premio?’
‘Perché meriti un premio?’
‘Certo!’
La strinsi tra le braccia e la baciai sulla bocca.
Dapprima sembrava un pezzo di legno, Poi,lentamente, si rilassò, dischiuse le labbra.
Ci baciammo appassionatamente, ed ebbe come un brivido quando la mia mano scese lungo la schiena, carezzò la natica, si spostò nel suo grembo.
Si scostò appena.
‘Si, però non te ne approfittare’ metti le mani dappertutto”
‘Ti dispiace tanto?’
‘Dispiacere o piacere’ non dobbiamo farlo! Sei mio cugino!’
‘Si’ diglielo a lui!’
Le presi la manina e la portai sul gonfiore dei pantaloni.
Non la tolse subito, sentii che afferrava, sia pure timidamente, il mio fallo dolorosamente costretto negli abiti.
Si chinò un po’. La sua voce era dolce, sussurrava.
‘Devi stare buono’ buono’ non possiamo! Non dobbiamo’
E nel dire ciò lo carezzò teneramente.
E seguitò a carezzarlo, anche mentre ci baciavamo di nuovo furiosamente.
‘Melina, mi fai impazzire!’
Scosse la testa.
‘Dobbiamo smetterla, Piero’. Lo capisci?’
‘No, non lo capisco.’
‘Se ci vedono siamo fritti.’
‘Andiamo dove non ci vedono.’
‘Dove?’
‘In soffitta”
‘In soffitta?’
‘Nel tuo angolino, dove studi, dove hai preparato la maturità’ lì non sale mai nessuno’ chiudiamo la porta..!’
‘Tu sei proprio matto! E che vorresti fare?’
‘Baciarti, carezzarti”
‘E’ basta?’
‘Andiamo su’ Melina”
Alla soffitta si andava per una scala esterna, coperta, a fianco della costruzione principale. La chiamavano il ‘soppigno’. Era piena di mobili vecchi, e di scorte di viveri dell’orto e del frutteto: patate, mele, uva appesa ai fili di canapa. In un angolo c’era il regno di Pamela: scrivania, libri, scaffale, una poltrona, una branda, di quelle richiudibili, col materasso dentro e coperta da un vecchio telo.
Mi avviai, lentamente, senza nemmeno voltarmi.
Finita la prima rampa mi girai.
Melina era lì. Mi tese la mano.Salimmo insieme.
La chiave era nell’uscio, aprimmo, entrammo, mettemmo la chiave internamente, chiudemmo.
Non c’era molta luce, ma era tutto pulito, in ordine.
Il soppigno veniva spazzato e spolverato una volta alla settimana.
Pamela andò a sedere in poltrona. Aveva un’espressione perplessa, esitante.
Sedetti ai suoi piedi, col capo sul suo grembo, le labbra dove le sue gambe si congiungevano. Non la vedevo.
Sentii le sue mani carezzare i capelli.
Espirai il fiato caldo, con forza.
Le gambe ebbero un leggero sussulto.
Ancora fiato caldo, e spingevo sempre più le labbra che sentivano, attraverso la gonna, le mutandine, i suoi riccioli, la forma del suo sesso.
Le gambe si dischiusero appena.
Con molta cautela, sollevai la gonna.
Ora il mio volto era sulle sue gambe nude, tra le sue cosce.
Sempre lentamente, con piccoli movimenti, insensibili, presi tra le dita l’elastico delle sue mutandine e cominciai ad abbassarle’ alzò il bacino per facilitarne lo sfilamento.
La mia bocca era a contatto della sua pelle,dei suoi riccioli.
La lingua cercò la strada, la trovò, incontrò la vibrazione del piccolo clitoride, l’umidità che stillava dalla vagina, la gustò, s’intrufolò, vi girò intorno, si ritirò, rientrò. Più volte, sempre più freneticamente, seguendo i sussulti di Melina che stringeva forte la mia testa verso le sue gambe, che ansimava, gemeva, fino a urlare, senza curarsi di essere sentita’
‘Oddio’ Piero’ &egrave meraviglioso’ vengo’ vengo’ non smettere’ sì’. Così’ così’ oddio’ ooooooooooh!’
Un sussulto più travolgente degli altri e poi si rilassò.
Aprì gli occhi, mi guardò, beata, estatica.
‘Come sei bravo, Pierino’ &egrave stato bellissimo.’
M’ero alzato in piedi, avevo tolto rapidamente pantaloni e boxer.
Ero di fronte a lei con una erezione violenta e spasmodica.
Melina seguitava a guardarmi.
Si alzò.
‘Mettilo fra le cosce’. Solo fra le cosce’ così”
Lo prese e lo mise tra le sue gambe, tra le sue grandi labbra, tra i peli bagnati della mia saliva e della sua linfa.
Era quasi a cavallo del mio fallo.
Le mie mani erano sotto i suoi glutei.
Lei era letteralmente appesa al mio collo.
Ci baciavamo furiosamente.
Ero talmente eccitato che bastarono pochi movimenti perché il mio fallo eiettasse il torrente tiepido che si sparse dovunque.
Melina lo sentì, chiaramente.
Si mosse un poco, e bastò quello al mio pisello per scivolare agevolmente in lei che rimase a bocca aperta. Solo per un po’. Poi riprese a cavalcarmi, sempre più voluttuosamente.
E questa volta il piacere coincise.
Fu meraviglioso.
La strinsi a me, forte. Senza uscire da lei.
Le mie labbra erano sul suo orecchio.
‘Pamela, sei meravigliosa. Sei la mia Mela ‘deliziosa’.
^^^
Non seguo nessun ordine, nessun criterio.
Così come i ricordi emergono nella mia mente, li vado esponendo.
A volte, sfogliando il mio libriccino leggo un nome, una data, ma non ricordo chi era, com’era. Per fortuna ci sono delle indicazioni che dissipano la nebbia. Eppure, ogni episodio era importante. Sì, ma in quel momento.
Adriana la ricordo benissimo, e non potrebbe essere diversamente, dato chi era.
Quella sua insistenza di dire che tra lei e il marito non c’era mai stata, e non c’era, la benché minima ragione di dissenso, mi irritava.
Poi aveva l’altro chiodo fisso, che suo marito era stato ed era il solo uomo che avesse mai conosciuto.
A parte che non me ne poteva fregare di meno, ma perché ripeterlo continuamente?
Non era niente male, e venticinque anni prima, quando si era sposata, certamente doveva essere anche meglio.
Alquanto robusta, un seno rigoglioso, fianchi tondi e accoglienti, un sedere ben evidente.
Avevamo accompagnato Ida in clinica.
Lei aveva insistito per esserci anche lei.
Ida doveva mettere al mondo il nostro primo figlio.
Stava abbastanza bene, ma era logicamente in ansia.
Si era preparata con cura e diligenza.
Era nervosa in questi ultimi tempi, tanto che tutto tra noi si limitava a qualche bacio, abbastanza casto, e lieve carezza.
Diceva che ogni motivo di eccitazione la turbava, le faceva venire il mal di pancia.
In clinica si accorse che non aveva portata la ‘liseuse’ che aveva acquistato per l’occasione.
‘Me la vai a prendere, Piero, per favore?’
‘Certo, dove sta?’
‘Dovrebbe essere, ancora nella sua busta, in uno dei cassetti dell’armadio grande.’
Adriana disse che lei ricordava benissimo dove la figlia l’aveva riposto, e si offrì di accompagnarmi. Tanto, aggiunse, per Ida, avevano detto i medici, ci sarebbe stato da attendere almeno fino all’indomani.
E così andammo a casa.
Salimmo le scale, entrammo.
Tolse la giacca dell’abito, rimase con la larga gonna e una leggera blusa.
Andammo nella camera matrimoniale.
Aprì l’anta dell’armadio, si chinò per aprire il cassetto.
Il bel culo prominente, come in offerta.
Quella, dunque, l’aveva data solo a suo marito!?
Però.
Anche se aveva venticinque anni più di me, chissà per quale molla inconscia, o forse perché ormai erano diversi giorni che osservavo un forzoso digiuno sessuale, il pisello si risvegliò, mi disse che quello era il momento di farle smettere quell’ormai noioso ritornello.
Tolsi anche io la giacca e la misi sulla sedia.
Aspettai che si alzasse, andasse vicino al letto, e vi mettesse sopra la liseuse presa nel cassetto.
Quando si voltò mi trovò di fronte a lei.
La superavo di almeno venti centimetri in altezza.
L’eccitazione era salita al massimo, ero proprio arrapato!
Mi guardò con una strana espressione nel volto: sorpresa? Preoccupazione? Timore? Speranza?
Non fu una spinta molto gentile quella che la fece andare lunga sul letto, con le gambe penzolanti dalla sponda.
Cercai di essere più gentile nell’alzarle la gonna, quasi strapparle le mutandine.
Rimase con gli occhi sbarrati, le braccia in alto, come se si arrendesse. E non si mosse neppure quando feci cadere sul tappeto pantaloni e boxer.
Alzò appena la testa.
Spalancò ancora di più gli occhi quando scorse la mia prepotente erezione.
Di fronte a me il folto bosco riccioluto d’una cinquantenne bene in carne. Le belle cosce, tonde,
Afferrai le ginocchia, le dischiusi.
Una bella vulva si presentò ai miei occhi.
Il pisello era impaziente, non ne poteva più.
Le presi le gambe, le portai sulle mie spalle, puntai il glande vicino alla vagina. Era umida, scivolosa. La penetrai d’impeto, per quanto potei.
Aveva voltato la testa da una parte e portato il dorso della mano sulle labbra.
A mano a mano che la pompavo, sentivo il suo grembo palpitare sempre più, mungermi golosamente.
Accompagnavo ogni colpo con qualche parola,roca, strozzata.
‘E brava Adriana’ tieni’ tieni’ ‘
Lei aveva cominciato a respirare sempre più forte.
‘Ecco’ mammina’ ecco’ beccati questo”
Sentivo che soffocava il lungo gemito che le sfuggiva dalle labbra.
Ebbe un sussulto irrefrenabile. Si irrigidì, si rilassò.
Era da giorni che il mio seme premeva nelle mie vescichette, e fu una liberazione quando l’invase, generosamente.
E forse anche per lei,perché emise un lungo sospiro.
Senza togliere le gambe dalle mie spalle,mi sfilai piano, conservando una notevole, completa e insoddisfatta erezione.
Lo sperma uscì da lei, tra le natiche, si cosparse sul suo buchetto che aveva continue contrazioni.
Fu una decisione improvvisa.
Le puntai il glande vicino e la spinta fu decisa.
Il fallo non si piegò.
Trovò una prima resistenza, ma proseguì nella spinta, con più forza.
Vi entrò tutto, fino in fondo.
Mi sembrò di sentire un ‘ahi’, ma non ci feci caso perché ero intento a stantuffare con tutto me stesso, anche col cervello.
Allungai una mano, le titillai il clitoride, infilai le dita nella vagina, senza sospendere quel voluttuoso andirivieni.
Aveva aperto le braccia, come se fosse in croce, ma sentivo che quella impalcatura non la lasciava indifferente. Le dita la perlustrano diligentemente, intorno intorno al su sesso.
Altra scarica di seme.
Le abbassai le gambe.
Giacqui su lei,le aprii la blusa, quasi strappai il reggipetto, le ciucciai avido i capezzoli.
Sentii la sua mano che carezzava i miei capelli.
Avevamo bisogno di rassettarci, tutti e due, prima di portare a Ida la liseuse.
^^^
Come negli altri anni, era il periodo in cui dedicavo una settimana del mio tempo alla fondazione ‘Proximus’, che indica il nostro prossimo, certamente, ma significa soprattutto ‘il più vicino’.
Si interessava dei paesi del terzo mondo più poveri e abbandonati.
Tentava di aiutarli, cercando ed estraendo acqua, portando gruppi elettrogeni, con piccoli ospedali o infermerie, scuole, e cose del genere.
Ida non era entusiasta della mia scelta, ma faceva buon viso a cattivo giuoco e se ne restava al mare, con la mamma e il bambino. Tanto la mia assenza durava in tutto nove giorni.
Sembra che l’idea di ‘Proximus’, e allora non era una fondazione, risalga a Guglielmo Massaia, che gli indigeni, Etiopi, chiamavano ‘Abuna Messia’, padre Messia. Dall’Etiopia, poi, si sarebbe diffuso in tutto il mondo.
Quella volta la destinazione era un paese dell’africa nera, uno dei più poveri del continente, con un clima tutt’altro che accogliente.
Quattro ore di jeep dall’aeroporto, con l’ultimo tratto percorso su una specie di pista scassata e abbandonata.
Lunghi edifici, in muratura e legno.
Il deposito carburanti, il pozzo artesiano, un’ala adibita a infermeria, un’altra a scuola, nel centro la direzione, alloggio per il personale, il refettorio. I pasti per gli ospiti indigeni erano preparati e serviti sotto tettoie, poco distanti.
Il mio aiuto consisteva principalmente nell’interessarmi degli impianti, delle attrezzature, nell’esaminare la possibilità di utili ampliamenti e abbozzarne la progettazione. Inoltre, la mia ‘entratura’ presso l’autorità politica, a causa della mia professione principale, favoriva la fondazione e ne facilitava l’attività.
Finalmente arrivato.
Il direttore, lo stesso dell’anno scorso, così pure il medico, che era una donna, un po’ ossuta, Maureen, Irlandese, che a suo tempo s’era dimostrata quasi insaziabile, dicendo che voleva farne una scorta, perché col direttore nulla, e con i locali non riteneva il caso farlo. O la dava a tutti o a nessuno. Lei, forse si sarebbe pure adattata ad un’ampia distribuzione delle sue grazie, ma era certa che sarebbero nate gelosie, anche drammatiche, per cui sognava e si affidava al surrogato del vibratore.
Personale ausiliario quasi tutto del luogo, tra cui splendidi esemplari femminili, poco vestiti e sempre sorridenti, pieni di un particolare senso dell’accoglienza che si manifestava soprattutto nella massima disponibilità di allietare la tua permanenza con la loro esuberanza erotica.
Unica limitazione, é che dovevi andare in una delle loro capanne, perché non era consentito che trascorressero la notte con te.
Scuotevano la testa quando vedevano i profilattici che precauzionalmente portavo sempre con me, ma alla fine vi si adattavano, anche se mal volentieri.
Disponibilissime, ho detto, ma non per fare ‘cazzo-caram&egravel’, la fellatio. Non c’era assolutamente modo di fartelo ciucciare!
Accoglienza fraterna e calorosa.
Presentazione di Pilàr, una Filippina, un po’ scura di pelle perché del meridione del suo paese, magrolina, con una lunga veste, e alquanto insignificante. Dormiva nella camera di fronte a quella che mi era stata assegnata.
Camere con pochi mobili essenziali, la solita zanzariera e il ventilatore che, al centro del vano, appeso al soffitto, faceva girare pigramente le larghe pale.
Abbastanza caldo e umido: troppo.
Pilàr era destinata alla vita religiosa, ma non aveva ancora preso i voti.
Quanti anni aveva? Mah! Io ritengo intorno ai venti, uno più uno meno.
Udivo un leggero scorrere d’acqua.
Una parete della camera confinava con quella dei servizi: lavandini nel vano comune, due WC riparati con porte a chiave, due docce con una piccola tendina di plastica davanti.
Un cartello chiedeva di ‘risparmiare l’acqua!’
Era presto, molto presto, appena le prime luci dell’alba, ma a quelle latitudini albe e tramonti sono rapidissimi.
Forse perdeva qualche rubinetto.
Così com’ero,con i soli pantaloncini, a piedi scalzi, uscii dalla camera andai ai servizi, aprii la porta.
Qualcuno stava facendo la doccia sotto un filo d’acqua.
Una figura esile, che volgeva la schiena. La tendina era quasi del tutto aperta.
Ecco chi era, Pilàr.
Però,non immaginavo che quella che credevo una ‘tavola piallata’ potesse avere un così bel culetto, tondo e nervoso, con provocanti chiappette brune.
Si girò, con gli occhi chiusi per la schiuma di sapone, non si accorse della mia presenza.
Perbacco che tettine! A coppa rovesciata, piccoline e ben fatte, con una scura mora selvaggia che le abbelliva.
Chi l’avrebbe mai detto.
La piccola Pilàr era una splendida fanciulla, un magnifico esemplare della sua gente. Ventre piatto, pochissimo pelo sul pube, netto e diritto il taglio del suo sesso, la sua ‘bocca verticale’!
Vederla ed eccitarmi fu un tutt’uno!
Uscii, silenziosamente, e andai a provare alla porta di Maureen. Non era chiusa a chiave. Lei dormiva, supina, seminuda per il caldo.
Entrai piano, tolsi le mutandine, salii cautamente sul suo letto.
Si mosse un po’, aprì gli occhi, non del tutto, allungò la mano, afferrò il mio fallo ben rigido ed eretto.
‘At last, darling’ Finalmente tesoro”
Non aveva bisogno di alcun preliminare.
Era calda, assatanata e bagnata.
Mentre la pompavo coscienziosamente pensavo a chissà com’era la fichetta di Pilàr. Questo pensiero me lo faceva restare duro, più del solito, con viva e manifesta soddisfazione di Maureen che ne profittò per fare una delle sue solite abbuffate di orgasmi, fino a giacere esausta, dopo avermi zelantemente svuotato, completamente.
Scivolai da lei ridotto ai minimi termini.
Che fa, ci dovevo provare con Pilàr?
Come? Gliela dovevo chiedere apertamente? Dovevo attenderla sul sentiero che andava al villaggio vicino, sbatterla per terra, alzarle quella specie di futa e scoparmela? Avrebbe gridato? E poi, che gusto c’era a prenderla con la forza! Dovevo trovare il modo carezzarla, coccolarla, accenderla?
Pensavo così, con gli occhi sbarrati rivolti al soffitto, lungo disteso sul letto, nudo e col fallo ben diritto, il mattino successivo, quando udii lo stesso scrosciare sommesso e timido di due mattine, meglio dire alba, prima.
Stessa manovra’ entrare nel vano servizi’ spiare’.
Era lei!
Mi avvicinai cautamente, mentre mi voltava il dorso, allungai la mano, presi a insaponarla delicatamente.
Si voltò di scatto, spaventata. Le feci cenno, col dito, di tacere.
Salii accanto a lei, molto più bassa di me, e seguitai a insaponarla, questa volta davanti, sulle tettine, scendendo sul pube, tra le gambe.
Deglutiva a fatica, guardava il mio grosso fallo, stupita.
‘Madre de Dios, que palo ! No me matar, te suplico ! Non ammazzarmi!’
‘Esto te dona la vida, no la muerte! Questo ti dà la vita, non la morte!’
Tremava come una foglia.
La sciacquai, l’avvolsi nell’asciugamano che era appeso fuori alla piccola cabina, la presi sulle braccia ed andai nella mia camera.
‘Cosa vuoi farmi?’
‘Farti vivere.’
‘Ti prego”
Le succhiai le tettine, la baciai tra le gambe.
Non doveva dispiacerle, perché dischiuse maggiormente le cosce, alzò il bacino.
La lingua lambì il piccolo clitoride, s’intrufolò tra le piccole labbra, entrava e usciva con piccoli colpettini.
Pilàr era completamente abbandonata, a braccia spalancate.
Alzai una mano per titillarle i capezzoli.
Sobbalzava come una molla, gorgogliando suoni incomprensibili.
Un fremito incontenibile.
Ansimava. Mise le mani sulla mia testa la strinse al suo grembo.
‘Yo desmayo, querido’ sto svenendo, amore”
Mi alzai sulle ginocchia.
Sembrò un messaggio.
Con movimenti lenti, legati, si mise carponi, la testa poggiata sulle braccia che erano conserte, sul lenzuolo, il culetto rialzato, le natiche semidischiuse rivelavano l’incantevole visione del suo piccolo sesso. Ero dietro lei, con una sempre più incontenibile, prepotente erezione, che urgeva una soluzione, qualunque’non qualunque’. Quella!
Portai il mio grosso glande paonazzo vicino l’ingresso rorido della sua vagina, scostando le piccole labbra. Entrarono solo pochi millimetri, malgrado la più che abbondante lubrificazione. Sentivo una resistenza sconosciuta. No, non era quella effimera della sottile membrana che si incontra la ‘prima volta’ di lei. Sembrava uno sfintere anale che non voleva cedere.
Lei spingeva verso me.
‘Ahora, te suplico’ adesso,ti prego!’
L’afferrai per i fianchi e spinsi decisamente. ‘Lui’ si fece strada, si aprì la strada, come qualcosa che debba allargare un andito angusto. Sentivo le pareti della vagina, strette, che si dilatavano a mano a mano che il fallo la penetrava e si ristringevano su esso, lo fasciavano. Incantevolmente.
Una mano le strizzava una tettina, la impastava, pizzicava il capezzolo; l’altra carezzava il clitoride.
Non avevo mai provato una sensazione del genere.
Me lo succhiava, mungeva, sempre più freneticamente, voltando la testa di qua e di là, con quegli strani mugolii inarticolati.
Quando l’orgasmo, lento a salire ed esplosivo nel manifestarsi, la squassò, ebbe come un breve convulsione, distese braccia e gambe,mi trascinò con sé, su di sé. Solo una parte del mio fallo sgusciò da lei. Il glande era saldamente imprigionato. Il mio pube era sull’incantevole cuscino del suo culetto, le mani erano rimaste al loro posto: tetta e clitoride.
Non ricordo quanto tempo rimanemmo cos’, col fallo che non dava alcun segno di volersi afflosciare. Poi, piccoli movimenti suoi, altro ciucciamento della vagina, altra munzione spermatica, lungamente goduta.
Quando,finalmente, e data l’ora, riuscimmo a staccarci, Pilàr era irriconoscibile: sudata, commossa, con un volto irradiato da una luce estatica.
Guardò sul letto.
Il lenzuolo recava la testimonianza evidente che quella era stata la sua ‘prima volta’. Lo tirò via, arrotolò, se lo mise tra le gambe. Si avvolse nell’asciugamano che avevo preso dalla doccia. Prese il mio volto tra le sue manine, mi baciò sulla bocca.
Te quiero, alma de mi corazòn, de mi vida’ ti adoro, anima del mio cuore, della mia vita!’
Quando, la settimana successiva, mi alzai per ripartire, Pilàr era ancora addormentata, nel mio letto, dopo una notte di sesso impetuoso.
Mi accompagnarono tutti all’auto che doveva portarmi all’aeroporto.
Maureen era andata il giorno prima in un villaggio poco distante.
Pilàr mi tese la mano.
‘Yo espero di poter aver un vivo ricordo di te por toda la vida. Fra una settimana torno a casa mia. Farò la maestra, laica.’
^^^
La natura non fa le cose a casaccio, senza una ragione.
Ognuno &egrave destinato a ad un compito specifico, ha assegnato un ruolo, una missione.
Quando un giovane gallo entra in un pollaio si guarda intorno, cerca tra galline e pollastrelle quella che più gli aggrada, ma ciò non significa che non rivolgerà le proprie attenzioni anche alle altre abitatrici del luogo, sia che si avviino a fare un ‘buon brodo’, sia che ancora non conoscano l’ingroppata del maschio.
Nel gallinaio in cui ero entrato, avevo adocchiato Ida, e quella divenne la mia compagna, ma non potevo, non dovevo trascurare le altre.
La natura mi aveva fornito di attributi destinati all’altro sesso, in generale, senza monopolio alcuno, senza limiti o infingimenti.
L’altro sesso, d’altra parte, si aspettava le attenzioni del maschio, anche se, a volte, faceva finta di essere alquanto ritroso. Tutta una manfrina, per eccitarlo maggiormente e trarne più intenso godimento. C’&egrave sempre un po’ di masochismo nella femmina, ad alcune piace una dolce violenza, essere conquistate. C’&egrave chi gode quando le si sculaccia!
Adriana sbavava, lo sapevo, e non vedeva l’ora di essere sbattuta sul letto.
Accontentata!
C’erano in giro altre due pollanche.
Maura, non bella da morire ma idonea a incondizionato servizio.
Credo che si masturbasse con molta frequenza, che si eccitasse se vedeva me e Ida scambiarci qualche tenerezza, e un po’ la invidiasse anche, perché, tra l’altro, lei si riteneva la più bella e la più intelligente del gruppo.
Agatina, la minore, non era completamente fiorita, ma dai visibili incantevoli boccioli si capiva che sarebbe prestissimo divenuta una donna affascinante. Tra l’altro era di intelligenza superiore, e la votazione conseguita alla maturità ne aveva dato testimonianza.
Aveva occhi seducenti, sguardi ammalianti, e avevo la sensazione (forse presunzione) che non le fossi del tutto indifferente. Mi fissava in un certo modo che mi turbava, mi eccitava.
Noi eravamo in montagna, Ida, il bambino ed io, e loro, Ida e il bimbo, vi sarebbero rimasti fino ai primi di settembre. Io sarei rientrato al termine delle ferie, salvo a fare delle puntate di fine settimana.
Erano passati solo dieci giorni, e dalla società in cui lavoravo mi chiesero di partecipare ad una importante riunione di direzione. Solo due giorni.
Adriana mi offrì di andare a dormire da loro, Maura era in viaggio con dei colleghi d’università.
Accettai.
Arrivai il pomeriggio prima della riunione, andai direttamente dall’aeroporto a casa dei suoceri. Agatina era a casa sola, disse che i genitori erano usciti per alcune spese indifferibili, e fu tanto lieta di rivedermi che mi abbracciò affettuosamente, strettamente, lungamente, facendomi sentire che le sue tettine s’erano già abbondantemente trasformate. Non stupirà se, approfittando di quella graditissima esuberanza, mi soffermai a constatare anche il progresso morfologico delle natiche. Che magnifico fondo schiena!
Mi accompagnò nella camera degli ospiti, mentre io le cingevo la vita. Disse che mi lasciava per farmi sentire in libertà, forse volevo cambiarmi, rinfrescarmi nell’adiacente stanza da bagno.
‘Puoi restare, Tina, sono lieto se mi farai compagnia. E’ vero, fa un po’ caldo, una rinfrescata ci vuole e mi cambio la polo. Siedi in poltrona.’
Tolsi la camiciola che avevo, restai a torso nudo, feci un po’ di casto esibizionismo dei miei pettorali, andai nel bagno, mi lavai abbondantemente, tornai in camera per asciugarmi.
Nella valigetta avevo della colonia ‘fresh spray’, ne spruzzai sul petto, sotto le ascelle.
‘Sai che ha un buon profumo Piero? Vuoi che te ne spruzzi sulla schiena?’
‘Si, grazie!’
Si alzò, venne verso me. Era alta quanto me, bellissima.
Prese il flacone, mi girai, ne spruzzò diligentemente un po’ dappertutto, sulla schiena.
‘Vuoi che spanda la colonia con la mano?’
‘Si, grazie.’
Era meraviglioso sentire la sua manina che carezzava lentamente, dolcemente, la mia schiena, passando e ripassando.
Quando finì quel delizioso massaggio, mi voltai.
‘Grazie, occhioni belli, grazie.’
Avvicinai il mio volto al suo, per esprimerle con un bacio la mia gratitudine. E le sfiorai la bocca con le mie labbra.
Mi guardò, sorpresa, mentre il volto le s’imporporava facendolo splendere ancor più.
Mi porse la nuova maglietta da indossare, e tornammo in salotto.
Questa volta ognuno cingeva i fianchi dell’altro.
Affettuosa l’accoglienza dei suoceri, al loro ritorno.
Ottima la cenetta allestita da Adriana.
Poiché la colf va via nel pomeriggio, aiutai Agatina ad apparecchiare e sparecchiare.
I suoceri chiesero dettagliate notizie della figlia, del nipotino.
Guardai l’orologio,
‘Che ne dici, Agatina, di andare al cine?’
‘Per me va benissimo. Mi preparo?’
‘OK’
Adriana ci raccomandò di tornare a casa, dopo lo spettacolo, di non rincasare tardi per non farli stare in pensiero.
La rassicurammo, uscimmo.
Il cine era poco lontano.
Camminavamo tenendoci per mano, come scolaretti.
Anzi, no! Come i fidanzatini di Peynet.
Proiettavano una pellicola che riscuoteva il plauso della critica ma un po’ meno quello degli spettatori. Una storia nel contempo contorta e melensa, con pretese di coinvolgimenti psicologici. Ottima fotografia, e buona interpretazione, avvincente il commento musicale.
Sedemmo in galleria, era mezzo vuota.
Mi avvicinai ad Agata, le misi un braccio sulle spalle, si rannicchiò come un cucciolo, con la testa vicina alla mia.
Quando allungai le dita per sfiorarle il petto, pose la sua mano sulla mia, la carezzava.
Era dolcissima, tenera,ma anche eccitante. Un po’ troppo!
Era forte il desiderio di abbracciarla, baciarla’ averla!
Ogni tanto mi guardava, con un lieve sorriso, quasi incantata.
Tolsi la mano dalle sue spalle, la posai sulla coscia. Con cautela, con movimenti impercettibili, l’infilai sotto la gonna, sulla carne nuda. Splendida, vellutata, tiepida.
Agata sospirò profondamente.
Avrei voluto parlarle, ma eravamo al cine, avremmo disturbato, anche se gli spettatori più prossimi a noi erano a discreta distanza.
Avvicinai le labbra al suo orecchio.
Prima di tutto lo baciai, succhiai il lobo, introdussi piano la lingua.
Ebbe un fremito.
‘Ce l’hai un ragazzo, Tina?’
Mi rispose a bassa voce, in un sussurro.
‘Adesso no, non era quello che volevo’ forse non lo sarà mai nessuno!’
‘Sogni il principe azzurro?’
‘Ho un principe azzurro, reale, ma &egrave irraggiungibile. Nel suo castello, nel suo cuore c’&egrave già una castellana.’
‘Nel suo cuore o nel suo letto?’
‘Nel letto sicuramente. Il resto lo sa lui!’
‘Ti piace far l’amore?’
Fece spallucce,
‘Mi piacerebbe”
‘Perché, non l’hai fatto col tuo ragazzo?’
‘Abbiamo avuto qualche rapporto’ ma non era fare l’amore”
‘Delusa?’
‘No, Non potevo essere delusa perché non mi sono mai illusa che lui fosse il mio uomo. Era il maschio del momento’ come quando hai fame’ ti contenti del pane raffermo’ ma dopo hai più fame che pria’!’
‘Povera bambina’ posso fare qualcosa per te?’
Mi guardò, con occhi splendidi, nari dilatate e frementi. Bellissima.
La mano,sotto la gonna, salì.
Lei spostò il bacino in avanti, sulla poltrona.
Scostai la sottilissima pattina, ero nel suo boschetto incantato.
Dischiuse appena le gambe.
Ecco il piccolo clitoride’ com’era bagnata’
Il medio s’introdusse nella vagina stillante, la carezzò dolcemente, circolarmente, entrando e uscendo.
Agata sussultava, fremeva, aveva portato una mano sulle sue labbra, la premeva forte sulla bocca, fortissima, e a stento riuscì a soffocare i rantolo che stava per sfuggirle quando fu squassata da un orgasmo impetuoso, irrefrenabile.
Per fortuna eravamo moto isolati.
Il mio sesso soffriva, nei pantaloni, ed ero così eccitato che temevo di eiaculare da un momento all’altro.
Per fortuna stavo riuscendo a controllarmi.
Quando Agata mise la mano sulla mia patta gonfia, l’allontanai dolcemente.
Mi guardò, sorpresa,con un’espressione offesa.
‘Sono troppo eccitato, tesoro’ troppo’ sta per esplodere”
Capì, mi sorrise, si rincantucciò ancor più vicina a me.
Poiché si accese la luce, ne dedussi che il film era finito.
L’aria fece bene a tutti e due.
Eravamo alquanto confusi.
Tornammo a casa, quasi i silenzio.
Mancava poco alla mezzanotte.
Aprimmo piano piano la porta dell’appartamento. Non accendemmo neanche la luce del corridoio.
Dalla camera matrimoniale giunse la voce di Adriana.
‘Siete voi?’
Rispose Agata.
‘Si, mamma, buona notte!’
Ci avviammo verso le nostre camere. Erano l’una di fronte all’altra.
Ci abbracciammo, ci baciammo voluttuosamente.
‘Vengo da te tesoro?’
‘No. Voglio io andare dal mio principe azzurro’ Aspettami!’
Entrai nella mia camera, ero agitato ed eccitato. Andai nel bagno adiacente, ma neppure l’antartide avrebbe potuto attenuare il mio bollore. Decisi di mettermi a letto, nudo. ‘Lui’ era impaziente, smanioso.
Eccola finalmente (ma non erano trascorsi che pochi minuti) in vestaglia. Si avvicinò al letto. La vestaglia cadde. Era come me, nuda. Splendida.
Tettine incantevoli, ventre piatto, liscio; il triangolo del pube impreziosito da fascinosi riccioli neri; un culetto che oscurava quello della venere callipigia.
Si distese a fianco a me.
L’istinto era quello di saltarle addosso e penetrarla immediatamente, forse anche impetuosamente.
Invece fu lei che salì su me e prese a baciarmi delicatamente stringendomi il volto tra le mani.
‘Lui’ era dolorosamente piegato dal peso del suo corpo.
Abbassai le mani, per liberarlo da quella pressione.
Agata alzò il bacino, e senza smettere di allacciare la sua lingua alla mia, aprì le gambe, si mise a cavallo sorreggendosi sulle ginocchia.
Portai il glande al tepore umido e caldo delle piccole labbra,
Spinse, s’impalò, e cominciò un lento e poi sempre più incalzante trotto, che divenne galoppo sfrenato, e terminò nel suo grido sommesso, soffocato nel cuscino, mentre si abbatteva su me, tremante, in breve relax d’attesa che si trasformò in nuova tensione quando fu invasa dal mio seme bollente prima di un nuovo frenetico orgasmo.
Non dormimmo, fino all’alba, quando lei tornò nella sua camera.
Breve, troppo breve, il mio soggiorno.
Fummo anche incauti, rischiammo di venire scoperti da Adriana.
La notte prima della partenza fu turbinosa. Non immaginavamo di avere così tante risorse amatorie. E facemmo bene, perché sarebbero passati quasi dieci anni prima di un nuovo incontro così travolgente e appagante.
^^^
Maura non era né bella né brutta.
Almeno per me.
Era insignificante.
Anzi no, irritante, ed anche antipatica.
Supponente, presuntuosa.
Di media intelligenza riteneva di essere un genio.
Era giovane, si, questo non lo si poteva negare, ma nulla di particolarmente attraente.
Quelle che sembrano sempre avere ‘la puzza sotto al naso’, che si ritengono al di sopra di tutti gli atri, soprattutto delle altre.
I suoi atteggiamenti sembravano dire: ‘guardate un po’ cosa ho!’. E ti faceva scorgere, con studiata distrazione, ora una tetta, ora una chiappa o, sempre per puro caso, il pelame che lasciava esposto dal suo accappatoio sbottonato.
Niente di eccezionale.
Verrebbe da dire ‘roba che si trova in tutti i mercati’.
Non parliamo poi, dell’atteggiamento moralistico.
Malgrado ‘esibizioni’ e ‘sculettamenti’, voleva far credere che per lei il sesso era solo il mezzo per la prosecuzione della specie. Forse, più o meno inconsciamente, s’incarnava nell’eroina del ‘Mastro don Gesualdo’, di Verga, che sosteneva: ‘non lo fo’ per piacer mio ma per dare un figlio a Dio’!
Tutto il resto era ‘schifo’, ‘deviazionismo’.
L’avevo battezzata ‘golden-cunt’, gnocca d’oro.
Intanto, però, era sempre provocatoria. Forse per il piacere di poter respingere, offesa, qualche mia avance. Del resto anche lei aveva quello ‘stretto necessario’ che il mio punteruolo andava sempre cercando per non arrugginire.
Ero ormai sposato da qualche tempo.
Lei s’era laureata, senza infamia e senza lode.
Aveva avuto una offerta da una scuola privata di Mestre.
Io conoscevo l’azionista di maggioranza, ero amico di famiglia.
Per telefono mi aveva detto: ‘Allora, Piero, accompagnala tu, faccela conoscere e sarà anche l’occasione per riabbracciarci, per mangiare la grancevola e magari ricordare i tempi della mona..rchia.’
E fu così che decidemmo, Maura ed io, di fare questa specie di pellegrinaggio.
‘Sicché Piero,viaggeremo solo noi due.’
Ammiccava e sorrideva. Si aggiustava le calze facendo vedere se aveva o meno le mutandine.
Si presentò con un abito sportivo chiedendomi se poteva andare’
Mi dava proprio sui nervi.
Mi svegliai la notte, vicino ad Ida, ma stavo escogitando come prendermi gioco di Maura.
Dovevo farlo.
Mi stava sullo stomaco’ anzi molto più giù!
Quando mi saltò un’idea, bizzarra e non buona, ripresi a dormire.
E così, venne il giorno della partenza.
Mattino, abbastanza presto, diretto per Venezia, via Firenze Bologna.
Telefonai ad Alvise, il mio amico di Mestre, per dirgli che saremmo arrivati l’indomani, alle 15,35. Mi rispose che sarebbe venuto a prenderci, saremmo stati suoi ospiti, aveva una bella villa, e ben attrezzata.
Partenza, dunque.
Maura era un po’ su di giri, nervosetta.
‘Mi sembra di andare in viaggio di nozze.’
E mi guardò provocatoriamente.
Quindi, il giuoco era iniziato.
Anche se non mi fa onore dirlo, devo confessare che intimamente sghignazzavo.
Ero su di giri. Mi sembrava di parafrasare ‘La cena delle beffe’, di Sem Benelli. Per me sarebbe stato ‘Il viaggio della beffa’!
Maura voleva mettere la sua borsetta sulla reticella che era sopra al mio posto. Alzò le braccia, si mise in punta di piedi e’ crollò sulle mie gambe, tra le mie braccia, suscitando qualche sorrisetto negli altri due viaggiatori dello scompartimento, e strusciando generosamente le sue chiappe sul mio coso.
Un’altra decisione avevo preso: Lei così ricercata e sofisticata nel linguaggio. Io avrei usato parole rudi, anche volgari, senza mezzi termini.
Cominciai subito.
Avvicinai la bocca al suo orecchio, mentre era ancora sulle mie ginocchia.
‘Sai che hai un bel culo, tondo e tosto. Complimenti.’
Non ebbe la reazione che immaginavo.
Si alzò lentamente, mi guardò di sfuggita, con un risolino sulle labbra.
Avevo ideato una fase di ‘riscaldamento’, quella che doveva sfociare nella beffa.
‘Andiamo in corridoio, Maura?’
Era deserto. Raggiungemmo la piattaforma. Mi misi a guardare fuori del finestrino.
Venne accanto a me.
Mi allontanai un po’ dal finestrino per lasciarle il posto e mi posizionai dietro a lei, attaccato. Io l’avevo in antipatia ma il mio ‘coso’ non era insensibile alle sue chiappe. Una piccola flessione delle ginocchia, ed ecco il vigoroso gonfiore, intrappolato nei pantaloni, che s’infila tra le natiche della donna. Come se non fosse accaduto niente. Anzi, si muove per sentirlo meglio. Speriamo che non si agiti troppo altrimenti va a finire che la beffa si riversa su me.
Gli sbalzi del treno, anche se non troppo evidenti, facilitano lo strusciamento.
Una bella ghermita di tette e il suo respiro comincia ad essere meno regolare.
Giù una mano. Proprio là. A palmo aperto, insistente, non teme ostacoli, scivola dal monte di venere alle grandi labbra, s’infila risoluta tra le cosce, palpeggia e titilla. Sia pure da sopra la gonna.
Ora il respiro si &egrave tramutato quasi in un rantolo.
Si abbandona.
La devo sorreggere io.
Certamente sta per venire.
Di botto lascio tutto, mi allontano. Guardo verso il corridoio.
‘Viene gente. Torniamo ai nostri posti.’
Deglutisce a fatica, il rossore del volto si trasforma in pallore.
Mi avvio verso lo scompartimento, entro, mi metto a sedere.
Lei rimane ancora un poco nel corridoio, poi torna a sedere di fronte a me.
La prima fase si &egrave svolta come da programma.
E siamo solo ad Orvieto.
Lei siede accanto al finestrino, il posto accanto &egrave libero. Gli altri viaggiatori sonnecchiano.
Vado a sedermi al suo fianco, vicinissimo. Coscia contro coscia.
‘Mi stai facendo arrapare come un mandrillo. L’hai sentito?’
Seguitando a guardare fuori del finestrino, annuì appena con la testa.
Seguitai, con voce calda, suadente.
‘Anche tu, però’.’
Altro piccolo cenno affermativo.
‘Non invidi un po’ tua sorella che &egrave sposata?’
‘E di cosa dovrei essere invidiosa?’
‘Del fatto che scopa con me!’
‘Adesso sono io che ti faccio una domanda.
Verresti a letto con me?’
‘Certo!’
‘Allora &egrave lei che dovrebbe essere gelosa, e a mancare ai patti saresti tu, perché io non ho giurato fedeltà a mia sorella!’
‘Che fa, vogliamo darle motivo di essere gelosa?’
Si voltò verso me, mi fissò. Con una certa durezza nello sguardo.
‘Fedifrago!’
‘Questi, se permetti, sono c’i miei! Tu rispondi.’
Ora mi guardava con una certa agitazione venata di incredulità e perplessità.
‘Ma Piero”
‘Sei tu che hai parlato di viaggio di nozze! Sta a noi realizzarlo!’
‘Anche se volessi, come, dove, quando”
‘Questa sera, a Mestre, nella villa di Alvise.’
Era impietrita.
‘Non so”
‘Andiamo fuori, parleremo meglio.’
Solita piattaforma.
Questa volta non ricorsi all’abbraccio alle spalle.
La strinsi tra le braccia, la bacia. Aprì, avida, le labbra, afferrò con esse la mia lingua e sembrava volermela strappare.
Mani sui glutei e strette ritmiche, senza insistere troppo, per non sfidare la sensibilità del ‘mio’ e la tenuta delle vescichette che custodiscono il prezioso ‘balsamo creapopoli’.
La mano trasmigrò dalle chiappe alla vulva, e stava quasi per farle raggiungere il godimento supremo, quando dissi che mi sembrava sentire lo scalpiccio del controllore.
Stavamo per entrare a Firenze Santa Maria Novella.
Cinque minuti di sosta e poi il balzo verso Bologna.
L’ora stava avvicinandosi.
Partenza da Firenze. Poco più di un’ora prima di raggiungere Bologna. Moltissime gallerie lungo il percorso.
Nuovo ritorno sulla piattaforma.
Sempre tutto deserto, intorno.
Aprii la porta della ritirata.
Le presi la mano.
‘Vieni.’
‘Dove?’
‘Vieni.’
La tirai dentro quello scomodo disimpegno, chiusi la porta.
‘Che vuoi fare.’
‘Solo un anticipo, non ne posso più. Non posso attendere fino a questa sera.’
Era sorpresa, meravigliata, sbigottita.
‘Allora?’
‘Te l’ho detto, un antipastino’ giù’ in ginocchio”
Le poggiai le mani sulle spalle e la spinsi giù, con dolce violenza, ma decisamente.
Sbottonai i pantaloni, il palo di carne sgusciò dalle mutande, imponente.
Sbarrò gli occhi.
Le avevo preso la testa tra le mani e l’avevo avvicinata al mio pisellone.
‘Bacialo’ leccalo”
‘Ma’ Piero’ non l’ho mai fatto.’
‘Dai, non vedi che non ne può più? Vuoi farlo soffrire.’
Il glande era sulle sue labbra.
Forse voleva solo parlare, ma come dischiuse le labbra glielo ficcai in bocca con una certa prepotenza.
‘Dai, Maura, leccalo, ciuccialo, avanti e indietro con la testa’ così”
E le guidavo la testa: avanti e dietro.
Lei, anche se maldestramente, lo stava lambendo con la lingua e ciucciando.
Stava imparando in fretta.
Quale maestra la natura, e quale professore l’istinto.
Io sentivo che stavo per venire, e non so se lei se ne accorgeva. Ormai era tutta presa in quella funzione.
Quando lo sperma cominciò a salire, violento, lungo l’asta, e per irrompere nella sua bocca, strinsi forte verso me la sua testa, mi sembrava che le stesse entrando in gola, non poté staccarsi, nel modo più assoluto. Lo dovette ingollare fino all’ultima goccia.
‘Divenni tenero e amorevole.’
Lo tirai fuori dalle sue fauci. Non colò alcun liquido, se l’era bevuto completamente.
La sollevai premurosamente.
Mi avvicinai al piccolo lavandino, vi poggiai il fallo, ancora semieretto.
‘Ti prego, piccola, lavalo, pian piano, senza fargli male. Poi asciugalo col foulard che hai al collo.’
Sembrava ubriaca.
Eseguiva come un automa.
Guardava il lavandino, il pene che stava lavando.
Voltò gli occhi verso me, come un cane bastonato.
‘Piero”
Voce impastata, come di ubriaca.
‘Dimmi, amore’ scusa, cerca di togliere i segni del tuo rossetto o mi sporcheranno lo slip’ Dimmi”
‘No dovevo farlo”
‘Sei stata brava, sono sicuro che diverrai perfetta. Brava!’
‘Mi sono sentita invasa’ era tanto’ caldo’ cremoso’
Oddio, non l’avrei mai immaginato’
E adesso?’
‘Adesso torniamo ai nostri posti.’
‘E stasera?’
‘Non voglio anticiparti la sorpresa.’
Mi rimisi in ordine, aprii cautamente la porta per vedere se ci fosse qualcuno.
Solito deserto.
Senza neanche voltarmi, tornai al mio posto, mi poggiai da un lato e finsi di addormentarmi.
Maura andò a sedere di fronte a me, come prima.
Era pensierosa, ogni tanto scuoteva la testa.
Io rimasi con gli occhi chiusi fin dopo che il treno aveva lasciato Bologna.
Mi stendicchiai.
I due passeggeri erano scesi a Bologna.
Ce ne erano degli altri.
Guardai Maura, le sorrisi.
Ricambiò debolmente, quasi forzatamente.
Mi chinai verso lei, le presi la mano.
Lei parlai con voce bassa, appena un sussurro.
‘E’ stato bellissimo, tesoro.
Ti &egrave piaciuto?’
‘Credevo di dover vomitare.’
‘Ma tesoro, sono tutte proteine!
Insomma, ti &egrave piaciuto o no questa conoscenza?
Ora ne conosci volume e sapore.’
‘Veramente’ io”
‘Hai visto come entra bene?
Sai, entra bene dappertutto”
‘Cio&egrave?’
‘Niente’ niente”
Mi raddrizzai.
Rimasi così a lungo, come guardando nel vuoto, o fuori.
Mestre.
Prendemmo il bagaglio, scendemmo.
Alvise ci attendeva.
Abbracci, presentazioni.
Lui divenne serio improvvisamente.
‘Piero c’&egrave uno sgradevole imprevisto.’
‘Cio&egrave, &egrave urgente e indispensabile la tua presenza in ufficio, a Roma, domattina. Ci sono problemi che solo tu puoi risolvere.’
Maura mi guardò, frastornata.
‘Come, Piero deve tornare a Roma. Quando?’
Alvise la rassicurò.
Non si preoccupi, lei rimane nostra ospite, mia sorella sarà felice di farle compagnia. La presentazione al consiglio dei professori e per domattina alle nove. Sono sicuro che Piero, sbrigato tutto, tornerà a riprenderla, ma lei dovrà fermarsi almeno due giorni con noi.
Maura mi guardò, impaurita, stava per piangere.
Si rivolse di nuovo ad Alvise.
‘E quando dovrebbe ripartire?’
‘Tra un quarto d’ora c’&egrave, proveniente da santa Lucia, il rapido Venezia Roma, &egrave una fortuna. Questa sera sarà a casa, dalla sua Ida.
Anzi, Piero, salutamela tanto.’
La mano di Maura era gelida, sudata, quando mi salutò, prima che io salissi sul rapido che mi riportava a casa.
Mentre abbracciavo Alvise trovai il modo di dirgli, piano, sottovoce.
‘Grazie, sei stato grande, proprio come avevamo convenuto.’
Salii sul rapido, pregustando la notte che avrei trascorso con Ida.
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